Cannes
Premessa. Un grande film africano che doveva essere presentato in concorso e invece lo hanno relegato negli eventi speciali. In sala, alla proiezione della Bazin, non c'era nessuno. Solo gli appassionati e gli studiosi del cinema africano. Un brutto segno. Proprio quando tutti sperano che il Fespaco del 2017 segnerà il ritorno del grande cinema africano libero nel consesso internazionale, l'aiuto che dà Cannes non è quello che mierita il cinema più bello e più sofferente. Una scommessa. A Cannes a Roma e a Cannes a Milano Oka di Souleymane Cissé ci sarà?
Mamme, nonne, famiglie, e poi
persino la legge del mercato. Sembrerebbe un festival
catto-liberista dedicato a Casini. E adesso anche O Ka,
l'attesissimo film di un patriarca del cinema africano, il maliano,
marxista-animista Souleymane Cissé. O Ka,
tradotto dal bambara, significa La Casa.
Il meno narcisista dei film
raccontati in voce off dal regista stesso. Ricorda solo il doc su
Charlie Mingus sfrattato di casa. Che si barrica dentro con il fucile
e aspetta che l'ufficiale giudiziario di faccia avanti.
Ma
qui, in questo documentario di poesia, film militante in versi,
ritmato dalla davvero “semplice canzone” di Selif Keita e dagli
altri mostri sacri della musica africana come Yussou N'Dour, i valori
fondamentali c'entrano, ma non per propaganda, demagogia o ipocrisia
clericale. Giovanardi non gradirà. In prima persona singolare
maschile Cissé racconta la sua storia e quella della sua famiglia e
dell'etnia Sononké. Le foto del nonno, la stanza del padre, preclusa
a tutti, l'ossessione della cultura, i racconti tramandati di padre
in figlio, come quello di sua madre che si getta fuori casa per
salvare il figlio aggredito non da uno sciame ma da un intero cielo
trasformato in pece nere da milioni e milioni di vespe assassine.
Anzi tutto parte proprio da una leggenda, atroce e insostenibile come
ogni fiaba che Pasolini avrebbe adorato e che non sia vagliata
dall'ufficio censura di Rai Cinema.
Il
mito fondante parla di un serpente-demone che per assicurare il
benessere perenne e una intatta potenza, alla popolazione locale
chiede in cambio, solo per sé, la più bella vergine della tribù.
Una vittima all'anno. Violenza insostenibile. Atroce prepotenza, no?
Ma quando ci si ribellerà al sacrificio disumano preteso dagli dei,
miseria e disfatta sgretoleranno l'Impero. La leggenda è metaforica.
Quello che si richiede davvero, al di là del letteralismo che
inebria solo il più ottuso razzista, è la fondazione del patto
etico collettivo. Il riconoscimento di una intesa di fondo
comunitaria, di leggi eque, dello stato di diritto che tuteli la
dignità e la libertà di tutti, uomini e donne, indistintamente.
Certo, come al solito si gioca sulla pelle delle donne, ma il
“matriarcato africano” ha anche i suoi lati b. Sono le donne
anche nel film che guidano la lotta. Che si dimostrano ostinate e
inossidabili. E' una donna che inizia il montaggio del film, André
Davanture, una artista francese che ha regalato per tutta la vita la
sua magnifica sensibilità musicale per le immagini ai più
coraggiosi registi africani. Ora è morta, ma anche con questo film
resterà nella storia del grande schermo. E poi ricordiamoci, parlare
di casa in Africa non è privatizzarla. E' parlare di un “bene
comune” perché la proprietà non è solo catastale . Chi abita
quella casa sono i guardiano della memoria, di una storia collettiva.
Ora.
Se la leggenda è una allegoria arcaica, la storia ci dice che in
effetti il potere del re Samory Touré (1830-1900), un leader che
costruì nell'Africa Occidentale un rigoglioso e possente stato
islamico (anche grazie al ruolo fondamentale giocato dalla etnia...
Cissé) che resistette con le armi per 16 anni all'aggressione
imperialista e crollò proprio quando la corruzione e l'opportunismo
di qualcuno permise, dall'interno, al colonialismo francese e inglese
di sbriciolare alla fine dell'800 uno dei grandi tesori dell'umanità,
la civiltà Wassoulou. Geograficamente era un Impero che comprendeva
gli attuali stati del Mali, Guinea, Sierra Leone e il nord della
Costa d'Avorio. Capitale Bissandugu. Sekou Touré, primo presidente
della Guinea indipendente, era un pronipoti di Samory. Sembene
Ousmane, il fondatore del cinema africano, aveva un grande progetto
inattuato, un kolossal su Samory. E Cissé nel 2013 ha proprio
realizzato nel 2013 un ritratto dell'autore di Le noir de
(il capolavoro riproposto, restaurato da Bologna, nella sezione
Cannes Classic), O. Sembene.
Souleymane Cissé oggi |
Le
quattro donne sbattute fuori di casa nonostante la loro età e i loro
diritti, si piazzano però fuori dalla porta. Il valore del conflitto
sfugge ai nostri Renzi. Che ne imparino l'essenza. Senza lotta niente
sviluppo. Niente cambiamento. Niente crescita. Le “vecchie”
ottengono la solidarietà del quartiere. E perfino di una poliziotta
che si rifuta di indossare una divisa così indegna. Si mobilitano
gli intellettuali. Ricevono addirittura un premio dal 4° festival
del cinema di Bamako. Cissé regista si dà da fare per mobilitare
l'opinione pubblica del continente. E alla fine la corte supreme è
costretta a bloccare la o sfratto, fermare la speculazione edilizia e
chiedere scusa. Intanto Cissé ha raccontato la storia della sua vita
dedicata al cinema, dai primi spettacoli con le ombre e i pupazzi
ritagliati nella carta alle riprese tra le dune dorate di Yeelen,
dove a recitare è ancora un Cissé, il nipotino piccolo. La casa di
Cissé non è tanto l'appartamento quanto l'intero paese. E non solo
i suoi abitanti umani con il loro bisogno di giustizia e il loro
rifiuto di essere umiliati, anche se sono diversi, albini come Selif
Keita. Ma anche la natura, i paesaggi, gli alberi secolari, i fiumi,
il cielo, le galline, un cavallo bianco, le formiche e i millepiedi,
una mandria di struzzi dalle eleganti “scarpette” che volano come
il vento. “Perché il fuoco va dove vuole”, come dice un saggio
marabout.
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