giovedì 30 maggio 2013

To touch or not to touch? Lubitsch torna sul grande schermo

di Roberto Silvestri


Carole Lombard
To Be or not To Be nei cinema. Esce, solo nel week end, in alcune città italiane, da Roma a Milano, da Torino a Bari, To Be or not to be di Ernst Lubitsch. Un film in bianco e nero del 1942, di formato 'quadrato' anti televisivo (vedi articolo di Rinaldo Censi sul manifesto di ieri) per sale specializzate. Londra, Parigi, New York e Los Angeles hanno già dimostrato la bontà anche commerciale di queste uscite cinematografiche stravaganti. E non solo per lanciare un dvd e un restauro. E non  solo per aprire canali tv a pagamento tematici dedicati al bianco e nero e perfino al 'silent movie'. Vedremo se l'Italia, festival a parte, si allineerà. Certo è un avvenimento che tutta la stampa ha affiancato, ringraziando chi (la Teodora di Vieri Razzini e Cesare Petrillo) sta aprendo, anche per la difficile estate senza blockbuster, un ulteriore e antagonista ipotesi di mercato.
Ma chi era Lubitsch. Cosa era il suo 'tocco'?
Non ha mai vinto un Oscar né il New York Film  Critic Award. Anzi non ha mai neanche finito le scuole. A lavorare subito, e sodo, nel negozio del padre - ebreo russo - di giorno e sulle scene teatrali del vaudeville di notte. Come Chaplin, Keaton, i Marx Brothers e Jerry Lewis. Fa troppo ridere. I premi li vincono i tragici, che sono gli artisti più comicamente coperti.
Il film perfetto. Eppure se pensiamo al 'film perfetto' è a Ernst Lubitsch, il più americano degli esuli tedeschi, che torniamo. A quel cocktail, come scrisse Patrick Brion di ferocia critica e simulazione del grande sì apologetico all'esistente, di 'von Stroheim e Oscar Wilde', di witz yiddish e di humour nero british, che confluisce nell'ironia cinica del motto di spirito e del gioco sublime di parola con i quali sferza irreversibilmente la frivolezza e l'aridità sentimentale di aristocratici britannici, commercianti ungheresi, borghesi francesi, rivoluzionari poco conseguenti e grotteschi dittatori...
Il teatro meno teatralmente possibile. E dunque pensiamo soprattutto al sarcasmo, usato come un potente missile V2 di  To Be or Not To Be (1942), ovviamente. Il film che esprime Lubitsch più compitamente: il rapporto tra il mondo del teatro (Amleto, Shylock, la farsa politica anti hitleriana, il 'traditore', simulatore per eccellenza) e quello della realtà, che è metamorfosi, sensualità, non rigidità terragna, ossario dell'identità, non è mai stato più evidente (l'infiltrato Siletzsky, più che Hitler, è il simbolo del riciclaggio dei boia in democratici che affligeranno per decenni il dopo-fascismo, in Italia, Giappone, Germnaia, Austria e non solo). Allorché sono in pericolo di vita gli attori divengono prigionieri dei loro ruoli e la loro vita non dipende da altro che dalla perfezione della loro recitazione.
Il film preferito da Straub. Ma pensiamo anche a un altro film modernissimo, a Trouble in Paradise (1932), la commedia ultrà che possiede ogni tipo di virtù: la grazia e l'eleganza degli anni 20, la coscienza egualitaria degli anni trenta, le virtù visuali del cinema muto e quelle verbali del parlato. Oltretutto è pure nella top ten di Jean Marie Straub...
O alle commedia americane 'perfette' Design for Living (1933), If I had a million (1932) e ad Angel (1937), o del 'rimatrimonio' come That Uncertain Feeling (1941), tutti film di sofisticato gioco a incastro tra insieme e dettaglio, horror e piacere, comico e cosmico,  che, come nel pioneristico Die Puppe del 1919, indagano sui rapporti tra la verità e il teatro, tra quelli che sono imprigionati da, o giocano un ruolo (perfino da "rivoluzionari", come in Ninotchka, 1939, l'anno del famigerato patto Ribbentrov-Molotov) e quelli che vivono la loro vita. Con stile.
I difetti di un film perfetto. 'Perfetti' questi film non furono assolutamente giudicati, all'epoca. Era in particolare il cast, sempre, sbeffeggiato e disequilibrati rispetto al copione: Gary Cooper e Fredrich Marsch fuori parte in Design for Living. Chevalier troppo vecchio per The Merry Widow (altro film culto di Straub-Huillet), Marlene Dietrich troppo rigida per Angel, James Stewart e Margaret Sullivan troppo impertinenti per The Shop Around the Corner,  Carol Lombard e Jack Benny troppo disarmonici e sfasati in To be or not to be, Gene Tierney e Don Ameche troppo ingenui per Heaven Can Wait, Jennifer Jones e Charles Boyer troppo forzati in Cluny Brown...
Truffaut lubitschiano. A tutti quei critici Truffaut rispose definitivamente: "Se voi mi dite: ho visto un Lubitsch nel quale c'era un piano inutile io vi tratterò da bugiardi. Quel cinema, al contrario del vago, dell'impreciso, dell'informulato, non comporta alcuna sequenza decorativa, che sia messa lì per star bene. No, si è nell'essenziale fino al collo. Sulla carta una scenegiatura di Lubitsch non esiste, non ha alcun senso, dopo la proiezione neppure, tutto succede mentre si guarda". Altro che il 'tocco' solamente, titolo del saggio 1968 di Herman G. Weinberg, che è un termine un po' riduttivo e vagamente ispirato a una condiscendenza sociale. Lubitsch era delle classi basse.. Sotto sotto il 'tocco' è qualcosa di volgare. Non è inutile che nel suo bellissimo saggio Bruno Fornara (Non essere o essere?) scritto in occasione della retrospettiva di Bergamo Film Meeting, ne spieghi la profondità: è il maestro delle porte chiuse  che, nascondendo, svelano, il "gioco sospeso tra il mostrare e il velare, il pendolo tra il malizioso e il malinconico, tra l'esilarante e il profondo, il geometrico e l'effimero". Il 'tocco', come gioco binario di spostamenti e raddoppiamenti, apparizioni, rovesciamenti e abbassamenti del punto di vista sono condotti sempre in modo perfetto. "Diciamolo una volta per tutte: tutto in Lubitsch è perfetto, la coordinazione tra scena e dettaglio, tempi e spazi, sguardi e punti di vista, dialoghi rumori, musica, recitazione... Eppure Guido Fink non è così d'accordo. Anche l'imperfezione è un ingrediente del doppio gioco dell'immaginario.  Che siano anzi proprio quei i corpi fuori età, fuori tono, anacronistici dentro un complesso interagire di universi interdipendenti, di classi morti e classi vive, di storia da operetta e di tragedia catastrofica a fabbricare alchemicamente la speciale 'immagine Lubitsch'?
Quando prendeva in giro l'America. E rivediamo così, grazie a quella carrellata in avanti truffauttiana verso il primo piano, quel sorriso smagliante di Lubitsch, il suo sigarone fumante, un palato da gourmet. Si mangia sempre e tanto nei Lubitsch, perché lui nella Germania della svalutazione dei Reichsmark, come tutti, nuotava come un ingenuo, un dummkopf, nell'inflazione, che è la periodica e "pericolosa" scivolata, nel ciclo del capitale, a causa della quale, mentre i pesci grandi divorano quelli piccoli, i valori convenzionali diventano decrepiti e inservibili e si sperimenta di tutto, al di là della ragione, anche la rivoluzione (non sempre proletaria). E poi era facile rifarsi i soldi, bastava vendere quei film, Sumurum (1920) o La principessa delle Ostriche (1919) in Olanda e Svizzera. Certo, però, quei pubblici bisognava scandalizzarli.
E rievochiamo l'attore Lubitsch, tecnicamente attrezzato, formato da Max Reihnardt (lo spettacolo scenico in tutto il suo splendore e efficacia, da Shakespeare ai boulevardier francesi, dal realismo all'espressionismo) e il regista talentuoso di teatro, e poi il comico 'immigrato, affamato e vagabondo' che nei primi corti del cinema muto si faceva chiamare 'Meyer', un piccolo ebreo venuto a Berlino dalla provincia, magari da Ravistsch, Poznam, come in The Pride of The Firm (1914),  metà indifeso, shliemel, il sempliciotto, o nebbish e al tempo stesso sfrontato e incosciente come I tre amigos, che davanti a ogni difficoltà, nella vita militare o tra le montagne, si chiedeva, come nella popolare canzone dell'epoca: "E adesso il piccolo Meyer cosa escogiterà sull'Himalaya?".
Figlio del kolossal all'italiana. E ripensiamo alla troppo breve vita del regista (1892-1947) trascinato in Usa da una avveduta e saggia Mary Pickford, ben prima di Murnau e Lang, perché sapeva sprigionare tanta umanità e sfumature intime (Madame Dubarry, 1919, Anna Bolena, 1920) dai 'drammonii storici all'italiana" con i loro imponenti movimenti di massa che, tra il 1912 e il 1916, avevano conquistato il mondo intero e sedotto perfino Griffith. E nei suoi film perennemente innovativi, e soprattutto in quelli 'transgenere', ebbe la fortuna di 'suonare' con quattro forze della natura consonanti: Margaret Sullivan (The Shop Around the Corner, una stramberia operaia), Gene Tierney  (Heaven Can Wait: l'educazione contro l'istinto in un mondo sottosopra), Jennifer Jones (Cluny Brown) e naturalmente Carol Lombard, proprio nella farsa anti-nazista To Be or Not to Be, giudicata certo un po' troppo di cattivo gusto, soprattutto nella battuta di un nazista: "I Tura? Sì ricordo quella compagnia teatrale di Varsavia.... Ha trattato Shakespeare come noi la Polonia".
Dreyer? Un regista senza futuro. E ritroviamo nostro contemporaneo il regista di commedie sentimentali Lubitsch, capace di far arrossire i sentimenti (The Marriage Circle) più ancora degli uffici di censura, e di musical (The Love Parade,  Monte Carlo, Merry Widow) che decretarono la fine, su questo pianeta, di un genere che aveva esaurito nella guerra a Hitler e a Mussolini la sua missione. I dittatori non danzano. Urlano. Non cantano. Il cineasta che seppe superare il muro tra gli anni 30 e gli anni 40, e quello della censura (1934) più di Borzage, Clair, Mamoulian, Milestone e Vidor (che si riprese nei 50). Il produttore (di immenso) potere alla Paramount, proprio come Thalberg alla Metro e Leammle all'Universal, che aveva osato dichiarare da cucciolo della Giovanna d'Arco di Dreyer: "E' un meraviglioso tour de force, ma non porterà il cinema da nessuna parte. Nessuno può imparare da uno stile di espressione troppo individuale". Pochi cineasti possono vantarsi invece di avere influenzato, come Lubitsch, registi così diversi come Ophuls (The Baterde Bride), Hitchcock (Waltzes from Vienna), Bergman (Sorrisi di una notte di mezza estate), Renoir (La Règle de jeu), Mamoulian (Love me tonight), Chaplin (La Contessa di Hong Kong), Lewis Milestones (Paris in the Spring), Joseph L. Mankiewicz (Dragonwych), Otto Preminger (La signora in ermellino) e molti Preston Sturges, Mitchell Leisen, Frank Tuttle e Billy Wilder... E oggi? Chi è il suo erede?

lunedì 27 maggio 2013

Un gladiatore di Massenzio. E' morto Angelo Vittorioso


di Roberto Silvestri

Proprio mentre la città si riaccostava con la migliore sinistra laica, dopo la parentesi funesta di questi 5 anni, atroci per la cultura, e la Lazio umiliava la Roma, è morto a Roma, forse un po’ più riappacificato con i suoi concittadini, uno dei protagonisti più abili, simpatici e spregiudicati della ‘rivoluzione Massenzio’, Angelo Vittorioso. Era il ‘Little Tony dei cinefili’, un appassionato studioso di frontiera, un carissimo amico a cui invidiavo curiosità extraoccidentale, sapienza del territorio, abilità organizzative ‘rock’ e stomaco ‘heavy metal’ tali da smontare e bypassare qualunque ostacolo burocratico capitolino. Ed erano tanti, allora sì che c’era la Casta, ed era pure principesca e nerissima. Mi ricordo le litigate con i distibutori quando chiedevamo per il club-cine Politecnico dei film che per noi erano magici e per loro vecchi fondi di magazzino, che so, un vecchio Mario Bava, e ci chiedevano la stessa tariffa di noleggio che pretendevano per un blockbuster dell'Adriano… 
La storia di Vittorioso è lunga, ma importante. Comunista, apparentemente il tipico romano da ‘sezione’ periferica, buon giocatore di football, laziale - quella strana forma di dandysmo calcistico, umorismo blasé, una generazione più adulta e pragmatica della nosta, quella dei ventenni di allora, Bruno Restuccia, Giancarlo Guastini, Gianni Romoli, Silvia Viglia e Roberto Farina (che di quel capitolo sono stati i cosmonauti più fantasisti e creativi) fu il vero pioniere, alla fine degli anni sessanta, nella riconversione dei cine-club da vigili urbani dell’immaginario, cattolici o comunisti che fossero, in spazi dinamici, laici ed esplorativi. Era stato infatti uno dei protagonisti della salutare ‘rottura Aiace’. 
Roma in quegli anni (ma anche Genova, Torino, Napoli, Padova, Milano, Bari…) fabbricava consumo vivo e spregiudicato attraverso un network, muscolare e sudato, non ancora immateriale, di cinema d’essai. E restano mitici gli affondi cosmopoliti della sala più incandescente di tutte, il Nuovo Olympia (dove Godard, Rocha, Antonioni, Bunuel e Fellini scatenavano tifo da stadio). O del Planetario, che negli anni sessanta ci fece scoprire Dreyer e Bergman e gli espressionisti tedeschi. O, nei primi anni 70, del Rialto, oggi spazio fantasma, dannato nell’eternità per aver scodellato a un passo dal Vaticano una delle rassegne storiche sul cinema pornografico radicale e post maschilista (Gola profonda, The Devil in Miss Jones, Behind the Green Door…) che non pochi guai gli procurarono, ma che per miracolo traghettarono la provinciale Roma in un ‘mood’ metropolitano. Senza Aiace romano niente Massenzio e niente Estate romana.  
Una nottata tipica di Messenzio 1976
Certo adesso, ormai, il circuito d’essai  è stato divorato e anestetizzato dalle sale, per lo più ex parrocchiali pentite, del colosso romano ‘Circuito Cinema’. Ma allora costituì l’anello mancante tra la sala commerciale e il club-cinema, una zona liberata d’immaginario che, tramite tessera associativa, permetteva la visione di film che non dovevano sottostare alla censura preventiva o di classici espulsi dal commercio mercantile e che nessuna tv privata allora poteva rigenerale. Urrà! Finalmente si stabiliva un colloquio quotidiano con le immagini fertili del passato e vive, e il tutto in contemporanea con Londra, Parigi, Berlino. 
Arrivarono fiumi di Andy Warhol, opere rivoluzionarie (pochissime, solo 3 erano tollerate da Mao) della grande rivoluzione culturale proletaria cinese, i classici del cinema muto, strappati con la forza alle cineteche, nazionai o private, rock movies coi Cream e Jimi Hendrix, i più ‘pazzi’ e lisergici underground nostri e altrui, il ‘canone rioluzionato’ dagli autori atipici nordamericani (Fuller, Siegel, Aldrich, Corman, Altman), Carmelo Bene, Jean Marie Straub, le prime agguerrite femministe, i film arabi turchi e africani, Mario Schifano… testi, più che commerciali, che venivano letti in maniera trasversale o travisati fecondamente, contro se stessi, da abili decodificatori appassionati come (gli scomparsi) Michele Mancini, Maurizio Grande, Gianni Menon, Giuseppe Turroni, Enzo Ungari.
Angelo Vittorioso aveva fondato con Enzo Fiorenza una rivista, Altro Cinema, più militante, pungente, estrema e teenager di quelle nate dalla diaspora Aristarco (Cinema nuovo e Cinema sessanta, della vecchia sinistra; Filmcritica e Cinema e Film della nuova sinistra sessantottina) e laboratorio di giovanissimi dagli occhi, dal cuore e dalle orecchie aperte (Paolo Isaja, oggi tra i nostri migliori documentaristi; Gian Domenico Curi e Teresa De Santis che scovavano a Londra e a New York gli ska, punk e rap moviea, e a Brixton le immagini giamaicane e molto fumate della generazione reggae. Dietro tutto questo c’era Angelo Vittorioso. 
il manifesto di Massenzio 1981
Non è un caso che quando Renato Nicolini decise di negare i soldi agli esercenti che, per tradizione, ogni estate andavano a battere cassa al comune di Roma per chiedere un finanziamento pubblico e coprire così i loro (colpevoli) buchi di incasso (l’aria condizionata era considerata una americanata), si rivolse ai club-cine (L’occhio l’orecchio la bocca, il più camp, con le sue maratone di peplum e di gaymovie; Il Politecnico, il più obliquamente hollywoodiano e il Filmstudio, il più avantgarde, ma ‘era Aldo Moro tra i soci) e ai più esperti Angelo Vittorioso e Fiorenza e gli chiese: ‘se questi soldi li do a voi invece che all’Anica-Anec riuscirete a organizzare qualcosa di favoloso per la città?” 
E fu Massenzio. Costato niente e che capovolse l’ordine dei desideri e la gerarchia urbana della città. Per una volta in grado di progettare l’utopia di un altro modo di vivere, di spostarsi, di comunicare, di divertirsi - basso costo -  travestendosi da pubblico in cittadinanza critica, globalizzazione 'dal basso'. E fu l’Estate Romana, i poeti di Castelporziano, il Napoleon di Abel Gance, quell' ultimo omaggio d’addio alla grande tradizione italiana della commedia, della farsa comica, del western spaghetti e dell’horror e della fantascienza, dei generi che altri, la new Hllywood, avrebbero sviluppato. L'elogio di un cinema industriale che stava morendo, manipolato male da una nuova casta a venire. L’equivalenza schermica, dal 1977 e poi per venti anni, nel flusso fertile del consumo cinematografico, di una società in lotta che non aveva paura di fabbricare 'crescita', sviluppo nello scontro, nell’attivazione estetica di tutti i sensi esistenti e di altri a venire.
Angelo Vittorioso, per decenni, al fianco di Francesco Pettarin, è stato l’organizzatore dell’Estate romana, e il presidente della cooperativa Massenzio. Una architettura mutante e desiderosa di scomparire se le tv commerciali, a pagamento e internet avessero trasmesso anche solo un po’ di quella anima politica che le aveva sollecitate. Non è andata così. Ma non è detto che il progetto di Angelo non tornerà ad essere Vittorioso. 

domenica 26 maggio 2013

Grande Cannes o mediocre Cannes?

Roberto Silvestri


Non mi piace il verdetto, ma è 'perfetto'. Il grande successo di pubblico e di stampa e l'unanimità ecumenica con la quale è stato accolto il Palmares della giuria, per 4/9 formata da cineasti extraoccidentali, ottimo, senza alcun critico o storico cinematografico, pessimo, e il trionfo, dopo 5 anni di una opera francese, scandalosa e sentimentale, ma anche digeribile come un prodotto tv generalista, proprio come all'epoca di Brigitte Bardot, non possono nascondere le perplessità che la formula del festival - l'esibizione annuale della potenza creativa francese di 'qualità'  e della gigantesca macchina promozionale della sua industria - suscita all'occhio imparziale e preoccupato per un ruolo subalterno che il cinema europeo, viziato di statalismo, sta volontariamente assumendo.
Si dice che quasi tutti i film in gara meritavano un premio. E' così solo quando l'ambizione di attraversare territori più spigolosi viene narcotizzata da un flusso più regolare e omogeneo.  Ma a fine della festa cosa consiglierei agli amici? I film di Soderbergh, Haroun, Payne, Coen,  Jia Zhan ke, Bruni Tedeschi. Ovvio Jarmusch e Polanski. Forse Desplechin (che però non ho visto). Meno della metà. Come in una normale edizione di Berlino e Venezia. E, fuori gara, troppi film si uniformano allo standard del film da festival.
Del vincitore Kechiche, poi, mi è piaciuto più il discorso durante la premiazione, un incoraggiamento forte alla rivoluzione per la democrazia e per la libertà nel Maghreb, del suo Adéle, per quanto sia una lancia spezzata in favore della libertà e dell'insorgenza delle donne, e un omaggio alle teenagers francesi. Ed è stato un gustoso atto di sadismo, da parte della giuria, rendere complici della fase artistica le due performer. Una palma d'oro, per una volta divisa in tre... Orson Welles avrebbe gradito, sono gli attori i veri director.
Il fatto che Steven Spielberg, presidente del qualificato gruppo giudicante (Kawase, Kidman, Auteuil, Waltz, Mungiu, Ang Lee e l'attrice indiana Vidya Balan), nella serata di premiazione, abbia voluto rendere omaggio all'eccezione e alla diversità culturale, i cavalli di battaglia dell'Esagono nella guerra per salvaguardare margini di manovra nazionali nell'epoca della flessibilità global, e del dominio sempre più incontrastato dei giganti audiovisivi, dichiarazione inimmaginabile dieci anni fa, fa infatti capire che una stagione è definitivamente tramontata.
Netflix, colosso internet del consumo a pagamento, e anche Apple, You Tube e Google, stanno mettendo nei guai il modello francese. Molto ben congeniato e organizzato: la salvaguardia del lavoro e dell'occupazione nazionale (il salario di cittadinanza per gli artisti del cinema qui è garantito); il coinvolgimento di banche e privati in un business così gigantesco e cruciale come quello culturale; l'attenta politica di coproduzione con cineasti provenienti da tutti i paesi del mondo (indipendenti Usa compresi, in ponte ideale con l'istituto e il festival Sundance di Redford); una cronologia dei passaggi di filiera bel rispettati; l'uso raffinato e non mafioso della tassazione dei biglietti venduti (anche dei blockbuster Usa) per sostenere sia la produzione media che 'd'autore', cioé il canone e ciò che sarà il format futuro del cinema come divertimento popolare (una manovra che l'Italia non ha mai potuto attuare, garante delle major, per lungo tempo, Andreotti). Tutto questo è fantascienza rispetto all'architettura produttiva italiana, che subisce la sua marginalità in Europa senza fare piazza pulite di leggi controproducenti e di una sistema di poliziotti dell'immaginario (i funzionari Rai e Mediaset) arcaico. Ma la Francia riuscirà adesso a reinventare tutto, a scendere a compromessi con i nuovi padroni dei media digitali e a tassare i proprietari di iphones e Samsung?
Gli Stati Uniti, che hanno trasferito tutto il loro esercito di produttori e distributori qui sulla Croisette, dai giganti delle majors ai 'pazzi' radicali della Troma ai geniali inventori di Hbo di forme innovative (non c'è qualità formale senza sostanza formale) sembrano intenzionati a far concorrenza alla Francia nella produzione e distribuzione anche dei film fuori formato che saranno i format di domani.
Lo spicchio di mercato marginale, la "nicchia" di qualità occupata finora dalla Francia è a rischio. A giudicare dal prodotto medio che è passato in passerella sulla Croisette.  Harmony Korine, Sofia Coppola Kathe Bigelow, Spielberg di Lincoln, Ben Affleck di Argo sono già gli avamposti di un altro tipo di 'cinema bis' (rispetto ai kolossal 3d eroico-mitologici). Per questo Cannes non può esimersi dal rendere omaggio a Payne, Soderbergh, a uno dei film meno 'formalisti' dei Coen, a Jarmusch (che ha fatto fischiare una proiezione stampa che proiezione stampa non è più) e Polanski (che americano in esilio è, più che europeo in stato di allerta). Ma non può premiarli troppo. Bruce Dern in qualche modo, finalmente in una parte adeguata alla sua storia di fuoriclasse della cultura contro, li rappresenta tutti, in secondo piano.
Bruce Dern



 
Da questo punto di vista l'indicazione teorica (osannata esageratamente) che ci viene dal palmares principale fa riflettere e preoccupa. La crisi degli snodi e dei giochi postmoderni è palmare. La riflessione sulla storia e sulla 'nuda vita' resa immagine dai venti film in competizione è penetrante e responsabile, gli attrezzi del mestiere sono stati lucidati e restaurati, sia nella scelta dell'affresco storico (Escalante, Jia Zhang Ke, Grey, Payne, Haroun, Takashi Miike, Soderbergh, Desplechin...) che dell'autofiction o nel grottesco metaforico (Farhadi, Valeria Bruni Tedeschi, Sorrentino, Refn, Warmerdam). Maneggiano bene i generi, il mélo soprattutto, e anche la qualità documentaristica, di cui è affamato anche il più pigro degli spettatori televisivi.  Il problema come sempre è di immagine. Aperta o chiusa, critica o chiusa in un visuale televisivo che è parola d'ordine subdolamente imposta, meticoloso inghiottimento della libertà di sguardo nella rigida accettazione di un ferreo dato simbolico immutabile (autoritario, come si vede dall'imprigionamento del binomio uguaglianza, di sessi soprattutto, e libertà, che si esprime nella rabbia salafita in Maghreb e in Egitto e nelle violente manifestazione degli integralisti cristiani  contro il diritto al matrimonio per tutti).
Il terrore dell'esplosione d'immaginario, registrato con un certo tremore, si avverte nelle due opere che più hanno affascinato lo strano pubblico della sala Lumiere. Non è Adele H., melodramma expanding e exploding, La vita di Adele capitolo 1 e 2L'amore impossibile non apre sentieri alternativi esistenziali, non scopre desideri di vita 'altra' e non contesta gli archetipi vigenti, concentrati sulla famiglia diversamente patriarcale. Ma la quiete familiare di due donne (e del loro figlio) da una parte e l'attraversamento delle turbe adolescenziali omosessuali di una ragazza che troverà presumibilmente la sua identità nella complementarità eterosessuale. L'ossessione della macchina da presa come strumento di seduzione  che Valeria Golino innesca in Miele sembra più avventurosa e 'aperta' di quella analoga di Kechiche sul volto della sua Adéle Exarchopoulos. In fondo sganciare una donna dalla passione lesbica non è il luogo comune del machio latino (e beur)?
Hitchockiano come sempre nell'attentissimo e microscopico indagare tra i sentimenti e i microsentimenti che costruiscono una azione domestica e la spostano verso il suspense, dove il crimine è nell'anima, Farhadi indica, come Jia Zhang Ke, nel passato, nelle radici, nelle tradizioni, in certe tradizioni e non in altre, nella memoria, il territorio fertile che accentua la suggestione e la fantasia e la soluzione invisibile di un duello coniugale.
Anche qui, come nel Kechiche più spettacolare (la lunga scena d'amore morbido e simulato-non simulato, esplicitamente non esplicito), la donna è in primo piano. Scutata, come nelle analisi di Laura Mulvey, dall'occhio dell'uomo. Giudicata. Condannata. In base a degli apriori fuori del tempo. Certo. Non dalla banale lettura coranica postmoderna, quella fanatica e letteralista. Ma spirituale, profonda, neoarcaica. Anche le donne sono importanti. Se al loro posto. Nella differenza. Non nell'indifferenza. Se no, rottura. Crudeltà. Cattiveria. Massacro. Viene in mente, come antidoto, un passo di La valigia del dissidente russo Sergei Dovlatov: "Tutt'attorno sorgevano e crollavano con fragore mondi misteriosi e meravigliosi.  Come corde tese allo spasimo si spezzavano rapporti umani.  I nostri amici rinascevano e morivano alla ricerca della felicità. E noi? A tutte le tentazioni e gli orrori della vita contrapponevamo la nostra unica facoltà. L'indifferenza. Ci si può chiedere: cosa c'è di più duraturo di un castello costruito sulla sabbia?... Cosa c'è nella vita familiare, di più resistente e affidabile dell'apatia di entrambi i coniugi?...Cosa ci si può immaginare di più prosperoso di due stati ostili incapaci di dfendersi?...                      

Tutti i premi

La Palma d'oro del 66° Festival di Cannes è andata a La vita d'Adele, capitolo I e II,  di Abdellatif Kechiche (Francia). Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux, le protagoniste del film, sono state associate, eccezionalmente, al premio come insostituibili creative (al film anche il premio Fipresci, assegnato da una giuria di soli critici).  5 anni dopo Laurent Cantet, Tra le mura la Palma d'oro torna in Francia. Il premio per la migliore interpretazione femminile è stato assegnato a Bérénice Bejo per Le Passé di Asghar Farhadi (Iran) e quello per la miglior interpretazione maschile a Bruce Dern, Nebraska di Alexaner Payne (Usa). Il Grand Prix lo ha conquistato Inside Llewyn Davis di Ethan e Joel Coen, mentre il premio della giuria lo ha vinto Tale padre tale figlio del giapponese Kore-Eda Hirokazu. All'autore e regista Jia Zhangke il premio per la migliore sceneggiatura per A touch of sin (Cina). Il riconoscimento per la miglior regia è andato a Amat Escalante per Heli (Messico). Asiatica la Palma d’oro 2013 per il cortometraggio, Safe (Corea del Sud) di Byoung-gon Moon (3.500 opere selezionate in rappresentanza di 132 paesi). Una menzione speciale è stata assegnata a 37/o 4S dell'italiano Adriano Valerio, allievo di Bellocchio, che vive e lavora tra Berlino e Parigi e a Whale Valley (La valle delle balene) di Gudmundur Arnar Gudmundsson (Islanda). La Quinzaine ha vinto la Camerà d'or, assegnata al miglior lungometraggio d'esordio: Ilo ilo di Anthony Chen (Singapore). 

Ed ecco i premi delle sezioni collaterali

Un Certain Regard
L'Image manquante, regia di Rithy Pahn
Premio della giuria: Omar, regia di Hany Abu-Assad
Premio per la regia: Alain Guiraudie per L'Inconnu du Lac
Premio A Certain Talent: al cast di La Jaula de Oro, regia di Diego Quemada-Diez
Premio Avenir: Fruitvale Station, regia di Ryan Coogler

Settimana Internazionale della Critica
Gran Premio Settimana Internazionale della Critica: Salvo, regia di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (Italia/Francia)
Premio SACD: Le Démantèlement, regia di Sébastien Pilote (Canada)

Quinzaine des Réalisateurs
Premio Art Cinéma: Les Garçons et Guillaume, à table!, regia di Guillaume Gallienne (Francia)
Premio Europa Cinema Label: The Selfish Giant, regia di Clio Barnard (Regno Unito)
Premio SACD: Les Garçons et Guillaume, à table!, regia di Guillaume Gallienne (Francia)

Un Certain Regard:
Manuscripts Don't Burn, regia di Mohammad Rasoulof
Sezioni collaterali: Blue Ruin, regia di Jeremy Saulnier

Queer Palm:
Lungometraggio: L'Inconnu du Lac, regia di Alain Guiraudie (il film è statao acquistato dalla Teodora Film per la distribuzione italiana)

Cinefondation, dove nascono i talenti di domani

Cannes è un sistema chiuso e ben coordinato. Si allevano i giovani cineasti premiando i migliori corti provenienti dalle scuole del cinema, attraverso Cinefondation, con 15 mila euro che vanno al primo premio, e si aiutano poi i nuovi talenti nei loro progetti, attraverso borse di studio, lanciando i lungometraggi d'esordio nelle sezioni parallele e poi nel concorso ufficale. Dunque la premiazione più importante, in prospettiva, è proprio quella di Cinéfondation. L'Italia negli ultimi due anni era entrata in finale. Quest'anno no. La giuria del 2013, presieduta da Jane Campion e che comprendeva Maji-da Abdi, Nicoletta Braschi, Nandita Das e Semih Kaplanoğlu, ha giudicato 18 film studenteschi su 1 550 opere presentate provenienti da 277 scuole di cinema dando il primo premio a Needle, alla cineasta  Anahita Ghazvinizadeh della School of the Art Institute of Chicago, Usa. Anche lo scorso anno il primo premio era andato a una cineasta russa. Secondo premio alla belga  Sarah Hirtt per Aspettando il disgelo. Terzo premio al ceco Matus Vizar per Pandas (a ciacun regista vanno 7500 euro).

Kans Kans 2

Il Mercato 12 mila partecipanti al Marché 2013. 4% in più del 2012. Di questi ben 2000 nordamericani, il 7% in più rispetto all'anno scorso. C'è voglia di produrre e distribuire, anche in Usa, film da tutto il mondo. E quest'anno al Village sul mare c'erano le bandiere di 108 stati. Per la prima erano presenti stand di: Albania (con Ilir Butka, l'attivissimo direttore del festival di Tirana, nonché produttore e distributore, coinvolto nel progetto La nave dolce di Vicari), Bolivia, Costa Rica, Etiopia, Guyana francese e Sri Lanka. Molto attivi e dinamici i padiglioni del Sudafrica e del Kenya, per quanto riguarda l'Africa, un tempo riunito in un solo padiglione per risparmiare. Sono stato presentati in tutto 5362 film (4659 nel 2012) e molto successo ha avuto lo spazio voluto dal direttore, Jérome Paillard, sui cross-media e i formati per multipiattaforme, come i film affiancati da videogame e da un comic book... Insomma. Ha avuto talmente successo la parte industriale della Croisette che tutto il festival di Cannes 66 è sembrato un po' il Mifed di Milano degli anni migliori. Spintonati un po' troppo ai lati, anche nelle sale, i critici (ma dei 4000 accreditati stampa molti sono uffici stampa e cronisti e, a giudicare dal pallottoliere dei quotidiani specializzati, anche i critici, con l'eccezione di Dennis Lim di Film Comment, hanno abbandonato la loro deontologica imparzialità, inneggiando apologeticamente non solo ai film del concorso, qualcuno davvero sopravvalutato, ce ne accorgeremo stasera, ma perfino applaudendosi a ogni inizio proiezione davanti alla scritta "Festival de Cannes") perché qui si favorisce soprattutto l'apologia. La politica degli inviti farebbe inoltre oltremodo infuriare i 'grillini' nostrani di ogni tipo. Sono distribuiti solo alla créme de la créme. Niente inviti ai sindacati e all'associazionismo. Da 12 anni il sindaco è espressione della destra e del Fronte Nazionale. Ma al ricevimento che annualmente organizza a fine festival la stampa si precipita voracemente. Basta con l'ideologia. 

Aimé Casaire e Euzhan Palcy Rue Cases Negres), il 22 maggio scorso, 165° anniversario dell'abolizione della schiavitù in Martinica (piuttosto in ritardo rispetto alla rivoluzione francese e alla proclamazione dei suoi principi universali), La regista martinicana Euzhen Palcy (oltre a presentare nell'ambito della sezione Cinema  de la Plage, la commedia Simeon, 1992) ha annunciato il suo prossimo film, un documentario, Il ribelle, che si avvarrà delle oltre 40 ore di interviste con il patriarca del risorgimento culturale nero, delle quali ha utilizzato soltanto 45 nel trittico  Aimé Cesaire, una parola per il XXI secolo. Il quarto pannello, lungo un'ora, dedicato a questo intellettuale chiave del XX secolo, ne mostrerà soprattutto la sottigliezza filosofica, la profondità politica e l'umorismo. In progetto anche una commedia da girare in California, Filet mignon, con un cast multietnico  e l'opzione per il romanzo Son ame chien di Marie Laborde. Infine un progetto indie americano, Teaching Toots.














Rithy Panh il vincitore della sezione Un Certain Regard, con il documentario 'improprio' L'immagine mancante, ancora dedicato, come precedenti lavori del cineasta cambogiano, alla feroce repressione dei Khmer rossi (un milione e 700 mila assassinati) contro gli abitanti di Phnom Penh (e contro la sua famiglia), accusati di essere stati risparmiati da 5 anni di bombardamento clandestino del paese da parte di Nixon, e dunque di alto tradimento e collaborazionismo con gli Usa, ha lavorato due anni al progetto, coinvolgendo lo scrittore Christophe Bataille nella tessitura off della voce narrante. E prima di iniziare le riprese si è documentato sul funzionamento del cervello umano e ha studiato la cartografia dell'agopuntura cinese a proposito del sistema dei riflessi umani. "Volevo ritornare al bambino che ero. All'inizio del film il personaggio  principale parla con un gatto, un po' come avrebbe fatto Chris Marker, un cineasta per il quale ho una grande ammirazione". Nel film Rithy Penh utilizza statuine di terracotta che non muove mai, per ricostruire appunto quelle immagini mancanti della tragedia, introvabili perché mai girate dal partito di Pol Pot. "Nella cultura cambogiana le statue hanno un'anima".  I prossimi progetti del cineasta, sempre con la collaborazione di Bataille, sono Cochinchine, basato sui testi del giornalista Leon Werth, un anticolonialista della prima ora e in particolare su un discorso del 1926 (a cui Saint-Exupery dedicò Le petit Prince). E un adattamento di L'eau rouge di Pascal Roze, un romanzo del 1954, ambientato durante la guerra d'Indocina. Una retrospettiva completa delle opere di Rithy Panh saranno organizzate dai festival di Amsterdam  e di Lipsia.

sabato 25 maggio 2013

W Jerry, abbasso la critica americana di Cannes!

di Roberto Silvestri

“Le piacerebbe fare un film senza gag?
No

(Jerry Lewis a Robert Benayou e André Labarthe, Cahier du Cinema aprile 1967/gennaio 1968)


Bel finale, comunque. Only lovers left alive, di  Jim Jarmush che trova l’inferno del sogno americano nella Detroit che, da capitale dell’auto e terra di Jerry Lewis e Roger Corman, è diventata, degradandosi, la reginetta dei subprime. L’anima bella Roman Polanski (che è un ‘americano’ di spirito, costretto all’esilio dal fanatismo calvinista) che in Venere in pelliccia sembra rifare Venere in visone, il peggior film di Liz Taylor, un elogio della troia che certo imbarazzerebbe il nostro presidente della camera e perfino chi crede che il pappa in fondo sia a lei di gran lunga superiore, anzi un ‘politico coi fiocchi’. Figuriamoci i clienti. Fiaba sadomaso di raffinata profondità. Dedicata a Battiato.
James Gray in The immigrant  sorta di ‘Le due orfanelle nel Bower East Side’, a proposito di questo incontro sado maso tra ruffiano e mignotta, pardon tra regista e sua attrice, fa ancora il commuovente, veteromaschilista elogio del pappa, in un mèlo old fashion, pende a destra la storia di un amore impossibile, e infastidito da un mago, tra Joaquin Phoenix (un po’ imbolsito rispetto a The Master) e Marion Cotillard (che ha qualcosa di Gollum, un po’ come Lea Seydoux in Adéle,  la risposta francese anti truffauttina alle fantasmagorie digitali dei blockbuster in 3d di Hollywood?). Ellis Island non è ben centrata (forse perfino Crialese ha fatto di meglio). Il vaudeville miserabile della Bowery 1921 scolora rispetto sia a Walsh che a Straub di America. Anche il Central Park sembra posticcio. E il tutto non rende l’orrore eugenetico e nazistoide dell’America massacrata dai Vanderbilt e dai Carnagie, dai Morgan e dagli altri criminali della finanza, che si inebriano e si ingrassano sempre (anche questa volta) di devastanti crisi economica. Il ribelle dell’Anatolia di Elia Kazan ce lo aveva già messo a fuoco.  Sarà stato Weinstein a guastare il ritmo di un montaggio pretendendo che il film fosse pronto per Cannes invece che per Venezia…. 
E, soprattutto, bel finale di Cannes grazie a Jerry Lewis ‘in persona’, il comico, il cineasta, l’autore più rivoluzionario d’America (l’attore più sexy, lo aveva definito Marilyn) che considera Burt Reynolds e Cary Grant le migliori commedianti femminili di tutti i tempi. E come dargli torto? Gemma radiosa della comicità transmaschile e transfemminile, al di là e al di qua dei generi sessuali, cosa che mette in estremo imbarazzo i tanti reazionari e khomeinisti dell’immaginario, dentro e fuori gli schermi, che siano contrari o favorevoli al ‘matrimonio per tutti’: è il non matrimonio a destabilizzarli, il danzare indeciso tra i sessi e oltre…E poi l'artista non ha sesso, può interpetarli tutti. 
La cosa infastidisce il Los Angeles Times che in pezzo rovente firmato da John Horn (ed è una specie di Little Big Horn) contro di lui e contro i francesi che lo hanno sempre adorato (acutamente), ricorda che Jerry non fa davvero più ridere nessuno da quando Eisenhower fu eletto presidente. Il che può essere anche vero. C’è poco da ridere di un’America che inizia a fare guerre ingiuste, rinnegando Roosevelt. Corea e Vietnam, Iraq e Afghanistan sono una escalation di orrori da far smettere di girare film qualunque cineasta dotato di coscienza, cosa che Jerry Lewis ha fatto. C’è qualcosa di ‘oltre la risata’ che Jerry tocca, uno spazio artaudiano di crudeltà subumana mai scoperto prima, che Jerry scardina sovrumanamente. E’ una risata egemonica che David Rooney e gli altri critici americani non hanno il coraggio di provare. Andrebbero in mille pezzi. Esploderebbe la loro coscienza. In fondo quando fu eletto presidente Eisenhower ci fu un’altra cosa strana e indefinita che nacque assieme alla risata negli ultrasuoni di Jerry. Il rock. Vi dice niente? Che sia il migliore comico maschile e il migliore comico femminile e il migliore comico ibrido di tutti i tempi, Jerry, non c’è dubbio.  Astronauta dello sconosciuto, Lewis è il feddayn dell’autoanalisi americana. Yiddish e arabo nello stesso tempo. Mai ortodosso. Troppo coraggioso per tutti, dunque. Lo scopriranno i nostri cirtici Usa per ora troppo lenti. Speriamo diventino rock..  E a David Rooney, l'aussie che scrive (su Variety) di meravigliarsi di trovare un film simile in competizione ufficiale a Cannes, aggiungendo: “ a staggeringly artless geriatric soap that sinks its dentures into every trite platitude about aging, mortality, regret and surrender, only to regurgitate them again and again. Starring as a jazz pianist, Lewis says of one particular gig, 'I was playing simplistically and way too melodramatic.' Sadly, he could be talking about any aspect of this sub-Hallmark Channel schmaltz”. Cosa rispondere, a parte che molti altri film adorati da Rooney non erano degni della selezione ufficiale di un grande festival, e se non che ‘semplicità’ e ‘melodramma estremo’ sono gli ingredienti alchemici di un grande cinema non consolatorio e non adagiato sul sì, non alla vita, ma allo stato di cose criminali vigente? Sono gli ingredienti bastardi e avulsi  di L’Idolo delle donne, giustamente riproposto sulla Croisette, e di Le folli notti del dottor Jerryl di cui Max Rose è la versione  soft, da classe differenziata per critici. Strano che un collega australiano, ma per anni in Italia ed esposto alla scienza della farsa, come Rooney, non li apprezzi. Complessità e melodramma borghese sono l’estasi per Rooney?

In Max Rose Jerry è un pianista di jazz che prima di essere schiaffato in una costosissima e orribile casa di riposto di vecchie glorie della performance (compreso un coriaceo sindacalista di sinistra) e di morire a sua volta, scopre che la moglie defunta, amata senza tradimenti per 65 anni, ha avuto una storia obliqua con un divo del cinema (che poi si scoprirà, essere Dean Stockwell in persona, come darle torto?) con il quale Jerry fa un duetto che trasforma quelli tra Max von Sydow e Gunner Bjornstrand in un confronto tra Ferilli e Servillo. Il cattivo umore, l’antipatia, la durezza di atteggiamento rispetto alla vita (non solo americana) il voler mettere tutto a soqqaudro, la voglia di rivoluzione totale che Jerry ha trasmesso a tutti i ragazzi del mondo, equivalenza cinematografica del grande affondo involontario di Elvis, delle spalle date al pubblico da Miles, del ghigno di Cybulsky e Brando nei Selvaggi, si stemperà appunto in un nietzschiano Yes, I hope. Come ai tempi di Buddy Love. Cannes 66 è poco degno di te.
Un festival che è purtroppo infarcito di fantasticar e pensar debole (si vedano le stelline, le palline e le sciocchezze sui film favoriti per la palma d’oro, gioco al quale comunque Liberation non si presta).
Un festival di mediocre impalcatura concettuale, sempre più interessato a promuovere il griffato esagonale visto che è Parigi che paga (l’eccezione e la differenza ‘culturale’ rischiano di scivolare facilmente nella norma, indifferente al furore dei popoli, militarmente sottosviluppati, e alle loro belle forme, qui censurate), sintetizzato nei film più pompati e adorati, così compiaciuti di sé e della propria frivolezza d’alta professionalità, da Kechiche a Refn, da Farhadi a Sorrentino… A parte la selezione americana che Spielberg sarà costretto a premiare anche a rischio di mancare di tatto, perché è un uomo degno di rispetto estetico, e due 'americani non riconciliati', honoris causa, come Jia Zhang Ke e Haroun. L’unico blocco artigianale che ha ben chiara la separazione tra sfera dell’immaginario (da una parte) e stato e chiesa. Ognuno per conto proprio. Luoghi separati.
Un’edizione inoltre organizzativamente e meteorologicamente disastrosa, con i suoi 4000 ospiti della stampa – troppi e pochi (dov’è Cappabianca? Dov’è Trafic? Dov’è Andrea Pastor (auguri di pronta guarigione)? Dov’è Adriano Aprà, dov’è Bill Krohn? Jonathan Rosenbaum?) anche sulla Croisette c’è una carenza di spazi adeguati, sembra il Lido: l’unica proiezione di Max Rose, il nuovo film interpretato da Jerry Lewis e diretto da Daniel Noha, si è svolta nella Sala del Sessantesimo anniversario, un megatendone squassato dal vento, e sempre sul punto di volar via. Certo che Jerry era di cattivo umore…E poi invitati e tesserati sempre stipati, sotto la pioggia, in lunghe file goebbelsiane di oltre un’ora e mezzo... Si sente la mancanza di occhi delicati e penetranti, tanti i critici scomparsi quest’anno (non solo quelli di Rober Ebert), e i film non possono farne a meno, per . Troppi apologeti fanno un brutto servizio a un festival che può morire di adulazione. Tanti quelli che Cannes neanche invita.

giovedì 23 maggio 2013

Le palme d'oro crescono in Nebraska


Mariuccia Ciotta
Cannes
Finalmente la Palma d'oro, Spielberg giurato numero uno permettendo, in questi ultimi giorni di festival pietrificato nello smarrimento dei “tempi che cambiano”, popolato di cineasti annichiliti dal mondo imperscrutabile e dominato dall'”io”. Registi che non “vedono”. Per aguzzare lo sguardo, Alexandre Payne torna in Nebraska, dove è nato 52 anni fa, e si incammina sulla strada con l'andatura sbilenca dell'ottuagenario Bruce Dern, via dalle Hawaii (The Discendants, 2011) per rievocare il Jack Nicholson disilluso e testardo di About Smith (2002).
Nebraska (concorso), incanto del cinema ritrovato dove il bianco e nero è il detour nella filiera del film-format, un segnale stradale verso Lincoln, cittadina luminosa e sperduta, traguardo di padre e figlio lungo il percorso dell'origini, da L'ultimo spettacolo di Bogdanovich ai paesaggi western di Ford con l'orizzonte a metà schermo per ricordare che il mito è passato e adesso ci sono solo i campi secchi, i villaggi fantasma del mid-west, l'abbandono di luoghi sospesi nel nulla, la crisi...
Deviazione e visita al monte Rushmore, Sud Dakota, anche i presidenti scolpiti nella roccia non hanno più il glamour di Hitchcock con quelle facce non finite... a qualcuno “gli mancano le orecchie” osserva lo svaporato Woody Grant (Dern), chioma bianca arruffata e la smania di arrivare a destinazione per ritirare la vincita di un milione di dollari come promesso da un volantino pubblicitario-mappa del tesoro. Invano il figlio David (Will Forte) cerca di persuaderlo che si tratta di una lotteria fasulla, Woody Grant ci crede e se ne andrebbe a piedi dal Montana al Nebraska, inseguito dalla moglie indiavolata contro il vecchio demente e alcolizzato che vuole un nuovo truck e un “compressor”, il suo gli fu rubato dall'ex compagno di officina Ed Pigram (Stacy Keach).
Sorpassando il trattore di David Linch, Payne distilla dai generi classici la benzina per ricomporre nuovi linguaggi, pesca in Frank Capra con i suoi angoli miracolosi di provincia, la tipografia di un vecchio giornale dove l'ex girl-friend conserva le edizioni rilegate, e dove c'è una foto del giovanissimo Woody in divisa. Tornato dalla guerra in Corea non parlò quasi più. Ed eccolo che si fracassa la testa cadendo per troppo birra, scappa dall'ospedale con indosso il grembiule e dialoga con i parenti rivisti dopo decenni, abbrutiti davanti alla tv, con l'humour straniato di Kaurismaki.
Epopea di Woody Grant, che tutti credono milionario, nell'esilarante incontro con la gente della sua infanzia, una specie di Christmas Carol infiltrato di tutta la memoria del cinema, e scandito dai luoghi del West, i bar a immagine dell'antico saloon, giocatori di poker, banconi di legno, e Ed Pigram che si merita un pugno sul naso dal gentile David per aver sbeffeggiato il vincitore immaginario.
Alexandre Payne compone la sua lirica, ricordando Bruce Springsteen, sulle musiche sensuali di Mark Orton, e dimostra che è solo da quel cinema vitale si può ricominciare. Nebraska, pellicola old fashion, marchio Paramount compreso, guarda al domani con gli occhi accesi di Bruce Dern al volante del suo nuovo truck lungo la main-street della piccola città, fiero di aver vinto, se non la lotteria, il suo irriducibile amore per le nuvole e i sogni in viaggio.    

Cassius Clay, al tappeto la Corte Suprema


Mariuccia Ciotta
Cannes
Hbo evviva. Dopo Soderbergh ecco un altro capolavoro con il marchio del canale tg americano che batte Hollywood con i suoi film radical, e dà “la parola ai giurati”, da Lumet a Stephen Frears, regista britannico di My Beautiful Laundrette.
Fuori concorso, Muhammad Ali's Greatest Fight, storia vera di Cassius Clay che nel 1967 si rifiutò di partire per la guerra in Vietnam perché militante della Nation of Islam, la stessa di Malcolm X , uscito (e ucciso in seguito) per i suo pericoloso accostarsi al marxismo. Immagini documentarie del campione di pesi massimi alternato alla ricostruzione fiction della famosa sentenza della Corte suprema, chiamata nel '71 a confermare o meno la condanna a cinque anni di carcere inflitta al renitente alla leva. Non solo Lumet, ma anche il Lincoln di Spielberg nell'appassionante requisitoria sul caso del boxeur obiettore di coscienza, con il campo due giganti di attori, Christopher Plummer nelle vesti del giudice John Harlan e Frank Langella in quelle del presidente della Corte, Warren E. Burger, entrambi repubblicani, entrambi colpevolisti. Come si può dire pacifista uno che è contro la guerra, tranne se dichiarata da Allah? Alla prima seduta, Cassius Clay è spacciato, ma ecco un giovane associato all'ufficio di John Harlan riprende in mano la costituzione americana, mentre fuori sulla strada l'edificio della Corte suprema è preso d'assedio dai manifestanti anti-guerra in Vietnam. Il presidente Burger è devoto a Nixon che lo ha nominato e vorrebbe chiudere il caso, la maggioranza è con lui.

Stephen Frears architetta il suo docu-fiction con ritmo incalzante, scalda le immagini di colori densi, indaga sulla faccia dubbiosa del giudice Harlan, malato di cancro, difensore del diritto, il primo emendamento è sacro, e insensibile alle pressioni politiche. Harlam dimostra “che tra i repubblicani c'è anche gente perbene” sentenzia sardonico l'esponente democratico a favore dell'assoluzione. Ma qual è il cavillo che salva il neo black muslim? Prima di tutto, scopre il giovane legale, una sentenza a favore dei testimoni di Geova, che in nome della religione furono esentati dal servizio militare. Loro bianchi, Cassius Clay nero. Non vorrai, oh Warren E. Burger, fare accusare la Corte suprema di razzismo? “La guerra è contro gli insegnamenti del Corano” dichiara Muhammad Ali, battuto nel frattempo da Frazier, e in quanto alla guerra santa, sostiene Harlan/Plummer, sedotto dalla passione travolgente del suo “allievo”, non è solo islamica, ricordate le Crociate?
Ma il ragionamento decisivo riguarda dio, quando mai Allah dichiarerà guerra a qualcuno? Il monito diventa d'attualità, ieri la macelleria di Londra. Non ci sono prove che Allah abbia mai impugnato la mannaia. Ci sono invece a favore del campione dei pesi massimi, autore di un libro-chiave consegnato nella mani del giudice repubblicano, che cambierà il suo “no” in “sì”, e trascinerà l'intera Corte all'assoluzione, fino a ottenere l'unanimità. Non è un film ma lo diventa nel tocco poliritmico di Stephen Frears. A volte, l'happy end lo scrive la storia. Mohammad Alì torna sul ring e si riprende il titolo di 'campione del mondo più grande di tutti'.

Kechiche a bocca aperta



Mariuccia Ciotta
Cannes
Il franco-tunisino Abdellatif Kechiche va in concorso con il film-fiume (2h59') incollato sulla faccia di una adolescente, Adèle (Adèle Exarchopoulos), personaggio di una storia a fumetti saldata a un progetto originale del regista. La vie D'Adele – chapitre 1 et 2, è un film girato in “interni”, ovvero nella carnosa bocca della ragazzina, scrutata anche mentre dorme, e ripresa per tre ore in primissimo piano. Film grondante sensualità, si direbbe, se non fosse che l'ossessione si trasforma in mania nell'inseguire il volto paffuto, i capelli scapigliati, lo sguardo attonito di Adele, che scoprirà di non amare gli uomini ma una sconosciuta dalla capigliatura tinta di blu, Emma (Léa Seydoux), aspirante pittrice. La seduta in tempo reale di amore lesbico è girata come le riprese delle statue di marmo esposte al museo, movimenti leziosi, pose da depliant, scatti di opere d'arte per fondoschiena e carnosi seni palpitanti, luce avvolgente sulla performance atletica.Klimt più di Schiele. La sequenza semi-hard ha inchiodato i festivalieri alle poltrone, sala stracolma, in attesa del bis. Gli spettatori sembravano i membri della Corte Suprema del film di Frears, che con la scusa di giudicare l'ammissibilità o meno di certi film porno, passavano il tempo libero nella sala di proiezione sotterranea. Tre ore vissute felicemente a bocca (di Adele) aperta, il contrario di di quel che è successo durante lo stesso spazio temporale per il film di Lanzmann sui lager nazisti, un lento esodo di massa. Eppure era molto più “pornografico”.
Kechiche dice di non aver pensato affatto alla relazione omosessuale, ma a una storia d'amore come un'altra, infatti si vede. Ogni cosa è banale, bacetti, litigi, sospiri, lacrime, addii. Qualcosa vorrà dirci il regista, sì. Mai disperare se l'eterosessualità è minacciata, Adele fa sesso anche con i ragazzi, perché c'è sempre un uomo che prima o poi spunterà all'orizzonte, e qui ha i caratteri somatici di un bel bruno magrebino. Chissà se voyeur come Kechiche.         

Cosa unisce Lav Diaz e Jackie Stewart ?

Roberto Silvestri
Cannes

Agguato nelle Filippine. Il cinema è fatto della vita meno i tempi morti. Così impone il canone del blockbuster. Ma per Lav Diaz, cineasta filippino finalmente a Cannes al Certain Regard, i tempi morti non sono affatto sterili, anzi fecondi. E' lì che bisogna scovare l'invisibile che è il motore interno di ogni azione e suggestione e mistero...Basta allungare i tempi del racconto, a 8, 9 ore. Questa volta, apparentemente sganciato dalla missione sua, e della ricca generazione di cineasti indipendenti della Manila off off, nipoti di Lino Brocka, cioè raccontare nei dettagli anche più insignificanti la storia politica del paese, sue origini e conseguenze, si dedica a una fiaba metaforica più semplice e di sole 4 ore circa. Tema il bene e il male. Norte è il titolo. Nord. Dove la popolazione islamica è mischiata a ex cattolici attratti sempre più dalla psicoterapia basic dell'evangelismo. Dove per molti anni c'è stata guerriglia marxista, e poi terrorismo islamista. 

Viene assassinata una arpia di cicciona usuraia che specula senza scruipoli sui lavoratori travolti, anche lì, da una crisi economica che succhia il sangue ai più miserabili. L'atto criminale è compiuto e quasi teorizzato dall'ideologo del gruppo. Un intellettuale, studente fuori corso di diritto, frustrato dal ciclo senza fine di tradimenti e apatie del suo paese, vuol superare la post-modernità e la post-anarchia, posizioni inguaribilmente esistenzialiste e individualiste. Il suo modello rivoluzionario è un neo-surrealismo collettivo. Sparare nella folla, sì, ma non a vanvera. Ci si deve basare sull'assoluto etico. Sempre dalla parte del giusto contro l'ingiusto. Il fatto è che di quel crimine viene incolpato e incarcerato a vita un poveraccio innocente, mentre sua moglie deve far sopravvivere, facendo i salti mortali, i tre pargoletti. E una lavandaia, nel mondo delle lavatrici automatiche, è un ferro vecchio. Mentre i sensi di colpa divorano chi sta fuori - è fuggito via e lavora in un fast food, non senza cedimenti poco materialisti - chi sta dentro, un uomo semplice e buono, inizia a trovare la vita del carcere più sopportabile, quando cominciano ad accedergli cose strane e sempre più misteriose...Un suo collega detenuto, membro di un gruppo di combattimento, assicura che domani sarà a Manila a giustiziare un politico, anche se ormai al posto di Marx giustifica le sue azioni con versetti biblici. Incanti, pause, intermezzi musicali alla chitarra, lunghi dibattiti politici, momenti di catatonia e di distrazione espressiva o esistenziale, tradimenti tra amici, lunghe bevute di birrra, punteggiano tutta la storia. Un cinema che prende i suoi rischi, che fabbrica immagine di combattimento, mentre il visuale che ci opprime diventa sempre più onnipotente. Depotenziando le sue sequenze dal ritmo consueto Lav Diaz affida allo spettatore la responsabilità della guida. Che, tra morale e imorale, tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra politico e impolitico, è costretto a guidare questo bolide di formula uno dello spirito.


A proposito di formula uno, di sangue e di violenza. Roman Polanski, in attesa del suo nuovo film in competizione, ha presentato fuori concorso il bellissimo documentario girato in 16mm Week end on a champion, prodotto nel 1971, all'epoca di Macbeth, e dedicato al suo amico pilota, la rock star più disciplinata della storia, Jackie Steward, lo scozzese che era diventato campione del mondo dopo aver trionfato proprio nel Grand Prix di Monaco. Un arguto, divertente e intimo dialogo a due, più le sequenze delle prove e della gara vincente (l'edizione 2013 si svolgerà proprio in questo week-end). Quaranta anni dopo, restaurandolo, tagliando 30', rimontando in certe parti il film diretto dall'americano, trasferitosi a Londra, Frank Simon (che nel 1968 aveva presentato a Cannes un bel documentario, The Queen, su un concorso per travestiti di New York, ed è morto anni fa), Polanski ha aggiunto una serie di materiali di repertorio, scene tagliate allora e una decina di minuti di commento e aneddoti su quelle immagini, su quell'epoca finita, sulla tecnica di guida che cambia (ogni pilota ha i suoi segreti e Stewart ne suggerisce alcuni a Francois Cevert), sui grandi campioni in gran parte dimenticati, come i 'gladiatori' Regazzoni, Fangio, Moss, Pescarolo,Chiron e Graham Hill, sulle star del momento appassionate di F1 e sul 'circo' automobilistico, così cambiato in questi decenni. Un metodo alla Grifi, il doppio gioco della memoria e della metamorfosi.
 Colpiscono soprattutto le differenze tecnico-agonistiche tra allora e oggi. Le difficoltà di guidare su piste poco sicure e, come nel caso del celebre tunnel di Montecarlo, oggi illuminato, come uscire vivi dai 'buchi neri' di un tempo. Quasi 60 piloti morti e un numero enormi di feriti gravi (fino a Senna), fino al momento in cui i piloti hanno preteso con scioperi e manifestazione la messa in sicurezza dei circuiti e dei bolidi, vere e proprie bare volanti. Stewart è stato il Landini della contestazione. E molti cambiamenti che oggi ci sembrano ovvi, parapetti, luci rosse quando piove, chicanes...si devono a lui, il primo a contrattare con organizzatori e responsabili delle piste. Allora un pilota aveva una probabilità su tre di morire.

Palestina, mon amour

Roberto Silvestri
Cannes

La notizia e l'immagine shock del commando di 'macellai' islamisti londinesi, alla caccia di 'infedeli' colpevoli, da decapitare con l'arma bianca, pericolosa sovrimpressione blasfema tra metodi del nemico imperialista e guerra santa, Guantanamo in dissolvenza incrociata su Bin Laden, ci permette di mettere a fuoco, collegandolo a un fatto di cronaca così sconvolgente, il coraggio e le contraddizioni di questa “fiction di popolo” ambientata però non in Afghanistan ma a West Bank:
Omar, diretto dal palestinese Hany Abu-Assad che già si era distinto nel 2005 con Paradise now, storia di due ragazzi indocili, dopo un momento di incertezza, al grande gioco sacro della martiriologia.
Il nuovo film, presentato nella sezione Un Certain Regard (che poi vincerà, presidente della giuria Vintenberg) è la storia di tre amici per la pelle, ventenni palestinesi, che, usciti dalla disperata strategia suicida del corpo-bomba, vogliono contribuire alla causa della liberazione nazionale formando una cellula isolata di soldati della libertà che si conquisti sul campo la possibilità di far parte del giro adulto della resistenza. Come? Nel modo più istintivo e meno politico che esista. Preparando un agguato e uccidendo, con un colpo da cecchino scelto, un soldato israeliano di frontiera (oltretutto disarmato). 
Omar (Adam Bakri) fa il panettiere e, come l'uomo-gatto hitchcockiano, attraversa spesso e disinvoltamente l'alto muro che separa il suo villaggio dalle case degli amici Tarek e Amjad e soprattutto dalla fabbrica della sua piccola amata bruna studentessa-lavoratrice, che però dimostra già un certo feeling anche per Amjad, capace di imitare Marlon Brando nel 'Padrino' come neanche il boss Genovese, scatenado un corto circuito emotivo che sarà fatale a Omar... 
Infatti non sempre le cose vanno liscie. Scoperto sul muro del salto, e ferito, poi umiliato da una ronda, alla fine viene catturato, denudato e torturato dagli israeliani in cerca di una confessione del delitto.
Intermezzo. Queste sequenze violente e sconvolgenti procureranno guai al film, in Italia. Chi avrà il coraggio di distribuire scene così anti-israeliane se non torturandole con le forbici? Mica siamo nell'America della Bigelow!
Omar, nel frattempo, resiste. Non so niente. Sigaretta bollente sui genitali. Non so niente. Coltello roteante ovunque. Non so niente. Al culmine del trattamento gli scappa un fatale: “Non confesserò mai”. E' già una ammissione di colpa. Lo minacciano. 90 anni di reclusione. E non basterà neppure una visita di Kerry per essere graziato da una amnistia, come abbiamo visto. 
Però Omar esce dal carcere. Cosa ancora più pericolosa. Gli amici pensano che abbia tradito. L'amata lo lascia senza più scrupoli (tanto è incinta di Amjad, molto meno romantico di Omar che considerava il culmine del piacere erotico scambiare con la ragazza bigliettini segreti d'amore). Anche il salto del muro con la corda inizierà ad essere difficile, estenuante. 
I grandi dei nuclei islamisti diffidano sempre più di lui. Che in realtà, dopo una seconda carcerazione, e un collare di sicurezza alla caviglia, ha stipulato un patto infame con il poliziotto capo israeliano, Rami (è Waleed F. Zuaiter, l'unico attore professionista del cast). Gli consegnerà Tarek morto. Ma nell'ultima scena del film...l'onore sarò salvo. Anche in questo film si dimostra che l'onore vale più di qualunque politica. E' un finale di moda. Per un Lincoln palestinese bisognerà aspettare ancora un po'.