giovedì 21 maggio 2015

The Great Black Cinema. "O ka". La casa di Souleymane Cissé. Selezione ufficiale fuori concorso.



Roberto Silvestri

Cannes

Premessa. Un grande film africano che doveva essere presentato in concorso e invece lo hanno relegato negli eventi speciali. In sala, alla proiezione della Bazin, non c'era nessuno. Solo gli appassionati e gli studiosi del cinema africano. Un brutto segno. Proprio quando tutti sperano che il Fespaco del 2017 segnerà il ritorno del grande cinema africano libero nel consesso internazionale, l'aiuto che dà Cannes non è quello che mierita il cinema più bello e più sofferente. Una scommessa. A Cannes a Roma e a Cannes a Milano Oka di Souleymane Cissé ci sarà?    

Mamme, nonne, famiglie, e poi persino la legge del mercato. Sembrerebbe un festival catto-liberista dedicato a Casini. E adesso anche O Ka, l'attesissimo film di un patriarca del cinema africano, il maliano, marxista-animista Souleymane Cissé. O Ka, tradotto dal bambara, significa La Casa. Il meno narcisista dei film raccontati in voce off dal regista stesso. Ricorda solo il doc su Charlie Mingus sfrattato di casa. Che si barrica dentro con il fucile e aspetta che l'ufficiale giudiziario di faccia avanti.
Ma qui, in questo documentario di poesia, film militante in versi, ritmato dalla davvero “semplice canzone” di Selif Keita e dagli altri mostri sacri della musica africana come Yussou N'Dour, i valori fondamentali c'entrano, ma non per propaganda, demagogia o ipocrisia clericale. Giovanardi non gradirà. In prima persona singolare maschile Cissé racconta la sua storia e quella della sua famiglia e dell'etnia Sononké. Le foto del nonno, la stanza del padre, preclusa a tutti, l'ossessione della cultura, i racconti tramandati di padre in figlio, come quello di sua madre che si getta fuori casa per salvare il figlio aggredito non da uno sciame ma da un intero cielo trasformato in pece nere da milioni e milioni di vespe assassine. Anzi tutto parte proprio da una leggenda, atroce e insostenibile come ogni fiaba che Pasolini avrebbe adorato e che non sia vagliata dall'ufficio censura di Rai Cinema.
Il mito fondante parla di un serpente-demone che per assicurare il benessere perenne e una intatta potenza, alla popolazione locale chiede in cambio, solo per sé, la più bella vergine della tribù. Una vittima all'anno. Violenza insostenibile. Atroce prepotenza, no? Ma quando ci si ribellerà al sacrificio disumano preteso dagli dei, miseria e disfatta sgretoleranno l'Impero. La leggenda è metaforica. Quello che si richiede davvero, al di là del letteralismo che inebria solo il più ottuso razzista, è la fondazione del patto etico collettivo. Il riconoscimento di una intesa di fondo comunitaria, di leggi eque, dello stato di diritto che tuteli la dignità e la libertà di tutti, uomini e donne, indistintamente. Certo, come al solito si gioca sulla pelle delle donne, ma il “matriarcato africano” ha anche i suoi lati b. Sono le donne anche nel film che guidano la lotta. Che si dimostrano ostinate e inossidabili. E' una donna che inizia il montaggio del film, André Davanture, una artista francese che ha regalato per tutta la vita la sua magnifica sensibilità musicale per le immagini ai più coraggiosi registi africani. Ora è morta, ma anche con questo film resterà nella storia del grande schermo. E poi ricordiamoci, parlare di casa in Africa non è privatizzarla. E' parlare di un “bene comune” perché la proprietà non è solo catastale . Chi abita quella casa sono i guardiano della memoria, di una storia collettiva.
Ora. Se la leggenda è una allegoria arcaica, la storia ci dice che in effetti il potere del re Samory Touré (1830-1900), un leader che costruì nell'Africa Occidentale un rigoglioso e possente stato islamico (anche grazie al ruolo fondamentale giocato dalla etnia... Cissé) che resistette con le armi per 16 anni all'aggressione imperialista e crollò proprio quando la corruzione e l'opportunismo di qualcuno permise, dall'interno, al colonialismo francese e inglese di sbriciolare alla fine dell'800 uno dei grandi tesori dell'umanità, la civiltà Wassoulou. Geograficamente era un Impero che comprendeva gli attuali stati del Mali, Guinea, Sierra Leone e il nord della Costa d'Avorio. Capitale Bissandugu. Sekou Touré, primo presidente della Guinea indipendente, era un pronipoti di Samory. Sembene Ousmane, il fondatore del cinema africano, aveva un grande progetto inattuato, un kolossal su Samory. E Cissé nel 2013 ha proprio realizzato nel 2013 un ritratto dell'autore di Le noir de (il capolavoro riproposto, restaurato da Bologna, nella sezione Cannes Classic), O. Sembene.
Souleymane Cissé oggi
Per il suo atteso ritorno, è del 1995 il suo ultimo lungometraggio a soggetto di ambizioni internazionali, Waati) dietro la macchina da presa il regista di Yeelen (75 anni, 8 film in tutto, studi a Mosca, premi internazionali per Den Muso, Baara, Finyé...) che fa sempre parlare gli alberi e per gli effetti speciali chiede consiglio e trucchi molto poco costosi agli stregoni - bisognerebbe invitarlo nel Salento per salvare gli ulivi - torna a casa sua, in un antico quartiere di Bamako centro, Bozola, nei pressi di uno dei grandi mercato dell'Africa Occidentale, e racconta la lotta delle sue quattro sorelle, Magnini Koroba, Aminata, Badjénèba e M'Ba, sfrattate ingiustamente dall'appartamento di famiglia, dei Cissé fin dagli anni 20 del secolo scorso, con tanto di polizia armata di sfollagente e in assetto anti guerriglia. Arrivano un giorno del 2008 con un mandato del giudice e buttano via tutto, anziane donne comprese. Il magistrato corrotto ha accolto la documentazione di proprietà (spudoratamente, grossolanamente falsa) della famiglia Diakité che aveva beneficiato negli anni 40 dell'ospitalità dei Cissé. Perché quei prestanome (corrotti) sono coinvolti in un progetto di sviluppo dell'area che prevede distruzione delle case e costruzione di un centro commerciale. E' la gentrificazione, bellezza. Guidata dal falso idolo dello sviluppo proprio come nel nord del paese i guerriglieri di Boko Haram, in realtà disoccupati ben armati e finanziati dei petrodollari sauditi e wahabiti, stanno inventando il fantomatico Califfato terrorista inneggiando a falsi idoli religiosi. La distruzione nel 2012 del mausoleo di Timbuctù non è stata una ferita solo per gli archeologi occidentali, ma un attacco all'identità maliana, al suo equilibrio panteista, al rispetto dei morti, agli spettri che ci invitano a combattere per l'amore contro l'odio. Non solo per noi e per il nostro futuro. Ma per tutelare e migliorare il nostro passato.
Le quattro donne sbattute fuori di casa nonostante la loro età e i loro diritti, si piazzano però fuori dalla porta. Il valore del conflitto sfugge ai nostri Renzi. Che ne imparino l'essenza. Senza lotta niente sviluppo. Niente cambiamento. Niente crescita. Le “vecchie” ottengono la solidarietà del quartiere. E perfino di una poliziotta che si rifuta di indossare una divisa così indegna. Si mobilitano gli intellettuali. Ricevono addirittura un premio dal 4° festival del cinema di Bamako. Cissé regista si dà da fare per mobilitare l'opinione pubblica del continente. E alla fine la corte supreme è costretta a bloccare la o sfratto, fermare la speculazione edilizia e chiedere scusa. Intanto Cissé ha raccontato la storia della sua vita dedicata al cinema, dai primi spettacoli con le ombre e i pupazzi ritagliati nella carta alle riprese tra le dune dorate di Yeelen, dove a recitare è ancora un Cissé, il nipotino piccolo. La casa di Cissé non è tanto l'appartamento quanto l'intero paese. E non solo i suoi abitanti umani con il loro bisogno di giustizia e il loro rifiuto di essere umiliati, anche se sono diversi, albini come Selif Keita. Ma anche la natura, i paesaggi, gli alberi secolari, i fiumi, il cielo, le galline, un cavallo bianco, le formiche e i millepiedi, una mandria di struzzi dalle eleganti “scarpette” che volano come il vento. “Perché il fuoco va dove vuole”, come dice un saggio marabout.

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