Roberto Silvestri
Cannes.
Una volta - è un fatto di cronaca -
un grande direttore d'orchestra italiano si rifiutò di suonare per
la regina Elisabetta perché gli avevano imposto il programma. Adesso
un regista e sceneggiatore italiano, già 'oscarizzato', chiede scusa
a Sua Maestà e, con l'aiuto della più monarchica delle star
britanniche conservatrici, l'incidente è chiuso...Peccato, avremmo tanto voluto che citando "Una pallottola spuntata 2 e mezzo", anche questa volta la regina Elisabetta facesse un bel volo. Ma il compito di questo film, diretto da un secondo magnifico quarantenne, è annientare la generazione dei padri e tornare, back to the future, ai nonni......
Si apre da oggi per il nuovo film di
Paolo Sorrentino, “Youth” (Giovinezza, più in senso mediceo che
fascista), dedicato a Francesco Rosi, la strada per la palma d'oro e
per l'oscar come migliore film in lingua inglese dell'anno. Il
dialogo del film fa ridere, a volte. Fa anche piangere (specialmente
nell'aria finale). Luca Bigazzi, direttore della fotografia, come
sempre sa costruire, specialmente in montagna “visioni stillanti
d'alba iridata”, passando con disinvoltura dal pieno tonale al
delirio cromatico... Più che un “motion picture” è un “emotion
picture”, visto il bouquet sinistre. Eppure, a giudicare
dall'accoglienza critica nella grande sala Lumière di Cannes, buona
ma non super, la strada sarà in salita. Il puzzle non è facile da
mettere insieme, anche se ogni tesserina è assai adornata. Da oggi
ognuno darà la sua interpretazione. Specialmente i direttori di
giornali. Ma attenzione le trenta frasette ad effetto vanno mescolate
con i valori ottici del film. La superbia visuale non manca. E questa
volta a combatterla e eroderla non è il chiacchiericcio della classe
dominante nullafacente romana, ma l'arte di un musicista cosmopolita
che non vuole più comporre, che crede nell'opera d'arte non come
metafisico “capolavoro assoluto”, ma come liberazione di
sentimenti in forma di gratuito, irretribuibile, lavoro umano”, ma
si accorge che oggi mettere caos nell'ordine, per esempio storpiando
fecondamente il gesto del braccio di un violinista in erba, è peggio
che demodé. E anche quella di un cineasta travolto
dall'incarognimento dei tempi e da chi crede che il futuro del cinema
sia solo nella gioconda libertà totale di una serie tv, che gioca e
violenta gli stessi standard e gli stessi format capovolti...
Fred, compositore inglese in pensione,
della filiera neotonale Stravinski-Britten (Michael Caine,
nell'imitazione perfetta di Michael Caine, non fosse per un certo
litigio con gli abiti), e Mick, regista hollywoodiano al lavoro su
una nuova sceneggiatura, tanto scoppiettante quanto lui è depresso
(Harvey Keitel in dionisiaca forma), vecchi amici da sempre, si
ritrovano in un hotel di lusso del sud Tirolo alpino, al di qua di
“Sils Maria”.
E, alla fine del cammino di una lunga
vita di successi artistici, passano quelle agiate vacanze estive da
ottantenni più apatei che apatici, maltrattando con sarcasmo
pregiudizi e frasi fatte e ricordando, tra luci abbaglianti e colori
caldi e densi, i vecchi tempi e i nuovi acciacchi. A un messo della
Regina Elisabetta che gli chiede una grande rentrée risponde picche.
Una sua composizione, “La canzone semplice” è stata scritta solo
per sua moglie, malatissima e afona, che è l'unica ad averla mai
interpretata e pubblicata su disco.
I protagonisti di questo “buddies
movie” heavy metal, più ambizioso di quelli con Matthau e Lemon,
perché Wilder è il regista d'affezione numero uno di Sorrentino, ma
i maestri se non vanno superati vanno almeno appesantiti,
puntualizzano, quasi fossimo in un racconto di Wedekind, gli esiti di
loro antiche e cruciali rivalità sentimentali che li divisero 50
anni prima. Di giorno e di notte sognano, fanno incubi o temono
incanti (una sceneggiatura dal finale che finalmente funzioni; un
concerto di vecchia consonanza per campanacci di mucche e uccelli; la
lievitazione di un monaco buddista...). Litigano con i figli,
sciocchi, vettisti e incompresi (Rachel Weisz è la figlia di Fred,
piantata dal figlio di Mick per una succedanea di Madonna) ma poi li
confortano e li sanno commuovere. Subiscono allucinazioni oniriche e
deformazioni di focale, quando entrano per distrazione, ma con
tatto, o dentro film altrui (non solo in “8 e mezzo”, ben
colorizzato, ma anche in un qualunque Seidl) o in copertine di dischi
(dei Pink Floyd?) o in istallazioni d'arte (di Cindy Sherman?). O
scommettono sul nonnulla, come due angloamericani in un thriller di
Hitchcock, mentre pasteggiano gin martini con l'oliva. E si fanno
contagiare dalle fantasie su insorgenti bellezze pop (c'è perfino
una Miss Mondo di passaggio, quella nuda del poster) e castigano i
nuovi costumi e il dilagare del cattivo gusto. Con la distanza e
l'umorismo d'obbligo di chi, saggio e scettico, sa di avere i giorni
contati ed è consapevole che solo il kitsch pesante (come
quell'Hitler in libera uscita, l'attore hollywoodiano che legge
Novalis ma è stato intrappolato come star da un blockbuster che lo
ha trasformato in robot; o la caricatura affettuosa di Maradona
grasso come Pavarotti ma che palleggia assieme a dio con una pallina
da tennis gialla) aiuta, dove il kitsch leggero regna. “La
leggerezza”, dirà il musicista Fred, al massimo dell'ispirazione,
è una qualità perversa... E anche la romantica ispirazione, a cui
Sorrentino parrebbe contrapporre una più culinaria, materialista e
metamorfosizzante “fermentazione”. Di fondamentale importanza la
presenza di Jane Fonda che si sbarazza con facilità irrisoria del
doppio strato di cerone che la mummificano e dice sul copione di
Sorrentino cose brutali che solo un cineasta diventato
improvvisamente autoironico e umile poteva osare scrivere. Alle
opere che mai volessero lagnarsi delle sempre nuove deformazioni
della buona critica su di esse, Jane Fonda, come Corneille alla
Marquise, potrà sempre rispondere: “Vous ne passerez pour belle –
Qu'autant que je l'aurait dit”.
L'hotel, come microcosmo, e come ogni
hotel di lusso che si rispetti, sia un set di Marguerite Duras o
Sergio Corbucci, di Alain Resnais o Wes Anderson, del Kubrick più
horror o del Fellini più eroticamente privato, è uno spazio double
face. Realtà (fanghi, piscine calde, saune, piccole prostitute
timide, massaggi inebrianti, cene squisite...) e fantasia si
confondono. Paesaggi incantevoli rivaleggiano con il direttore della
fotografia a chi è più bravo ad accentuare, posizionare e
ombreggiar le luci.
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