di Mariuccia Ciotta
Cannes
Effetto speciale climatico sulla monte
d'escalier per The Great Gatsby, film d'apettura (fuori
concorso) di Cannes 66, un torrente d'acqua si è rovesciato su una
folla in smoking e lustrini, rifugiata sotto un tappeto di ombrelli,
per la prima alla sala Lumière. Baz Luhrmann, regista australiano,
ha avuto l'ardire di ricostruire la New York del primo Novecento e il
profilo acquatico di Long Island negli studi di posa di Sydney in
perfetta coerenza con il suo stile di “modernizzatore” dei
classici, prima Shakespeare (Romeo + Giulietta) ora Francis
Scott Fitzgerald, il dandy dalla prosa danzante, il complice della
flapper, lo scrittore che inventò gli anni Venti, le sue speranze,
il swing, le feste da ballo “di qua dal paradiso” ,
l'intossicazione da “sogno americano” e la caduta di un sé
infiltrato alla corte dei ricchi... Non è tenera la notte nel film
di Luhrmann ma un frastornante circo a tre piste e in 3D, un match
tra il sognatore Jay Gatsby e l'ex campione di polo Tom Buchanan che
mette ko il testo di Fitzgerald nel tentativo di aggiornare l'era del
jazz.
Per sottrarsi alla pellicola d'epoca,
il regista disintegra l'angoscia che preme sulla fine delle illusioni
seguita alla grande guerra, e il ritorno all'ordine di classe e alla
politica del “laissez faire” che condurrà gli anni dell'euforia
alla catastrofe del '29. Questo era Jay Gatsby alias Francis Scott,
innamorato del passato, Daisy, che una volta portava le lunghe trecce
di Berenice e che adesso veste Miuccia Prada, nella versione della
bionda sbiadita Carey Mulligan (Shame, Wall Street 2).
Daisy aveva la sensibilità straniata
di Mia Farrow, femme fatale inconsapevole, amore adolescenziale di
Robert Redford, nell'adattamento dell'inglese Jack Clayton. Film
patinato senza l'eccentrico e l' humour originali ma registrato sulle
vibrazioni dei due attori pronti a catturare la malinconia del tempo
perduto mentre qui si va sullo spettacolo orgiastico, carneficina di
prospettive e panoramiche a colpi di skycam. Un Hollywood Party
fuori sede. Non è l'eccesso di visivo il problema ma la mancanza di
immagini nell'accozzaglia pop che shakera la macchina da presa in
svisate stonate e si aggroviglia nello spazio chiuso dello studio
dove domina una piscina rotonda, cornice delle baldorie chez Gatsby.
Quentin Tarantino ha diretto Leo
DiCaprio verso l'Oscar in Django, se non fosse per un'Academy
che ce l'ha con l'attore fin dai tempi del Titanic, Luhrmann
invece lo spinge fuori quadro, ed è una fortuna. Il suo misterioso
miliardario nato povero e pieno di dollari tossici da proibizionismo,
è una presenza avulsa, galleggiante nell'aria, trascinato da un
desiderio indicibile per qualcosa che non c'è, in scena. DiCaprio ha
tatuato il romanzo sulla pelle, e se ne va radioso fuoricampo. A
raccontarne la parabola è Nick Carraway, ammiratore e vicino di
casa, interpretato dall'uomo-ragno Tobey Maguire, curioso di scovarne
la segreta passione per sua cugina Daisy, che sposò il poderoso Tom
Buchanan, e tradì il giuramento d'amore con il soldato Gatsby,
partito per il fronte e tornato cinque anni dopo grondante dollari
per riprendersi il suo angelo. Storia che non riguarda Luhrmann
concentrato nella potenza dei fuochi d'artificio, nella velocità
rumorosa della fuoriserie gialla di Gatsby che travolgerà l'unica
passione dell'aristocratico Tom, Myrtle Wilson(Isla Fisher) ,
moglie pittoresca del benzinaio. Il raccordo con la contemporaneità
dei subprime si perde in questo gioco dell'attrazione tra diversi,
quando è il cinismo dei Tom e delle Daisy, difensori del proprio
ceto sociale, il mood del capolavoro di Fitzgerald, quello sì
premonitore di altre stagioni finanziarie. Il congegno rutilante
di Luhrmann mette in uno strano rilievo il corpo degli attori,
figurette dematerializzate e ritagliate nella pellicola digitale, un
po' burattini mosse da scariche di hip-hop, e
catapultati in avanti dal 3D che fanno
di questo Grande Gatsby un'attrazione da parco a tema.
The Bling Ring di Sofia Coppola, con
Israel Broussard, Katie Chang, Taissa Farmiga, Emma Watson. Usa 2013
Inaugura la sezione Un certain regard
Sofia Coppola con The Bling Ring, ispirato a fatti realmente
accaduti là dove le alte palme di Beverly Hills scuotono le loro
piccole teste coronate, Anzi, siamo più in alto, sulle colline di
Hollywood tra le ville dei divi in bilico sulla cresta delle rocce,
e dove vive gente come Paris Hilton, che ha prestato la sua casa per
le riprese del film. Una banda di ragazzine di “buona famiglia”
si diletta a svaligiare le ville dei loro miti, a bivaccare nei
salotti delle star, provare gli abiti Chanel, i gioielli, i Rolex, a
infilarsi scarpe leopardate tacco smisurato, a rubare mazzette di
dollari e a sniffare coca. Hanno sedici anni e l'idea che non ci sia
niente di male a divertirsi così, visto che i genitori, più che
assenti, sono troppo presenti con i loro modelli di riferimento,
soldi, new age, preghiere del mattino e totale indifferenza per il
mondo. Sofia Coppola, dopo il Leone d'oro Somewhere, torna ai
personaggi anestetizzati, quelli che non sentono niente e vivono
“fuori da sé” nel riflesso dei reality, banalmente disumani,
come le teen-ager
losangeline portate alle
cronache da
Vanity Fair. Delinquenti delicate, felici di finire in tv anche
se in veste di imputate, accanto ai volti delle loro eccellenti
vittime. Generazione Facebook e Twitter, usati per localizzare gli
appartamenti di star in vacanza, e fare baldoria. “Un film in forma
di avvertimento”, dice Coppola, che mostrerà l'unico maschio del
gruppo, amante anche lui di calzature chic, in tuta arancione, stile
Guantanamo, e incatenato a rudi ergastolani. Il minorenne americano
se tocca la roba non sua finisce così. Quattro anni di carcere ai
capibanda, e risarcimento di migliaia di dollari.
Emma Watson |
La regista dai tempi estatici questa
volta preme sul ritmo sincopato e rincorre Springbreakers di
Harmony Korine in un rutilante “documentario” pop, dove si
susseguono rapine in villa e corse in macchina sotto il ronzio degli
elicotteri vigilantes di Los Angeles. Tutte attrici esordienti,
tranne la maghetta di Harry Potter, Emma Watson, che avrebbe
meritato, almeno lei, un personaggio prismatico, perché tutte sono
“nature”, lontane dallo sguardo di Sofia, che non vuol giudicare,
sostiene, ma nemmeno amare le sue piccole furie.
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