sabato 20 giugno 2015

Kirk Kerkorian a Hollywood. E’ morto l’imprenditore volante, il re della new Mgm



Kirk Kerkorian

di Roberto Silvestri 

Acquistare, vendere, riacquistare, rivendere. Societarizzare, segmentare, “snellire” l’azienda, licenziare, sbarazzarsi dei rami secchi, avere una visione planetaria del business… Il segreto del mercato non è solo acquistare a poco, riassestare e poi rivendere a moltissimo, come direbbe Catalano. E’ capire che i tempi stanno cambiando, ascoltando bene la canzone di Bob Dylan. E poi bisogna saper collegare il proprio nome a qualcosa di alto, a un marchio leggendario dell’immaginario, a un simbolo volante di “azione, audacia, bellezza e fantasia”, quel che unifica Mago di Oz a 2001 Odissea nello spazio, i musical di Minnelli a Tarzan, Via col vento a George Cukor, Tom & Jerry al ciclo Rocky

E’ stato proprio questo il colpo da maestro, da “pokerista nato”, del 344° uomo più ricco del mondo (31° nel 2006, secondo Fortune), un magnate americano venuto dal nulla che ha vinto giocando e bluffando contemporaneamente su vari tavoli perché era un imprenditore speciale, e puntava a diventare “il padrone dei sogni”. Come sappiamo molti dopo di lui lo hanno, malamente, sciaguratamente, imitato. Ma saranno al massimo burattini nelle mani di un’anonima e incontrollabile, e spesso malavitosa, forza finanziaria tipo Spectre. Lui invece è stato forse l’ultimo dei burattinai “indipendenti”.



Dalle stalle alle stelle
E’ scomparso qualche giorno infatti fa l’uomo, ex pugile, ex installatore di caldaie, ex pilota d’aereo spregiudicato e innovativo che ha anche cambiato la storia del cinema contemporaneo quando, attorno al 1968, è stato tra i fondatori finanziari della cosiddetta rivoluzione creativa “New Hollywood". I ghetti e le università bruciano? Usiamo quella forza atomica per cambiare tutto nel business tranne la propensione al profitto. Un capitalista trasformista che, nell’epoca della globalizzazione, ben maneggiando merci materiali e merci immateriali, culture millenarie e tecnica del just in time, ha modernizzato Hollywood e Las Vegas così come ha trasformato il sistema del trasporto aereo (durante la seconda guerra mondiale ha imposto per il trasporto tra gli Usa e l’Europa la rotta polare più breve e pericolosa, quella che passa per l’Islanda, evitando la sosta in Canada e accorciando il tragitto di 600 miglia) e l’intero mercato immobiliare, cui ha dato per primo obiettivi transazionali. Una biografia che, oltretutto, ci interessa particolarmente, intrecciata com’è sia a quella dei cineasti volanti (James Stewart, il suo "presidente" alla Mgm James Thomas Aubrey...) come il più misterioso produttore di Hollywood, Howard Hughes, che a quella di Giorgio Marchionne, il dirigente d’azienda che nel 2009 lo ha sconfitto nella scalata alla Chrysler. Già, chissà se il padrone italo-canadese della FCA e della Ferrari tenterà mai una ascesa a Hollywood….

Sopravvissuto al genocidio armeno, prova vivente che neanche ai turchi è riuscita la soluzione finale, l’odiato e amato Kirk Kerkorian, morto il 15 giugno scorso nella sua villa di Beverly Hills, è stato, a un tratto, l’uomo più ricco di Los Angeles. Supermiliardario, per molti anni ha controllato la Mgm - il leggendario Studio del leone ruggente fondato il 24 maggio 1924 da Samuel Golwyn e poi diretto a lungo dal mogul Louis B. Meyer – che lui ha acquistata per ben tre volte. Strappandola a Edgar Bronfman Sr. della Seagram dei whiskey canadesi nel 1969. Riprendendola – library fino al 1986 esclusa - a Ted Turner nel 1986. Rivendendola a Parretti nel 1990. E poi gestendola di nuovo dal 1996 al 2005. Una lunga, intensa storia di amore complicata da burrascosi divorzi. 


Tutto cominciò con l'acquisto di un aereo Cessna
Certo, secondo molti analisti, Kerkorian ha sadicamente sventrato e maltrattato di continuo, per trarne profitti sempre maggiori, indifferente al lignaggio, quel marchio reale, simbolo di “eccellenza creativa”. Ma è anche vero che la Mgm - nel “nostro firmamento più stelle che in tutto l’universo” -  è stata nel periodo classico, tra gli anni trenta e sessanta, la più conservatrice, conformista e accademica delle major (e anche la più scatenata e fanatica durante la caccia alle “streghe comuniste” degli anni 50).  Fu anche la prima a credere nel kolossal (fin dalla silent era, La grande parata, Ben Hur…) e nello star system come additivo chimico, a investire e a lanciare divi capaci di scatenare fanatismi isterici e goduriose crisi di astinenza, a cominciare da Ramon Novarro, Lillian Gish, Greta Garbo, Clark Gable… A strappare con l’astuzia e con la frode i grandi talenti alle major rivali (il produttore Irving Thalberg, per esempio, soffiato all’Universal), a sabotare certi artisti diventati troppo scomodi, costosi o irriverenti (da Eric von Stroheim ai fratelli Marx). Kerkorian dunque non era proprio “fuori schema”. Proseguiva una lunga e non sempre meravigliosa tradizione capitalistica.


Kirk Kerkorian con Cary Grant, la più sessantottina delle star di Hollywood 
Infatti chi conquista la Mgm diventa il Padrone del cinema: nel 1949 la Metro Goldwyn Mayer possedeva 31 teatri di posa, 3500 impiegati e 76 vedette (che nel 1976 vedremo tutte nel film collage sui grandi musical dello studio, C’era una volta Hollywood).  E’ il 1951 quando Mayer si ritira e lascia il suo posto a Dore Schary. Nel 1954 è stata l’ultima major a cedere le sue sale (dopo la famosa sentenza anti trust) e a concludere accordi con i network televisivi, inaugurando la produzione di film per la tv. Nel 1965 la Mgm torna ai vertici del box office con Il dottor Zivago, quinto incasso da sempre, con 48 milioni di dollari. Due anni dopo la Mgm di sdoppia, la società di distribuzione viene risucchiata dal conglomerato Loew (sigarette Kent, hotel, banche…) mentre il ramo produttivo va al colosso editoriale Time-Life, associato a Fortune e alle cartiere Eastex. 

La New Hollywood
Dopo molti avvicendamenti al vertice finalmente nel 1969 arriva Kirk Kerkorian che con 77 milioni di dollari compra il 35% della società in grave crisi. Socio di maggioranza piazza alla testa della compagnia il 21 ottobre 1969 (una terza scelta, dopo due rifiuti, consigliatagli dal comune avvocato Bautzer) James Thomas Aubrey jr., detto Jim o il Cobra che ride, ex capo del network Cbs. Tra i suoi più stretti collaboratori gli executive Herb Solow (sarà il responsabile dell’operazione seduci-giovani Fragole e sangue) e Doug Netter. Era il manager creativo e fuori schema che tutti volevano. Un'altra major smaniosa di riforme lo aveva già richiesto, la Columbia Pictures. Aubrey aveva conquistato il pubblico giovane della Cbs a forza di programmi dissacranti e demenziali come Beverly Hillbillies la perfetta concretizzazione della sua formula produttiva: broads, bosoms and fun, ampie vedute, tette e divertimento. Prende 4 mila dollari a settimana ma è senza contratto: "Se non funziono mi cacci".  Aubrey vuole cancellare dalla Mgm l'aura di old fashion che la paralizza. Kerkorian l'asseconda. E pur senza capirne molto di cinema nell'epoca del suo asservimento alla televisione, Kerkorian, da allora, ha contato più di tutti a Hollywood per circa mezzo secolo. 
La prima cosa che fa alla Mgm è sbarazzarsi – sacrilegio - del vintage, vendere all’asta, dal 3 al 20 maggio 1970, oggetti, scene e costumi cult, i preziosi pezzi unici, uno stock di materiale mitologico che rappresentava 45 anni di successi “made in Culver City”. Il sindaco di Los Angeles cerca invano di far diventare quei materiali patrimonio della comunità. Saranno invece proprietà privata dei ricchi cinefili feticisti (e perfino dell'avvocato difensore di Manson) indumenti di Spencer Tracy, le scarpette di Dorothy (Il Mago di Oz), i costumi degli Ammutinati del Bounty e di Tarzan, gli specchi, i candelabri e il letto di Marilyn Monroe in Come sposare un milionario, le scale sontuose e rotanti di The Great Ziegfeld, un carro armato Sherman, le scene da old town di Meet me in St.Louis, mille fucili, locomotive da western, armature medievali dei Cavalieri della tavola rotonda, il trono di Yul Brinner in Anna e il re del Siam… Non solo. Il bulldozer entra in azione per fare un po’ di spazio e vengono distrutte le piscine a cuore di Esther Williams, la villa coloniale di  Via col vento, la giungla di John Weissmuller, la magione di Philadelphia’s Story… André Previn, nelle sue memorie hollywoodiane, ha descritto il "cobra ridens" come se fosse un barbaro selvaggio e blasfemo capace di gettare nel cestino le più preziose partiture musicali del patrimonio Mgm. Roba da Isis…. 


Kerkorian, inizia il dopo Howard Hughes
Ristrutturazione feroce 
Ma il peggio verrà dopo. Il mercato è mercato. I costi vanno tagliati. La qualità non interessa al neoliberismo finanziario. Il 40% del personale è licenziato. 48 acri di terreno vengono venduti alle società immobiliari; si riducono i laboratori per il sonoro (da 28 a 15). Si vendono le copie della library e l’archivio dei nastri del dipartimento musicale, i soundtrack dei film (li comprerà la United Artists, con riedizioni – di successo - delle colonne sonore, a partire dal 1973), si trasformano alcuni studi in parchi a tema e centri di attrazione turistica, si chiudono gli uffici esteri e si trovano nuovi partner (come la Emi in Gran Bretagna) per distribuire i film in Europa. Si fermano i progetti troppo costosi, e assolutamente old fashion, come La Condizione umana da Malraux, che Fred Zinnemann sta preparando da tre anni con un budget allora stratosferico di 11 milioni di dollari. E saltano un’altra dozzina di film considerati troppo costosi, come due musical demodé con Julie Andrews,  Rosencrantz e  Guilderstein di John Boorman (il che permette a Antonioni di girare Zabrinskie Point, ma il film andrà male al box office, anche per il budget di 6 milioni di dollari, il doppio del previsto). 

Jim Aubrey, il bel rottamatore, viene criticato e nel 1986 si difenderà: "dovevamo interrompere l'emorragia continua di dollari, e le scarpette rosse di Judy Garland per me non avevano più alcun valore "intrinseco". Si può discutere, ma certo ha ragione da vendere quando dichiara, per giustificare la svolta calviniana d'autore (leggerezza contro pesantezza), film veloci e sotto il milione di budget: “Nell’epoca di Nixon e della sua maggioranza silenziosa, la tv narcotizza lo spettatore e se sono i giovani a tornare al cinema e dicono basta al mondo di plastica si tratta di fiancheggiare i desideri di questi ragazzi, colti e audaci, che detestano i poster sul prossimo film con Burt Lancaster & Deborah Kerr”, secondo una citazione che si trova in “Le cinéma américain d’aujourd’hui” (Cinema 2000/Seghers Paris 1975) di Théodore Louis e Jean Pigeon. Shaft infatti costa un milione di dollari e ne incassa 12. Sugli affari è uno squalo. "preferirei andare a letto con lui che negoziare con lui" confessa l'agente Sue Menger. Solo che gli autori andrebbero rispettati un po' di più. Aubrey invece è implacabile nel final cut. Controlla tutto spietatamente. Tanto che il regista Paul Magwood ritira il nome dai credit di Chandler: "Adesso è un film di Aubrey, ha perfino fatto rigirare alcune scene" dichiara alla stampa. The Wild Rivers di Blake Edwards viene tagliato pesantemente. "Tagli? - commenta il regista infuriato -  Ha estirpato il cuore del film perché ne sa di cinema quanto uno studentello al primo anno di regia". Il regista Herbert B. Leonard parla di stupro a proposito degli sforbiciamenti di Aubrey su Going Home, con Bob Mitchum. Famosa la litigata con un tipetto suo simile, Peckinpah, per Pat Garret e Billy Kid,  a cui taglia improvvisamente il budget, impedendogli di girare scene aggiunte e, secondo l'allora montatore Roger Spottiswoode, "elimina dal film proprio quei venti minuti a cui Sam teneva di più". L'allora presidente del sindacato registi Robert Aldrich cerca di opporsi a questi metodi, inutilmente. 
Queste riforme, questi tagli da Jack lo squartatore e questo “cambiamento” permettono comunque di tamponare una emorragia di profitti gravissima: le perdite nel 1969 erano state di 35 milioni di dollari, saranno solo di 8 milioni nel 1970. E dal 1971 torneranno i profitti: 16 milioni di dollari.    



Il filantropo 
La biografia di Kerkorian, imprenditore polivalente (aerei, gioco d’azzardo, mercato immobiliare, cinema, automobili…), è davvero interessante (compresa l’obbligatoria, per ogni Mito, infanzia poverissima da dropout) e per molti versi intrecciata all’Italia degli emigranti ingegnosi e coraggiosi. Non tanto per il celebre aneddoto di quando, boss della Mgm, non sapeva chi fosse Gina Lollobrigida, che pure era una diva della sua scuderia. Piuttosto per lo scontro industriale sia con l'avventuriero Giancarlo Parretti, per il controllo della Mgm, che quello, indiretto, con il collega Giorgio Marchionne per quello della Chrysler…. 

Anche se la sua generosità rimarrà leggendaria. “Al ristorante, anche con un conto da 10 dollari, 100 dollari erano una mancia sicura per il cameriere” ricorda al Los Angeles Times Jay Rakow, ex dirigente legale MGM che gestiva l'organizzazione filantropica di Kerkorian, la Fondazione Lincy, nata nel 1989, dopo un devastante terremoto in Armenia, per aiutare le vittime del disastro (la fondazione, come la società di investimento di Kerkorian, Tracinda Corp., prende il nome delle sue figlie, Linda e Tracy, adottate con la seconda delle sue tre moglie, la ballerina Jean Maree Hardy). Nel corso degli anni, la fondazione ha fatto donazioni che ammontano a $ 1 miliardo, tra cui più di $ 200 milioni per il settore ricerca medica dell’UCLA. Donazioni che si sono intensificate durante e dopo la grande recessione del 2008 e che avevano come condizione unica e inusuale quella dell’anonimato, nulla doveva essere dedicato al suo nome. La fondazione, chiusa nel 2012, ha finanziato scuole pubbliche, anche nella zona african-american di Watts a Los Angeles e le comunità povere di Las Vegas. E ha aiutato programmi di servizi sociali e rifugi per donne maltrattate. Secondo la leggenda Kirk Kerkorian  regalò all'ex campione mondiale dei pesi massimi di boxe Sonny Liston, il 29 marzo 1966, la villa con piscina e in mezzo ai prati nella quale il 5 gennaio 1971 Liston fu trovato morto. L’edificio, del valore di 64.000 dollari, si trova nell'esclusiva area di Paradise Township, al numero 2058 di Ottawa Drive .


Viva Viva Las Vegas
Ma andiamo con ordine.  Kirk Kerkorian, morto a 98 anni era nato a Fresno il 26 ottobre 1917 (o il 6 giugno del 1917 come scrive Hollywood Reporter?) da una famiglia della diaspora armena sfuggita al genocidio del 1915-16. Entra negli affari acquistando nel 1946 per 5000 dollari un aereo Cessna e lavorare come pilota civile privato. Poi nel 1947, per 60 mila dollari, acquista una compagnia di aerei charter, la Los Angeles Air Service, poi rinominata Trans International Airlines. Vende e ricompra tutto nel 1964. Pilota professionista guida i Dc3 con classe e perizia, molti anni prima di Sydney Pollack e John Travolta. Nel 1968 anche lui ha un momento di gloria, proprio come gli studenti e i Black Panthers che diventano padroni dei campus universitari. Infatti rivende Transamerica per 104 milioni di dollari e acquista il 30% della mega compagnia Western Airlines.

Nel 1962 aveva comprato 80 acri di terreno su quella parte poco sfruttata di Las Vegas che sarebbe invece diventata la celeberrima Strip, quella illuminata a giorno di Ocean’s Eleven. Mai 960 mila dollari sono stati spesi con tanto acume e lucidità imprenditoriale, visto che proprio su quel terreono  sorgerà il Caesar Palace di Jay Sarno che, per averlo, pagherà ben 9 milioni di dollari. Nel 1969 Kerkorian compra, attraverso la sua società immobiliare, International Leisure Corp., il resort Flamingo e fa costruire a Martin Stern jr. il più grande albergo del mondo, l’International Hotel (il primo casinò di successo fuori dallo Strip, il viale diventato il principale della città, grazie a ospiti d’eccezione come Elvis Presley che fa il pienone e Barbra Streisand).

Dello stesso anno, 1969, è il primo acquisto della Mgm, e degli studi di Culver City. Litiga con la Mpaa, ed esce dalla associazione, sia sulla struttura e sui giudizi dei ratings, che applicano il codice di autocensura, sia per le quote associative troppo alte. Nel 1973, dopo aver venduto i suoi due hotel nel Nevada al gruppo Hilton, realizza la sua cera magnifica ossessione: costruire il megahotel numero 1 al mondo, ancora più gigantesco e sontuoso dell’International,  l’Mgm Grand Hotel (che verrà distrutto da un incendio nel 1980). Intanto a Hollywood Kerkorian cambia passo, o volta pagina come piace dire a Renzi.
Ha deciso, su consiglio di Aubrey, di ridurre la produzione annua a una ventina di film a budget ridotto (da 2 a 4 milioni di dollari). Qualcuno va bene (La figlia di Ryan di David Lean, ma non mancano feroci scontri tra Aubrey e Lean per il budget gigantesco) qualche altro è un fiasco (Fragole e sangue, di Stuart Hagman, nonostante la tematica giovanilistica alla moda, ma fa immagine). Il colpo di genio è l'invenzione della black exploitation. Il pubblico nero è aumentato infatti in maniera considerevole e i due Shaft di Gordon Parks, o Black Caesar di Larry Chen conquistano subito quel 6% di mercato tutto african-american. Del 1972 sarà realizzato anche Sky Jacked (Il pilota dell’aria) di John Gullermin con Charton Heston pilota pazzo che dopo aver bombardato il Vietnam chiede asilo politico in Urss. E poi Distretto 13 le brigate della morte di John Carpenter, Telefon di Don Siegel, Convoy di Peckinpah, Halloween, Hardcore di Schrader, Fog, Il grande uno rosso di Fuller, California Dolls di Aldrich, Ricche e Famose di Cukor, Il serpente alato di Cohen, I predatori dell’Arca perduta e Il colore viola di Spielbergper capire meglio la linea politico-editoriale, radicalissima, durante il suo primo decennio hollywoodiano.  



Le cose si complicano nei rapporti tra Aubrey e Kerkorian dopo 4 anni per il progetto elefantiaco dell’Mgm Grand Hotel, un edificio da 2000 camere a Las Vegas, e per la produzione di un costoso megaspettacolo alla Ziegfeld, “Hollywood Hollywood”, cosa che costringe “il cobra che ride” a sbarazzarsi della società di distribuzione (solo nel 1981 acquistando la UA riprenderà in mano la distribuzione) e a tagliare il numero dei film prodotti annualmente da 20 a 8, a aumentare la quantità di tv-movies, oltre che accentuare le coproduzini con il Regno unito (il meraviglioso In viaggio con la zia di Cukor, Lady Caroline Lamb di Robert Bolt, 1972) o con altri partner europei (Il serpente del francese Henry Verneuil, 1973). A quel punto però Aubrey lascia, torna ad essere produttore indipendente e sparisce nel dimenticatoio prima di morire negli anni 90. Solo Sherry Lansing, la prima donna che ha diretto un megastudio, la 20th Century Fox,  gli è restata amica fedele e ha dichiarato nel 1986 al Los Angeles Times:
Jim è diverso. Fa il lavoro sporco. Jim è uno dei pochi capaci di dire: "il tuo film non mi piace". Questa franchezza è disarmante per chi è abituato all'ipocrisia zuccherosa che circonda chi ha bisogno di approvazione e vede qualcuno che non lo fa. Miti e leggende cominciano a circondare quel tipo di persona.

James T. Aubrey, il presidente della Mgm di Kerkorian per 4 anni 

Verso la Chrysler  
Ma torniamo al super capo.
Nel 1976, dopo aver rivenduto alla Western Airlines il 17% delle sue azioni per 30,6 milioni di dollari, tenta, senza successo, la scalata alla Columbia Pictures. Nell’81 prova a comprare sia la United Artists (e ci riesce sborsando 380 milioni di dollari) che la 20th Century Fox, ma quest’ultima diventà proprietà di Marvin Davis. Nel 1982 fonda la Mgm/UA affidandola al produttore Alan Ladd jr.  che diventa un colosso anche nel mercato homevideo. Il suo pallino è quello di trasformare Eddie Murphy nel nuovo James Bond. Sogno irrealizzato. Nell’84 tenta la scalata alla Walt Disney Company (ma intervengono perfino Spielberg e Katzemberg per impedirglielo). Nel 1986 Ted Turner acquista per un miliardo e mezzo di dollari la Mgm, ma a causa dei debiti pregressi manterrà il controllo degli Studios solo per 76 giorni e alla fine riuscirà a conservare solo l’archivio di film Mgm (circa 3000 film realizzati prima del 1986, e tra questi anche Via col vento,  indispensabili per rifornire la sua tv cavo) ma non il logo, i centri di produzione, i teatri di posa e la distribuzione. Gli analisti dissero che si trattò dell’ennesimo affare perfetto per Kerkorian.
Nel 1987 Kerkorian fonda una compagnia aerea, la Mgm Grand Air e decide di comprare il Desert Inn e il Sands Hotel a Las Vegas.  Nel 1990 l’uomo d’affari italiano Giancarlo Parretti assieme a Florio Fiorini, a capo di una cordata piuttosto misteriosa, acquista la Mgm per 1,3 miliardi di dollari (uno dei peggiori investimenti della storia hollywoodiana) ma in meno di un anno la banca francese Credit Lyonesse subentrerà a Parretti perché insolvente (Dustin Hoffman si vede rifiutato un suo assegno perché scoperto…) e anche peggio (e dovrà coprire un passivo di oltre 2 miliardi e mezzo di dollari, che ripianerà poco a poco producendo tra l'altro film come Get Shorty di Barry Sonnnefeld, 1995 e The birdcage di Mike Nichols, 1996). Nel 1990 Kerkorian intanto, già presente sul mercato dell’auto con una quota nella General Motors che nel 2005 è del 7,2%) ha comprato il 9,8% di Chrysler Corp. Quota che passerà al 10,2 nel dicembre del 1994. Nell’aprile del 1995 la Chrysler rifiuta una proposta di acquisto (22,8 miliardi di dollari) di Kerkorian e dell’ex presidente del consiglio di amministrazione Lee Iacocca. Nel 1996 il magnate armeno-americano compra per la terza volta la Mgm per 1.3 miliardi di dollari, assieme al broadcaster australiano Seven Networks. La gestione francese aveva rimesso in sesto gli studi e della rinascita creativa del marchio approfittò Kerkorian che comprò all’asta gli studi, cercò anche di acquistare per 11 miliardi di dollari la Universal che però andranno prima alla francese Vivendi e poi alla Nbc), per poi rivenderli nell’aprile del 2005 a un consorzio guidato da Sony Corp. Il gruppo, che ha pagato circa $ 4,9 miliardi, incluso il debito, era interessato a produrre il nuovo film di James Bond. A quel tempo, il Los Angeles Times ha calcolato che Kerkorian con quella vendita ha fatto un profitto di 3,5 miliardi dollari. E nel 2010 la Mgm Sony ha presentato istanza di fallimento...Nel 1998, mai domo, Kerkorian aveva acquistato l’archivio cinematografico della PolyGram. Ma già nel 2002 la Mgm è in vendita. Continuano gli investimenti in megaresort a Las Vegas (Mirage Resorts, nel 2000, Mandalay Resort Group nel 2004) e diventa assieme a Sheldon Adelson il secondo padrone della città e il re del gioco d’azzardo. Dal 1998 inizia lo scontro con la Daimler-Benz per l’acquisto di Chrysler, portata in tribunale da Kerkorian per frode. Nell’aprile del 2005 una corte federale dà ragione alla società tedesca (confermando la sentenza in appello nel 2007).




domenica 14 giugno 2015

I vecchi amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili. Il nuovo Jia Zhang-ke, "Mountains May Depart" a "Cannes a Roma e Milano"




il regista cinese Jia Zhang-ke
di Mariuccia Ciotta



Mountains May Depart


Per "Cannes a Roma e a Milano", e a Roma anche lunedì 16 giugno alle ore 20 al cinema Giulio Cesare, dopo essere stato in concorso sulla Croisette, è stato presentato Mountains May Depart, atteso titolo di Jia Zhang-Ke, Leone d'oro a Venezia (dove aveva già presentato Platform) con Still Life (2006), regista quarantenne in cima alla lista della nuova generazione cinese. Il film è arrivato all'ultimo momento, fresco di montaggio e con qualche problema tecnico (la proiezione si è interrotta un paio di volte), ma, accolto con entusiasmo, è stato tra i favorite - dimenticato dalla giuria -  per la Palma d'oro.

Jia Zhang-Ke ha affilato la sua poetica nel documentario, tema dominante la Cina in via di trasformazione. Addio al sapore di un'antica cultura (e dei ravioli al vapore), all'infanzia che ha radici nella piccola città di Fenyang, nella provincia centrale di Shanxi, dov'è nato e vissuto il regista. Il film si apre nel 1999 con il vortice chiassoso di un balletto di ragazzi a ritmo di Go West dei Pop Shop Boys, cult da discoteca in quegli anni, ed esibisce il formato stretto della prima cinepresa digitale di Jia Zhank-Ke, una serie di “appunti” che col passare del tempo, non solo cinematografico, si allargano nel cinemascope, fino al fantamondo del 2025, ripreso con l'Arriflex Alexa.

Un percorso spazio-temporale che stringe il presente tra memoria e preveggenza e si materializza nel corpo di Tao (Zhao Tao, moglie del regista e attrice in molti suoi film) divisa tra due amici di sempre, il presuntuoso e rampante Zhang, padrone di una stazione di servizio e deciso a far soldi, e Lianzi, gentile e dimesso minatore. Sceglierà il peggiore, perché “i nostri modi di vivere sono stati sconvolti con l'irruzione del denaro al centro di tutto”. 

Tanto che Zhang chiamerà il suo bambino Dollar, e lo spedirà appena possibile, dopo il divorzio con Tao, in Australia, più lontano geo-emotivamente possibile dalla Cina, un luogo simbolo dell'emigrante incapace di parlare l'inglese e di dialogare con i figli. Materiali misti, reali e immaginari, che viaggiano metaforicamente su auto (lussuosa e rossa quella di Zhang), treni, aerei, e oggetti domestici primitivi accanto a schermi e cellulari ultrapiatti, trasparenti... il passaggio da “com'eravamo” a come “come saremo”, Mountain May Depart già nel titolo indica il traguardo. 

Quello originale vuol dire “i vecchi amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili”, paesaggi di riferimento. Traduzione dall'inglese, “le montagne possono andarsene”, e si vede. In ogni inquadratura, sullo sfondo, campeggiano gru monumentali sospese su grattacieli in costruzione, note allarmanti nello skyline cinese, giganti che incombono sulle casette malferme, le botteghe di artigianato, i mercati, i prati di Fenyang.
Se con Touch of Sin (in gara a Cannes 2013) il regista ha scritto un diario in nero del paese, film a episodi di vita spietata, qui lievita l'angoscia, un sommesso, crescente malessere che fa svaporare l'allegria di fine Novecento e si dispiega nella storia di Tao, sempre più disillusa. Perderà il padre, scrigno di memoria, e anche il figlio se ne andrà così lontano da dimenticare il nome della madre.

venerdì 12 giugno 2015

Jurassic World nell'isola perduta di Spielberg



Mariuccia Ciotta



Passeggiare nell'era giurassica non genera più meraviglia come accadde ventidue anni fa con l'opera pionieristica di Spielberg che ci mostrò il futuro del cinema nel salto all'indietro, verso il passato e oltre, coniato con il primo esperimento (dopo Tron) di computer-graphic. Riaccendere i sensi alla vista dei giganti prima del tempo è il problema di Jurassic World, quarto capitolo in 3D della saga ispirata al romanzo di Michael Crichton, progetto rimasto a lungo in stand-by, dopo la doppietta del regista di E.T e il terzo sequel firmato da Joe Johnston, grandi incassi ma poco fascino, datato 2001.

Molti anni e molti cervelli hanno covato le uova del T-Rex che si schiudono nei titoli di testa e promettono un nuovo prototipo, esemplare unico creato in laboratorio a base di innesti di Dna, pixel e motion-capture. A chi siano stati applicati gli elettrodi per ricavarne e-motion e movimento è un mistero, ma l'Indominus Rex, per gli amici I-Rex, è nato, ha la pelle biancastra, i geni selezionati dalle miglior specie, rapidità da velociraptor, capacità mimetica, potenza massima e un tocco eccentrico ricavato dal genoma di seppia.

Il mostro celibe, incapace di relazioni (ha divorato il fratello clone) fa spavento per un dettaglio: non è un dinosauro. E' un ibrido, un tecno-animale dall'intelligenza artificiale.

Qualcosa di innominabile deve essere finita nella pentola del genista capo Henry Wu che se la gode nel laboratorio annesso al parco tematico Jurassic World come ogni scienziato pazzo pagato bene, e di cui si trova traccia nel filone Isola del dottor Moreau e nella cronaca. 
Chris Pratt
 

L'idea è buona. E anche lo slogan, “Più denti”, alla base del rilancio dell'Isla Nublar, al largo del Costa Rica, dove Crichton immaginò di aprire il villaggio turistico per grandi emozioni e dove il magnate entusiasta John Hammond (Richard Attenborough) sognò una convivenza ludica con i rettili preistorici. “Più denti” è la richiesta del pubblico che vuole sempre nuove attrazioni e spinge ogni parco a tema a sfornarne di più spettacolari, anche a costo di sfigurarne l'anima. Metafora dell'esistente, vale anche per l'ingordigia da botteghino. Se ne avesse meno di denti, Jurassic World sarebbe quasi all'altezza di un altro sequel spielberghiano, Lo squalo 3, scritto dall'insuperato scrittore di Science Fiction Richard Matheson.

“Divergenze tra l'Universal e gli sceneggiatori” è il motivo ufficiale dei tredici anni di attesa e l'alternarsi di nomi importanti (tra cui quello di John Sayles) fino alla scelta di un quasi esordiente, Colin Trevorrow, al suo secondo film dopo il premiato al Sundance 2012 Safety Not Guaranteed, non a caso, un viaggio sulla macchina del tempo. Il trentanovenne regista (co-sceneggiatore insieme a Derek Connolly) ha scelto il set di una immensa Disneyland con una sola area tematica, Adventureland, abitata da pacifici maestosi erbivori, plasmata sul modello zoo-safari, visitabile a bordo di “girosfere”, veicoli a forma di palla trasparente, e dotata di uno spazio per bambini invogliati a cavalcare mini-dinosauri proprio come accade ad Anaheim (con i pony). Set, lo zoo di San Diego, tra i più belli del mondo, i paesaggi verdeggianti delle Hawaii (l'isola di Kauai), le pianure d'acqua di New Orleans... 


L'orribile macelleria di Jurassic Park si muta in paradisiaco mondo della creatività invaso da decine di migliaia di visitatori nella luce radiante del Pacifico e sulle note esuberanti di Michael Giacchino che, come tutto il film, rende omaggio al capostipite della serie, e cita il leit-motiv di John Williams. A rinsaldare l'effetto remake è Chris Pratt, il protagonista del blockbuster anomalo dell'estate scorsa, Guardians of Galaxy, ironico danzante reebot di Guerre stellari.

Ma, ci vogliono “Più denti” e Jurassic World si piega ai diktat dell'Universal. Non prima però di aver scodellato il pezzo forte dello script. Owen Grady (Pratt), istruttore di velociraptor, anziché di delfini, è in grado di comunicare con i feroci e snelli dinosauri, battezzati Blue, Charlie, Delta e Echo, sottomessi dall'imprinting, ammaestrati e ubbidienti (quasi) al “maschio Alpha” davanti a una folla sbalordita e all'eccitamento dell'affarista Vic Hoskins (Vincent D'onofrio, The Cell, Men in Black) che li vorrebbe reclutare al posto dei marines per un business di guerra.

Il contatto uomo-animale si produce nell'impossibile non solo perché riscrive la (prei)storia, ma perché prefigura il rapporto con il “selvatico”, la bestia che non si può addomesticare, tranne se al posto della frustra a battere sul muso non sia una carezza. E siamo dalle parti di Dragon Trainer, il cartoon. 
Owen Grady, il domatore di velociraptor


A spazzare via l'incantesimo arriva la fuga e la caccia all'Indominus Rex, così furbo da strapparsi dalla carne il chip di rilevamento, e il film perde d'intensità con le scene dejà vu. Due ragazzini inseguiti dal colosso dentuto, peripezie varie con addetti al parco divorati a decine, il boss di turno (indiano) della Masrani Corporation che oscilla tra la protezione dell'investimento miliardario e quella dei visitatori aggrediti dai dinosauri “cattivi” in combutta genetica con il bestione, il nerd imbranato (anche se per una volta è una lei), e tutti gli avidi malefici fatti a spezzatino.

La nota dominante, però, resta la fanta-commedia, un gioco di rimandi con la memoria cinefila, a cominciare dalla solerte Claire (Bryce Dallas Howard), capelli rossi come il padre (Ron), responsabile delle operazioni del parco, che da signorsì in tailleur si trasformerà in amazzone accanto al tenero macho Owen, pronta a sfidare stormi di pterosauri in una sequenza-tibuto a Hitchcock pur di salvare i nipotini.

Altra strizzata d'occhio riservata al maestro Spielberg sta nell'”attrazione” Mosasauro, coccodrillone nutrito a squali che, appesi a una gru, lo fanno balzare a fauci spalancate dalle acque di una immensa vasca. Promozione del tour agli Studios Universal dove campeggia l'icona di Jaws


Il kolossal costato 150 milioni di dollari (più dei tre precedenti) rischia nella sua vocazione meta-cinematografica di perdere proprio la meraviglia che non è mai una formula, come credono gli executives. Se non fosse per l'imprevisto, il fuori fuoco, l'incertezza emotiva degli esseri resuscitati per incontrare l'uomo, per scambiarne lo sguardo amorevole che li sedurrà tanto da tradire la specie e l'ordine devastatore del “figlio della provetta”, l'unico alieno, lo snaturato killer per piacere.

Spielberg, produttore esecutivo, innesta suggestioni originali (la sua “unica” idea) come la corsa degli uomini in motocicletta affiancati dai velociraptor, un affresco videoarte nel buio della giungla. E nel finale ci vuole lo striscione scolorito di Jurassic Park per dare un fremito di nostalgia e ricordare il senso liberatorio della generazione New Hollywood e il gioco anarchico delle immagini. E' il T-Rex stilizzato nel celebre profilo, ombra cinese in fermo immagine, a riprendersi il podio nell'ultimo ruggito solitario in cima all'Isla Nublar, l'isola che non c'è. 






















giovedì 11 giugno 2015

Ornette e Christopher in the skies with diamonds. Sulla morte del padre del Free Jazz e del figlio di Dracula

Il compositore e sassofonista texano Ornette Coleman


di Roberto Silvestri 


L'attore inglese Christopher Lee
La bellezza è una cosa rara. E' entrata in clandestinità. E ci vuole fegato per reggerne lo sguardo. Destabilizza sempre. Scatena calore, energia collettiva, però.

Quando ti morde il Principe delle Tenebre, un metro e novantasei centimetri di puro Male concentrato ("usava i tacchi in Horror Express per sembrare ancora più imponente, parola dell'attrice Helga Liné), puoi anche godere, per essere la prescelta o il prescelto, ma non sai ancora come sarà la "forma che verrà". Dal caldo passi al freddo e oltre. Il rosso assume una personalità e uno status differente. Gli spazi si dilatano o delocalizzano. Raramente è grande, la bellezza, solo la black music lo è... Il processo è fulminante.  

Horrors of Dracula il capostipite, è del 1958. Seguiranno circa 15 "variazioni Goldberg" sul potere di quei canini Christopher Lee superdotati di qualità psicotrope. Non ci fossero stati i cinemini di terza visione, le nicchie auree del consumo di massa non parrocchiale, come avremmo capito, senza leggere Deleuze, l'inebriante potenza di chi non sente nulla e tutto controlla anche il tempo quando nel rito, nell'oltre spazio, subisce la grafica della violenza? E l'inebriante potenza di chi accellera il tempo fino a farlo svanire, schiavo della forma e della forza interiore sadica? La frusta e il corpo. Di Mario Bava. 1963. Forse il vertice artistico (con Gremlins 2) di una lunga e prestigiosa carriera shakesperiana, a parte gli oltre 200 film e telefilm.


Non ci fosse stato un articolo dall'inviato americano di Tv Sorrisi e canzoni mai avrei scoperto l'importanza della scena musicale radicale newyorkese dei primi anni 60. I free jazz. Marion Brown, Grachan Moncur, Roseweel Rudd, Giuseppi Logan, Archie Sheep, Cecil Taylor, Sun Ra... ci aprirono un mondo di suoni meravigliosi e di fierezza politica indomita grazie alla svista geniale di un capo redattore che ancora non era il funzionario di un partito di destra. 
Uno di loro, suonatore di sax contralto estremamente strano, perché spesso di plastica (dei razzisti bianchi gli avevano distrutto il suo e così il nostro chiese aiuto ai bambini), decise perfino di fare a meno del piano, il principe della musica occidentale. Di ridurre cioé la trama armonica. Esplorava, ancora più di Sonny Rollins, la variazione melodica sulla linea, e non sulla sequenza di accordi.... Interessante, no?

Si trattava di proseguire il lavoro di Charlie Parker. "Il mio approccio melodico è basato sul fraseggio, e il mio fraseggio è un prolungamento del mio modo di sentire gli intervalli e l'altezza del motivo che suono. Non vi è definizione di altezza. Si può suonare in bemolle e in diesis. E' un problema di vibrazione. Il mio fraseggio è spontaneo. Non si tratta di stile. Vi è stile quando il fraseggio si irrigidisce. Il jazz è l'unico genere di musica nella quale la stessa nota può essere suonata sera dopo sera ogni volta in modo diverso. Si tratta di cose nascoste, del lato inconscio che sta nel corpo e affiora alla conoscenza. Lo sentite e lo suonate".

E ancora oggi, quando si ascolta un disco Atlantic, ormai vintage, degli anni 60, danza nella testa un altro sound, qualcos'altro rispetto alle solite melodie perché gli standard vengono trattati alla "necrofilla". E si muove stranamente qualcosa. Folli accelerazioni sgualciscono i ritornelli, come inquadrati da lenti anamorfiche e di sbilenco.  O già appare una futura filastrocca eterofonica, lisergica, hip hop o yoruba quando meno te l'aspetti. 
Il mostro acustico è favolosità danzante, basta dargli tempo, oggi Lonely woman o Peace sembrano Schubert. Stai avvicinandoti - con Charlie Haden e Billy Higgins alla ritmica e Don Cherry alla tromba - alla stessa sensazione, all'estasi, al salto di stato (ora sappiamo che era già prefigurata la rotta africana, stato dopo stato, verso la libertà del biblico esodo a nord, ma senza che il mare si apra da solo, purtroppo, di oggi). Il batterista Billy Higgins sarebbe stato sbattuto fuori dal film Whiplash. Crea modelli complessi e senza tempi, di evidente derivazione afro-asiatica, una specie di eternità di sfondo ai lamenti surrealisti "di un sax che sa ridere, farfugliare, gemere, ululare, gorgogliare come un animale, un bambino, un uomo o una donna impauriti o angustiati o colti da una gioia improvvisa". 
Così scrive Wilfrid Mellers in Musica del nuovo mondo (Einaudi, 1975). E dimentica di nominare Isidore Isou. Il lettrismo diventò così non idioletto cool per pochi eletti ma arte popolare ricollegandosi al blues e al New Orleans, solo un po' mascherato da Halloween. Il grido istintivo e antico della solitudine non è cambiato. Robert Johnson si è solo urbanizzato e vive malissimo nei ghetti pronti a incendiarsi. Quando vedo per la prima volta dal vivo, a Roma in via Asiago, Ornette Coleman indossa un completo viola che sembra uscito dal film Four Rooms di Roberto Rodriguez ambientato tra i bellboy. Che figura. Poi scopro che tra i lavori di Ornette c'era stato anche quello di ascensorista di hotel...e che il colore viole è stato identificato dall'uomo solo di recente.


Ornette Coleman ,David Izenson e Charles Moffett
Hammer films e Free Jazz vivono e combattono nello stesso periodo. E' come se percepissero in quel momento un organismo sociale così malato e malandato da dover subire un trattamento psicofisico rigenerativo radicale. La tecnica è quella di congelare i virus tossici, rischiare la cristallizzazione, attraversare cacofonie neoespressioniste, risalire verso il caldo...  Senza un elettroshock culturale l'umanità sarebbe colata a picco o calata in un unico blocco di piombo. Gli anni cinquanta. Erano quelli infatti "gli anni di piombo", non il decennio successivo.... Lo capimmo grazie all'album free jazz e a quel Dracula.  Expressions più che Impressions. Grumi di emozioni sprovviste di significato ma dotate di senso storico. Non istantanee. Non solo Malcolm X e Patrice Lumumba. Thomas Sankara e Bobby Seale.  Ma.




Oggi Ornette Coleman e Christopher Lee non ci sono più.

E' come se l'arte moderna avesse perso d'un tratto la sua parte più preziosa, il suo fegato. E il fegato (in tedesco leber) non  è che la vita (leden). 
Adesso un pezzo di scrittura libera e improvvisata e acrobatica diversamente rigorosa. 
Il jazz freddo più radicale e sperimentale come il dottor Jeckyll con il suo doppio - così contiguo a Darmstadt, a Varése, Cage e Morton Feldman (se Coleman non fosse fuggito a Parigi sarebbe morto di fame, se non avesse "seguito Bowles" in Marocco sarebbe morto di sete sonora, non avesse sempre tenuto lo sguardo fisso su tutta la musica viva, anche pop, perché la segregazione dei generi non ha più senso, non sarebbe stato l'esempio vitale e corroborante che è stato  per sei decenni) - e il cinema cool, colorato e cinemascope ma dolce fino alla putrefazione (e si trovarono insieme ai massimi livelli artistici, parliamo di cose apparse in Gran Bretagna e negli Stati Uniti attorno al decennio 1949-1959) ma da sempre avvinghiati come l'edera all'oggi e al globo tutto - restano così d'un tratto senza necromanti, senza pulsazione frenetica, senza Sartuman, senza harmonologia, senza Dracula, senza action painting acustico, senza Frankenstein, senza sax bianco di plastica. 

Senza La Mummia ("ho ucciso solo tre persone in quel film, e una in maniera addirittura non violenta, rompendogli il collo"), il Prime Time, Mister Hyde, l'etichetta Contemporary e Gunther Schuller... Coleman in realtà fu costretto a trasferirsi a Parigi, quartiere latino, in rue Monsieur Le Prince, perché in Texas i razzisti erano risorti e poi in Usa non sapevano ancora come ascoltalo e gli impedivano ogni elaborazione da scienziato pazzo (Science Fiction è del 1971). I texani sono diversamente strani, no?


Christopher Lee
La morte, tra il 7 e l'11 giugno scorso, di due leggende viventi nell'eternità, l'attore inglese Christopher Lee, 93 anni, vero nome Christopher Frank Carandini Lee, lontana origine nobile italiana, e il pluristrumentista e compositore texano Ornette Coleman, 85 anni - la notizia però è arrivata contemporaneamente, il che aggiunge mistero al mistero - mi ha fatto pensare a quello che scriveva Joseph Beuys sull'arte.

L'arte è una scultura sociale.Tutti usiamo continuamente materiali invisibili per plasmare i nostri pensieri e dargli forma, con parole o suoni o immagini di ogni tipo. Quindi tutti "scolpiamo" nel vuoto, tutti siamo artisti impegnati in un processo evolutivo. Cos'è in fondo la scrittura, i disegni... e la scultura? Nel libretto appena uscito da Castelvecchi, a cura di Volker Harlan, Joseph Beuys riporta la definizione che ne diede l'astrattista americano  Ad Reinhardt  "quella cosa su cui inciampi quando fai due passi indietro  per guardare meglio un quadro".


Ma questi due artisti, e cittadini impeccabili, e giocatori d'azzardo (Coleman ottimo anche al biliardo e ne possedeva uno rosso nella sua casa di Manhattan), più di altri sono stati radicali nel creare sculture gioiose e rivoluzionarie (anche se Christopher Lee si vantava molto del suo conservatorismo churchilliano, da suddito e quasi da spia di Sua Maestà), perché hanno usato più di altri il make up, il trucco, il gioco, l'oltre confine (il disco di Coleman con le launeddas), l'ebollizione, la cottura dei materiali, la presenza degli altri, dei complici, l'urlo repentino, la deviazione fuori legge, la finestra sempre aperta al collettivo. Si dirà. Certo sentire 38 minuti di seguito di protesta cataclismatica senza tema, senza basso accordistico e senza struttura ritmica per il nostro orecchio occidentale è esperienza dura. Eppure senza Coleman niente Cage, niente Feldman e niente "minimalismo".

Free Jazz e il Dracula di Lee hanno molto in comune. Nei loro film e nella loro musica tutto è in stato di cambiamento, il work è in progress: rezioni chimiche, fermentazioni, alterazioni cromatiche, degrado, essiccazione, degenerazione, decomposizione, rigenerazione... Entrare in una bara dopo averlo visto fare tante volte da Lee sta quasi assumento aspetti piacevoli. Certo Franco Moretti in un celebre saggio dava del conte rumeno Vlad, sterminatore di maomettani, una lettura molto poco ancorata all'apogeo aristocratico e più al periodo d'oro del capitale finanziario, allo sfruttamento assoluto dell'uomo sull'uomo, metafora dell'eterno programma di mercificazione universale e della estrazione "canina" di plusvalore. Sangue rosso non blu.




Ma Christopher Lee ha indossato tutte le maschere del male, ha incorporato e fatto esplodere durante la sua lunghissima carriera la malvagità umana in tutte le sue sfaccettature psicologiche, culturali e storiche, da Fu Manchu a Francisco Scaramanga, il nemico di James Bond in 007 L'uomo dalla pistola d'oro fino al Count Dooku di Guerre Stellari episodio III. Sfogliando i suoi horror abbiamo compreso meglio non solo i crimini del colonialismo, imperialismo, neoliberalismo e lo stragismo di stato, non solo il loro colore, ma anche il loro calore. Sono diventate ormai le nostre guide dettagliate per l'azione. Come maltrattava lui l'armonia e la consonanza dell'eroe senza macchia e senza paura, come ci spiegava che i malvagi non erano solo quelli più facili da scovare e abbattere, come deturpava ogni tratto dell'anima bella così anche le invenzioni ritmiche melodiche e armoniche di Coleman andavano dritte alla sostanza delle cose, al principio dei principi del suono, alla materia come detonatore evolutivo, principio creativo fondamentale di cambiamento.  Un fluxus sonoro senza ipocrisie e sentimentalismi, pieno di umorismo sferzante e capace di esplorare le forze vitali della mente, e creare forme psico-spirituali di barbara nobiltà.




Oltre alla cupezza e tristezza per la perdita di questi due amatissimi artisti, e allo spaesamento perché non si esibiranno mai più il jazzizsta più innovativo dell'ultimo mezzo secolo e il simbolo stesso del cinema come ricognizione dentro l'orrore e i lati dark della vita, questo lutto gemello accomuna due "smaterializzatori della contemporaneità", due "filosofi della libertà" che hanno invertito e trasformato il mondo, non solo dei suoni e delle immagini, irreversibilmente. Un concetto incomprensibile per i rottamatori che fanno politica come i poliziotti, chiedendo documenti di identità e anni di nascita, ossessionati da un vecchio che chiamano nuovo e da un cambiamento che già conosciamo benissimo. Risentano almeno Change of the Century (1960), Crisis (1969), Body Meta ('76) e gli intrecci fertili fabbricati assieme a Lou Reed e John Lewis, Yoko Ono e Jerry Garcia, Paul Bley e Jackie McLean per scandalizzarsi un po'... Il conflitto era infatti il loro terreno di vita. La loro missione impossibile smaterializzare (Sir Christopher Lee soprattutto davanti agli specchi) tutto ciò che non ci soddisfa nello stato in cui appare. Assistere a un concerto di Ornette (Adriano Mazzoletti ne organizzò uno indimenticabile appunto in via Asiago nei primissimi anni 70 per la RadioRai, in quartetto con David Izenson e Charlie Haden al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria e lui al sax tenore, soprano, musette e altri strumenti a fiato di asiatica provenienza, e per cominciare Lonely Woman) era come partecipare a un congresso di sanculotti, Molly Maguires, anarchici del XIX secolo o sessantottini, proprio come assistere a un duetto tra Lee e Peter Cushing era ammirare un tipo di recitazione estremamente sinistra. "La gente crede che io e Peter Cushing viviamo insieme dentro una caverna".


Don Cherry e Ornette Coleman

Inoltre Ornette Coleman, "the prophet of freedom", è particolarmente legato al cinema più di quanto non si pensi. E non soltanto per due celebri partiture per il cinema di cui una mai usata (Chappaqua, uscita solo in disco, perché poi il film fu affidato a Ravi Shankar) e l'altra legata al grande successo del 1981, Il pasto nudo di David Cronenberg tratto dal romanzo di "impossibile trascrizione cinematografica" di William S. Burroughs. Ovvio che della scrittura di Burroughs Ornette utilizzava tutti ma proprio tutti i procedimenti possibili e immaginabili (improvvisazione, imprevedibilità, cut up, "esperanto" come fuga dai linguaggi musicali sistematizzati, alea, rallentamenti, velocizzazioni, deviazioni, esodo...) per sfuggire al controllo bio-politico autoritario e provocare una reazione chimica purificatrice nell'ascoltatore. E nello spettatore. Per esempio in Chappaqua di Conrad Rooks è attore, nel ruolo di Peyote Eater, al fianco di Allen Ginsberg (Il Messia), Ed Sanders dei Fugs e guru, profeti, spacciatori di tutto... Pontefice massimo di quel film fondamentale sulla droga e cancellato dalla memoria perché troppo pericoloso per lo spaccio adulterato, pubblico e privato, proprio Joan Lui, "Opium Jones", William S. Burroughs. Ma Randolph Denard Ornette Coleman  è stato anche il soggetto di sei documentari musicali come David, Moffett and Ornette: The Ornette Coleman Trio (1966) e Sonny Rollins Beyond the Notes (2014) di Dick Fontaine e soprattutto del capolavoro biografico del 1985 Ornette: Made in America realizzato nell'epoca delle ambizioni sinfoniche più scatenate dalla sua alter ego cinematografica, la cineasta indy newyorese Shirley Clarke. Jean-Luc Godard ha lavorato con lui in Detective, il cineasta afro-cubano Francisco Newman lo ha voluto al fianco in Virgin again, pamphlet femminista sul sesso e sui sensi di colpa iniettati dalle religioni (2004), l'indipendente Billy Sharff lo ha usato nella colonna sonora dell'incubo psicoanalitico in bianco e nero The Sparrow and the Tigress (2010) e prima Josef Bogdanovich lo ha utilizzato in Boxoffice (1982) e nel 1968 il canadese francofono Pierre Hebert per il cortometraggio Population Explosion. Forse però è stato un altro fotografo e cineasta beatnick, Robert Frank  a realizzare in duetto con lui il gig più entusiasmante, Ok and here (1963), mediometraggio di mezzora scritto da Marion Magid, la storia di una giornata di festa di una coppia a Manhattan. Purtoppo non dovendo lavorare ci si confronta con se stessi e con gli altri. Il che è piuttosto imbarazzante e non esente da frizioni. Litigi, riappacificazioni.



Non troverete però neppure su Imdb alcuna traccia di un film italiano con Ornette Coleman sia attore che musicista. Una delle sue ultime apparizioni sul grande schermo. Si tratta del documentario indipendentissimo e semi-biografico di Sabrina Digregorio  Full Circle - The Kostabi Story, girato nel 2011 e presentato nel dicembre 2013, dedicato alla post Pop-Art e in particolare a una figura di spicco dell'avanguardia artistica dell'East Village, il pittore-provocatore, ma anche performer, musicista e compositore, ma anche genio del marketing, come dice il nome stesso, Mark Kostabi. La sua specialità? Figure umane senza volto, tra De Chirico e Joe Dante (episodio di Ai confini della realtà), su sfondi surreali. La Kostabi World, una factory modellata su quella di Salvador Dalì e Andy Warhol a Union Square, sfornava, dal 1984 in poi, oltre 1000 quadri all'anno attraverso la collaborazione creativa di ragazzi di bottega che riproducevano il prototipo del maestro, anche per Swatch, maglie rosa del Giro ciclistico d'Italia e marche di caffé. I critici si azzuffavano pro o contro il Kostaby Show, troppo commerciale, figurativo, accattivante, seducente... Ma Guggenheim Metropolitan e Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma compravano le sue tele contendendole a ristoranti, centri commerciali e a Bill Gates. Baj e Cucchi hanno collaborato con lui. Billy Wilder e Debbie Harry lo adoravano. I Gun's and Roses gli hanno chiesto di disegnare la copertina dei loro album.. C'è aria di Tim Burton e di Big Eyes? Sì. Ma tre anni prima del film su Margaret Keane, la pioniera dell'arte monoiconica che ridicolizzò negli anni 50 con candore situazionista la struttura di Mercato vigente, e l'Accademia, i critici e le Gallerie conniventi. Quelle che avevano imposto, in regime di mercato, l'astrattismo americano prima e la pop art poi in tutto il mondo come oggi si impone il vino Antonori e il Sassicaia come unico gusto ammesso, massacrando i veri artisti biodinamici e non solo del settore (come negli anni sessanta si fece guerra bombardando i nostri artisti concettuali e imprigionandoli nelle nicchie: Pascali, Mazoni, Lo Savio, Lombardi, etc).


Mark Kostabi 2010
Tra gli amici che intervengono nel film il percussionista Tony Esposito, il produttore musicale e pittore Paul Kostabi, galleristi e critici d'arte (Crispolti: "è un intrattenitore fantasioso ma di lieve segno" o Bonito Oliva: "ha trasformato il marketing in poesia"), la performer e cantante Suzanee Vega e il cineasta Michel Gondry. L'interese del documentario, oltre alla partita di biliardo autentica tra Kostabi e Coleman, è nel tentativo di raccontare attraverso la produzione di questo artista "warholiano come programma minimo" il processo di vampirizzazione dell'arte, che Kostabi indica e sfrutta. Una frase di Kostabi colpisce più di altre. E potrebbe averla detta Coleman, il cui disco con il figlio di dieci anni Denardo venne accolto come uno scandalo dalla critica: "Credo che siamo tutti artisti, dai rivenditori di skateboard al pittore". Sabrina Digregorio cerca di spiegare che talento c'è oltre questa frase slogan (molto sessantottina, per altro).  
Sabrina Digregorio


I don't think there's any difference between an idea and an emotion. Music is language made up of notes and keys; written language is made up of letters which are the symbols of sounds, and they change between sounds the same way that the letters for notes can.

Non credo che ci sia alcuna differenza tra un'idea e un 'emozione. 
La musica è il linguaggio fatto di note e di tasti; la lingua scritta si compone di lettere che sono i simboli di suoni, e cambiano tra i suoni allo stesso modo delle lettere per le note.
(Ornette Coleman)