domenica 30 novembre 1997

Archivio. Hercules, 30 novembre 1997


Mariuccia Ciotta (*)

Il trentacinquesimo lungometraggio targato Disney  ha perso quella via  intergalattica all’animazione che aveva proiettato  Il Gobbo di Notre Dame verso i virtuosismi della computer graphic.  La prospettiva  impossibile della cattedrale di Parigi  aveva  introdotto un nuovo spazio del wonderland,  anche se lo schermo  risultava già privo della profondità  di campo e i movimenti  erano già  spezzati e stilizzati dalla macchina.. “Hercules”, creatura nata da  idee artistiche e produttive conflittuali, è  l’espressione definitiva della catastrofe.  Il mix  tra  le forme dei classici,  le nuove tecniche  del cartoon per abbattere i costi e sfornare un titolo all’anno, e la necessità di adeguare lo stile ha  materializzato un mostro di proporzioni mitologiche.  Ercole, il  mega-fusto e la  sua pupattola Megara, detta Meg,  sono  i personaggi  di una gara  tv di  “Mister e Miss  Olimpo”. E la sceneggiatura  (Bob Shaw, Dinald McEnery, Irene Mecchi)  segue l’evoluzione di un  campione di quiz, che, diventato famoso, crede di essere un eroe nazionale. Mentre, lo dice Zeus, per diventare qualcuno non basta il merchandising, né l’assalto di un gruppo di fans sgallettate che, lo dice Macao, vorrebbero farselo.  Si capisce perché la Grecia ha declinato  l’invito dell’anteprima mondiale al Partenone. I greci non  gradiscono  il circolo dei  divini balordi  tra le nuvole. Gli autori hanno osato scomodare James Stewart per Ercole e Barbara Stanwyck per Meg, il  goffo romantico e la femme fatale. Lui  al  massimo sembra Armand Assante nelle vesti dell’Ulisse televisivo,  un ex  affiliato di Cosa Nostra, e lei  la  pupa del boss.
Dunque, i classici.  Per non dimenticare Walt, la produzione ha pensato a  “Fantasia”, anzi al brano della Pastorale  con i cavalli alati,  fotogrammi sublimi della storia del cinema, e ha creato Pegaso, il cavallo di Ercole,  e il satiro allenatore di eroi  Filottete, detto Fil,  secondo il rotondo, ingordo Dioniso.  Entrambi disegnati dall’artista britannico Gerald Scarfe,  illustratore satirico di molte prestigiose riviste, scenografo  di “Pink Floyd – The Wall”.  E’ lui la chiave di volta di “Hercules”. L’uomo del nuovo stile aguzzo e ardito, dai fondali elettrici e piatti, da adattare alla memoria del computer di Burbanks,  dove sorgono gli studi americani, espropriati da ogni protagonismo creativo. Il film infatti è “europeo”,  confezionato in gran parte nella sede Disney di Parigi. I registi della “Sirenetta, John Musker e Ron  Clements e il celebre musicista Alan Menken danno il loro nome all’ibrido.  Le creature classiche di Walt, che già sono state riprodotte (bene e male) stilizzate in molti film  del dopo-’66 (anno della morte del papà di Topolino)  tornano deformate, non ridisegnate, nella penna comica di Scarfe,  che non sa cos’è il paese delle meraviglie, né  l’avventura degli oggetti che parlano, né l’impossibile-plausibile, né  l’antropoformismo. Sa solo che c’è una storia da raccontare con lo sghignazzo indirizzato al pubblico adulto, allusioni erotiche  da bassifondi per yuppie, con la donnina appuntita  del mega-fusto, pronta a ogni  esperienza seduttiva pur di incassare l’immortalità,  suggerita dal dio degli inferi, Ade, il violaceo cattivo ricalcato sulla strega-piovra di  Ariel. Per non parlare della sequenza con l’Idra a mille teste , esempio soporifero delle tecniche digitali.  “Hercules” è il manifesto della Disney del  supercapo Eisner, il distruttore dell’eredità disneyana.  Il  businessman in causa con l’ex braccio destro Katzenberg, cacciato dalla major e ora alleato con Spielberg.  L’uomo che ha osato perfino distruggere il paese delle meraviglie reale, Disneyland di  Anheim, Los Angeles,  imponendo nel centro magico della New Orleans ricostruita  la più remunerativa attrazione di Indiana Jones, con  relative file schiamazzanti nel bel mezzo della piazzetta .  Questo e altri i misfatti di Eisner.  Per fortuna, Walt si è rigirato nella tomba e ha fatto scendere gli incassi americani di “Hercules”.  Walt Disney. quella firma svolazzante ci parla ancora dell’isola che non c’è, dell’essenza del cinema,  far vedere l’invedibile,  mostrare oltre il mondo silenzioso le creature che altrimenti resterebbero mute e informi,  quando invece volano e non certo come lo sguaiato pezzo di carta Pegaso,  e i suoi padroni scarabocchiati  per facilitare la serialità  idiota di  un cervello  elettrico.      

pubblicato sul manifesto 30 novembre 1997

lunedì 10 novembre 1997

Wenders, Schloendorff e Wayne Wang....

Venti anni fa. ARCHIVIO. Recensioni pubblicate sul manifesto (10 novembre 1997)


di Roberto Silvestri 

CHINESE BOX

r..: Wayne Wong, con Jeremy Irons, Gong Li. Usa 1997


Chinese box è un paradossale blob su Hong Kong: melodramma e documentario, videocamera e cinepresa, corto e lungometraggio, divi e attori di strada, politica e karaoke… E' un instant movie per ricordare gli ultimi giorni “liberi” di un mondo, ma più che altro di una colonia britannica che mai conobbe democrazia e adesso finge di averla perduta. E’ la lettera d’addio scritta in fretta e furia, e non in bella calligrafia, da un cineasta nato a Hong Kong 48 anni fa, ma che vive negli Stati Uniti da 30 anni ed è diventato famoso e stimato dopo Smoke e Blue in the face. E’ anche un bell’omaggio al cinema di Hong Kong, visto da occhi distanti ma appassionati, perché da quel piccolo porto volarono per il mondo immagini suggestive, che nessuno sapeva eguagliare: dal dinamismo estroverso della lotta più acrobatica (il genere kung fu,  il rimpianto maestro King Hu e John Woo) al design  introverso delle storie d’amore più emozionanti e sentimentalmente sobrie e struggenti (i musical dell’anima di Tsui Hark, Allen Fong, Ann Hui…).  In tutto questo il film è proprio  una “scatola cinese”, dai profumi esclusivi, da regalare a soli intenditori. All’inizio sono fotogrammi rubati velocemente tra la folla, ripresa dalla telecamera chic di un giornalista inglese che la sa lunga e già ci spiega che Hong Kong è di Pechino da tempo, non preoccupiamoci più di tanto… E’ John, malato di leucemia come solo Jeremy Irons sa esserlo, che sta girando il suo ultimo servizio. Non gli restano che sei mesi, e siamo nel dicembre del 1996. Poi sarà la fine, sua, della sua vita,  di Hong Kong e del film. S’intrecciano poi i generi, le pulsioni e la storia di cinque personaggi: John, il suo amore impossibile Vivian (Gong Li, rigida, anzi statuaria come Ava Gardner e non perché in difficoltà con la recitazione, ma con la lingua inglese), barista dal passato inquieto, eterna fidanzata di un uomo d’affari, Chang (il comico Michel Hui); una punk bella, anfetaminica e deturpata, Jean (Maggie Cheung) e Jim, l’amico fotoreporter di John (è il musicista e attore portoricano Ruben Blades). Scritto da Jean-Claude Carriere (sceneggiatore di Bunuel, Forman, Malle) e da Larry Gross (Geronimo di John Milius) Chinese box è immerso in un’atmosfera di elettrico disfacimento, di abbandono all’evento, con la bandiera del Regno Unito che scende e i carri armati della Cina popolare che entrano, inquietanti come sagome notturne. I capitali (vivi) di Pechino si incrociano con l’ottava potenza finanziaria del mondo. Non c’è esultanza, non c’è disperazione, è solo una questione di affari. E di Tienanmen. E dentro la palude di vecchio e nuovo, visioni cinesi di animali sventrati sulle bancarelle, e di grattacieli svettanti modernità (con presagi  da “inferno di cristallo”), tra immagini sporche di videocamera, s’inserisce un’avvolgente e brechtiana love story. L’ex entraneuse orientale, icona del cinema di Zhang Yimou, viene smaterializzata secondo dopo secondo  dagli occhi di un meraviglioso sofferente bianco (non solo di leucemia), Irons. L’uomo che perde tutto, donna amata, vita e l’Hong Kong sospesa tra passato e futuro, città drogata che sembra l’unica possibile, nel suo caos di non-luogo.     




THE END OF VIOLENCE

r.: Wim Wenders, sc.: Nicholas Klein, f. (super 35mm colore): Pascal Rabaud; mo.: Peter Przygodda; m.: Ry Cooder; int.: Bill Pullman, Andie Mac Dowell, Gabriel Byrne; Francia/Germania 1997; 122’ d.it.:  Cecchi Gori Distribuzione.
             
Due killer sono incaricati di uccidere Mike Max (Bill Pullman), magnate di Hollywood  specializzato in violenti e innovativi exploitation film. La coppia lo rapisce proprio il giorno in cui la moglie Paige Stockard (Andie MacDowell) ha deciso di divorziare. Ma la mattina dopo sono i cadaveri dei criminali ad essere scoperti, decapitati sotto uno svincolo di freeway. L’ispettore Doc Block (Loren Dean) deve ricostruire il complesso puzzle: come ha fatto Mike, nel frattempo svanito, a liberarsi? Chi lo ha aiutato a tagliare la testa dei suoi  rapitori? L’onesto poliziotto interroga, sempre meno professionalmente,  Cat (Tracy Lind), l’attrice emergente che è l’ultima persona che  ha visto Mike prima del rapimento e la prima che lo vedrà quando riappare qualche settimana più tardi. L’ex scienziato della Nasa Ray Bering (Gabriel Byrne), dal suo osservatorio super segreto di Griffith Park, sulle colline di Los Angeles, è stato intanto testimone dell’agguato. Il suo lavoro, governativo, ma non ufficialmente autorizzato, consiste nel controllare qualunque zona della metropoli e, in accordo con una rete di pronto intervento della polizia, cercare di azzerare la violenza metropolitana. Le immagini che Bering ha ottenuto via satellite sono però sfocate, difficili da distinguere. E si accorge ben presto che c’è qualcun altro che lo sta osservando e sabotando…
Come in Contact più si puntano le lenti fuori galassia più si penetrano le pieghe e le piaghe del mondo. Più la Nasa sembrava sguardo terrestre verso il cielo più era sguardo del cielo sulla terra. Infine, in cameo struggente, Sam Fuller, che imita Nick Ray di Lampi sull’acqua. E adesso sappiamo perché. E canticchia Beethoven come lo farebbe James Joyce. ..


Un bel thriller “obliquo”, a ritmo lento, fantascientifico e noir nello stesso tempo. Ebbe la sua anteprima a Cannes ’97 questo nuovo Wenders, non privo di volontà predicatoria, come in tutta l’ultima produzione del profeta tedesco (e luterano) delle “immagini vuote” che ci purificano - rallentando il respiro della visione - dalla incontrastabile seduzione delle “immagini sature”, piene. Film teorico, film che ha a che fare col senso del cinema, dunque su Los Angeles. Non un’opera di poesia o di prosa, ma di pensiero. E disturbò non poco l’ambiente cannoise perché entrava in conflitto, per quanto coprodotto da un colosso mondiale, la francese Cyby 2000, con i cliché dell’altra nuova Hollywood, senza naturalmente sfruttarli, anzi sfaldandoli con ironia e meticolosa perfidia. Procedimento opposto a quello di Quentin Tarantino, liquefare i singoli pezzi del puzzle, non metallizzarli.


Preso di mira, in particolare, il flusso immaginario imperante, quel mix concettuale e ritmicamente implacabile di ricchezza immensa e cinica, fascino del design di classe, intrigo sessuale più spinto possibile e violenza seducente che formano i pilastri del blockbuster americano di oggi, la formula di molti film replicanti di successo, stile “top clip spot model”,  da Tequila Sunrise fino a L.A.Confidential. E fabbricano il mito di Los Angeles, il cuore del Potere, dal glamour radiante. Là dove la violenza che trasforma e dilania le persone, non è tanto nel sangue che sgorga a fiotti o nelle situazioni psicologicamente e socialmente insostenibili (Rodney King, i riots, le gang), ma proprio nella fabbricazione di una Mitologia, di una ideologia del mito losangelino, di una realtà chiusa, razionale e discorsiva, che uccide qualunque alternativa, di un soffocante e ipnotizzante spazio esclusivo di seduzione. “L’immagine oggi – scrive Maurizio Lazzarato nel suo lucido e indispensabile Videofilosofia -  non è qualcosa che si aggiunge al reale per rappresentarlo, ma è il tessuto stesso dell’essere”.


Invece Wenders, proprio dentro la metropoli più pericolosa del mondo, nella “megalopoli di quarzo” dove è già scoppiata da tempo una guerra devastante mai dichiarata ufficialmente, ci offre una possibile indicazione di fuga, ci segnala le forme non razionali e non discorsive del pensiero e del corpo come potenti vettori di soggettivizzazione (contro la globalizzazione e omologazione) e di creatività. E sono il gangsta-rap, un interno di famiglia chicana  (californiani di origine e lingua messicana)  di South Central, la street poetry (poesia di strada), i godimenti assicurati dal videotelefonino portatile e perfino l’high concept movie, il prodotto commerciale estremo (Lynch, Cronenberg, Lyne, Bigelow, Cameron, Dante, Demme, Verhoeven…) capace di  autodistruggersi.  The end of violence, cioè appunti rapsodici, qualche volta pedanti, anche ridicoli, qualche volta spiritosi e illuminanti, più che un film è un pezzo di arte poetico-musicale nell’era numerico-elettronica. Dietro la luce la materia non c’è più, figuriamoci la realtà. Il corpo e il mondo della visione è sintetico, ologramma di ologramma. Così come le ferite che vediamo in Ruanda. Solo la fiducia, l’affidamento che si ha o meno sull’emittente sono reali. Ma ci fidiamo davvero di ciò che vediamo? Secondo Wenders le cose stanno peggiorando di gran lunga e la violenza che subiamo oggi nelle metropoli tra poco ci sembrerà ridicola. Ci fidiamo di Wenders? Che tipo di violenza possiamo aspettarci noi uomini comuni sapendo che i sistemi di sorveglianza e punizione dell’individualità sono talmente perfezionati da rendere ciascuno di noi, da Rodney King a Lady D., bersaglio quotidiano di un proiettile che può arrivarci direttamente via satellite? E anche Wenders, così comincia a spararci questo apocalittico sermone su musiche di Ry Cooder.




OGRO

r.: Volker Schloendorff, int.: John Malkovich. Germania 1996.

C’era una volta un orco buono e un orco cattivo. Anni venti. In un collegio cattolico francese. Immagini in bianco e nero. Se necessario mangiatore di merda e leccatore di fango, il bambino Abel Tiffauges è un insieme di ossa stortignaccole con in cima un ciuffetto biondo. Ha un solo amico, il grasso figlio del portiere suo complice in notturne missioni segrete e luculliani banchetti a sbafo. Ha anche degli strani poteri che, a Napoli, saprebbero ridimensionare, ma lì, nel barbaro nord Europa, fanno ancora sfracelli.
Abel s’arrabbia, dopo l’ennesima punizione, e così il collegio va in fumo. Peccato che nell’incendio perda l’amico. Si rende conto quel giorno che “il destino esiste, che è crudele, e che è dalla mia parte. Io ne sarei stato protetto. Gli altri no”.
Appassionato di bambini nel 1939,  a Parigi è meccanico e fotografo (dilettante) di soli infanti. Abel  viene coinvolto in un caso di violenza sessuale a una bambina che lo trova, ovvio, immacolato capro espiatorio. La guerra lo salva. E’ il fronte e la prigionia. Ma in Germania il suo candore animalista lo aiuta. Il guardacaccia di Goering lo protegge e gli assegna il miglior lavoro della sua vita. Reclutare a cavallo e coi dobermann  al guinzaglio, fanciulli nei villaggi e nelle città per farne il baluardo del III Reich, carne fresca da disciplinare nell’Accademia militare di Kaltenborn. Tutto andrebbe bene al prigioniero francese, trasformatosi in gnomo e folletto, in orco candido, se non fosse per quel bambino ebreo che trova in fin di vita nella boscaglia. Dunque i suoi nuovi amici ammazzano cervi e bambini. Imperdonabile. E quando vede i suoi bimbi ariani pronti allo sterminio inutile s’arrabbia di nuovo. Per Hitler è proprio la fine. Infatti all’orizzonte arrivano i russi…



Un regista tedesco di oggi che si reimmerge con tensione nel III Reich, affronta senza scherzare Hermann Goering, i campi di sterminio e un nazismo ben poco da cartolina, non è poi così normale. Neppure dopo Heimat e Priebke. Dedicato alla memoria e alla sensibilità politica di Louis Malle (allora appena deceduto), e non senza una citazione a inizio film da Arrivederci ragazzi, approda tardi sul nostro mercato (era a Venezia 1996) “The Ogro”, l’Orco, intensa trascrizione dal best seller di Michel Tournier Il re degli ontani. Si tratta del primo film diretto da Volker Schloendorff (l’ala politicamente più a sinistra del Nuovo Cinema Tedesco) da quando è il responsabile degli studi ex Ddr, ma dall’odore ancora prussiano, di Babelsberg. Sempre imbarazzante dirigere un film quando si è a capo degli studi, insomma far pubblicità a se stessi. Ma può succedere quando l’alchimia produttiva è complessa e tra i coproduttori c’è anche quella mano pesante di Claude Berry. E questa tragedia, anzi favola inquietante, anzi grottesco poetico, star John Malkovich nel ruolo di Abel, è il progetto Francia Germania Gran Bretagna, benedetto dal fondo Euroimages, e che si avvale di una ragnatela certa di canali televisivi continentali. Set cittadino Parigi. I boschi sono polacchi e tedeschi, alci e cervi norvegesi, gli attori quasi tutti fassbinderiani. Di inglese c’è la garanzia di Jeremy Thomas (ovvero la banca privata di Bertolucci) e la lingua. Chissà che non favorisca lo sbarco in Usa del film sentire il grasso feldmaresciallo esclamare “of course” ? 


Schloendorff, 27 regie, per lo più “letterarie”, ricorda che a 6 anni, coi calzoncini tirolesi, vide gli americani sotto casa. Ma restò certo della superiorità della razza germanica nel mondo ancora per molto, forse fino all’esperienza hollywoodiana (a giudicare dalle impressioni della sua ex moglie Margarethe Von Trotta). Jacques Tourneur – disse a Venezia – lo aveva colpito nel profondo. Girando questo film, a tratti con la giocondità di un bimbo, e con panoramiche disumane, da alce circospetta, ha voluto liberarsi dei fantasmi infantili, per non rimuovere mai più il passato. 
Le scene più educative del film, definitive per  chi faccia ancora l’equazione pedofilo uguale violentatore, saranno dunque quelle nelle quali Dieter Laser, nel ruolo del biologo Blattchen, invasato di “razzismo genetico”, spiegherà le teorie che compattarono un popolo “poco intelligente ma questo non conta nulla” e lo condussero senza opposizione che non fosse d’elite (“la maggioranza ha sempre torto, perché pensa più lentamente della minoranza pensante, ricordate le condanne unanimi di Gesù Cristo e Galileo?” ricordava, in un bel monologo, il tardo Steve McQueen in Il nemico del popolo)  tra le braccia e sui sentieri nibelungici del vero Orco, quello cattivo. Né l’unico, né l’ultimo…ma noi abbiamo dalla nostra parte gli Abel  & Co.