venerdì 25 gennaio 2019

Jonas Mekas e il cinema oltre la quarta Internazionale





A me interessa più il cinema che ancora non esiste che quello che passa sullo schermo. Parlo il più delle volte al nulla, al futuro che per me, sciocco che sono, è l'unica direzione interessante cui guardare. Strani sogni vi si possono vedere.  (Jonas Mekas) 



di Roberto Silvestri

Non lo ha mai chiamato to shoot, ma sempre e solo to film. Un poeta pacifista, prima di tutto. Disinteressato al consenso del pubblico. Ossessionato dal riprendere. Film-maker o come preferiva definirsi, filmer, e poi videomaker nichilista e anarchico, "perché l'intero panorama del pensiero umano deve essere completamente riplasmato".  Artista paradossale, sia espressionista che impressionista, della setta "action filming", nel senso dell'istantaneità delle riprese, sensate o sensuali.  Come un improvvisatore jazz. Profugo, teorico, archivista, critico, restauratore, distributore, disponibilità tendenzialmente assoluta verso tutti i colleghi e i non colleghi, mistico zen del dilettantismo e militante del "cinema altro". 


Jonas Mekas, il Patriarca, l'animatore e protettore gentile del movimento per un immaginario antagonista ("l'unico modo di salvare l'uomo è incoraggiare il suo senso di rivolta e di disobbedienza"), era un onorato capo tribù beat newyorkese (dal 1949) che veniva dalla Lituania, dove era nato nel 1922, ed era sfuggito al nazismo vagando per l'Europa nei campi profughi prima di venire smistato dalle Nazioni Unite a Chicago, ma quando vide lo skyline di Manhattan disse al fratello e amico Adolfas: "ma perché Chicago?"... Un po' come la collega e maestra Maya Deren, arrivata dall'Ucraina dopo aver divorziato dal comunismo Stalin-style, per fecondare, con un briciolo di Eisenstein e l'ultra vista, la sinistra antagonista americana, oltre la quarta internazionale.



Per non arrendersi al cinema industriale, alla professionalità, alla caccia alle streghe di Joseph McCarthy, alla narrativa codificata e all'Accademia, Mekas, oltre alla sua Bolex perennemente in mano, aveva usato il sistema dell'adorato Carl Theodor Dreyer (che sarà poi quello del senegalese Joseph Gay Ramaka o di Nanni Moretti, entrambi eredi di quel cinema raccontato "in prima persona maschile singolare"). Fondare o gestire un cinema alternativo e divertente. Il suo era di stile Malevic. Nero su nero. E ogni posto completamente isolato dai posti vicini, tramite separé. E' l'Anthology Film Archive del Lower East Side, Manhattan. L'unico schermo al mondo dove è soltanto il cinema delle avanguardie storiche europee, del pioniere statunitense Dwinell Grant, dei grandi narratori internazionali  (Bresson, Ozu, Hawks, Welles, Rossellini...), del cinema lirico o epico, che ha il potere di sedurre, ipnotizzare, rapire e perfino "molestare". Gli sopravviverà. 
In quegli anni cinquanta della "guerra fredda" e di Godard, quando tutto iniziò, New York stava separandosi bellicosamente da Hollywood, diventando la capitale del cinema del reale all'europea fatto strano, il punto di riferimento dei documentaristi o dei narratori free, produttori di suggestioni  e storie "indirettamente connesse", che volevano stabilire un rapporto con la realtà nelle sue quotidiane, invisibili o autentiche dimensioni: Sydney Meyers, Morris Engel, Lionel Rogosin, Robert Frank, Richard Leacock, Shirley Clarke e poi, con più impeto rivoluzionario, il torinese-americano Emile De Antonio, seppero utilizzare le nuove tecnologie di ripresa leggera e le cineprese dal suono sincronizzato per rivoluzionare i modi di produzione cinematografici e creare la figura del regista-produttore contemporaneamente operatore, montatore e fonico. Un total filmmaker, indifferente agli Studios. Lui stesso Studio. 
C'è il cinema prosa e c'è il cinema poesia, ci ricordava un altro celebre fuoriuscito, Roman Jakobson. L'Anthology Film Archives, fondato con P. Adam Sitney e Jerome Hill, cineteca e biblioteca annessi, è stato dal 1969, ed è, il tempio del "cinema metaforico", del cinema sineddochico, dell'home movies. Non solo del cinema. Cinema is a closed bookdisse a Jack Sargeant già nel 1997, the new book is all electronic media.
Anthology Film Archives
Mekas ha promosso quello che Maya Deren chiamava immagine verticalecontrapponendola allimmagine orizzontaledel cinema industriale e suscitando lilarità e la presa in giro di Dylan Thomas, Arthur Miller e Amos Vogel. Non capivano di cosa stesse parlando. Orizzontale è dove cè un futuro, un passato e un presente, più narrazione. E Godard  aggiungeva: non necessariamente nellordine. Si possono mischiare i tempi, dopo Joyce. Poi cè il piccolo poema, come quelli di Maria Menken, verticale come una canzone. Tu canti. Un altro dettaglio, un altro dettaglio e continui a salire. Un'altra nota, e poi raggiunge il punto in cui si esaurisce e basta. Filmare, filmare. Lasciare testimonianza che una volta quel fiore è esistitosintetizza con la solita arguzia Alessandro Cappabianca. Forse pensando a uno dei capolavori nascosti della storia del cinema, quel movimento danzante da sinistra a destra di Piero Heliczer in gloria di un roseto che si innalza alla fine, verticalmente aderendo sessualmente a una song di Ella Fitzgerlad.  



Mekas combatte per questo cinema verticalefin da quando nel 1953 si trasferì a Manhattan, in Orchard Street, proiettando  film d'avanguardia dapprima alla East Gallery di Avenue A, nel Lower e poi al The Bleeker Street Cinema fondato da Lionel Rogosin (per far vedere i suoi film, se no niente) e al Gramercy Arts Theatre. E, come critico, ne ha appoggiato ogni manifestazione vitale compilando e distribuendo in 130 programmi sperimentali e internazionali le opere dell' "Essential Cinema" in America e nel mondo, e sul Village Voice, attraverso la sua lettissima rubrica "Movie Journal", dagli inizi degli anni 60. Senza il suo prestigioso stimolo il Museum of Moderrn Art non avrebbe mai aperto settimanalmente le sue sale agli artisti underground e non sarebbe mai nato il Millennium Workshop che porta nelle Università non solo opere ma anche corsi di tecnica e di anti-tecnica. Non si può vedere oltretutto Lynch e i lynchiani senza notare l'ombra di Mekas alle loro spalle.
Ha inoltre insegnato alla nostra generazione due o tre cose sullo stile. Per esempio quando si dimise dalla giuria del festival super indie di Knokke-Le-Zoute, in Belgio, che aveva respinto dal concorso, per codardia istituzionale, Flaming Creatures il capolavoro troppo censurato di Jack Smith, proiettandone una copia nella sua stanza d'albergo. O quando venne arrestato per averlo mostrato allAnthology assieme a Chant d'amour di Jean Genet.   
E oggi, siccome il cinema che va per la maggiore anche nei multiplex  è quello nel quale il regista "guarda guardarsi", pensiamo a Roma di Cuaron o a Guardians of the Galaxy,  e che permette allo spettatore di osservare bene se chi racconta cose o mostra storie possiede "apertura, genuino interesse, disarmo, amore, senso dell'attesa, umiltà", Mekas ci lascia felice perché, seguace di Rossellini in questo, maestro di Alberto Grifi, sa di averci regalato preziosi strumenti per decodificare non tanto le virtù delle immagini quanto l'anima di chi le produce. O meglio i "mille pezzi dolenti che riescono a tenersi insieme, ad unirsi in una nota melodiosa, perché l'artista oggi non è più un pezzo solo". Missione (impossibile) compiuta.   
La morte l'ha colto in pieno movimento. Era una 'leggenda vivente' e viaggiante quasi centenaria del cinema d'avanguardia e a costo zero. Fino all'ultimo respiro e in tutto il mondo Mekas (con il fido fratello Adolfas fino al 31 maggio 2011) ha organizzato, complottato, amato, girato diari intimi e perenni, scritto, criticato, proiettato, aiutato con generosità cosmica, comunicato e scomunicato.
Ruppe ogni rapporto con John Cassavetes, per esempio, a proposito del rimontaggio impostogli dai produttori di Ombre: "l'artista ha responsabilità radicali, se cede a qualunque compromesso, non esiste più". Ricordate la faccia straziata di Arthur Penn quando, intervistato da un collega, a fine carriera, ripensava ai troppo compromessi cui era stato costretto dal Moloch Hollywood? 
Mekas è stato insomma per il cinema quel che Julian Beck è stato per il teatro o Ornette Coleman per il jazz. Something else. Non a caso uno dei suoi capolavori resta The Brig, lo spettacolodel Living Theatre o meglio unarma pacifista di distruzione, capace di annientare il Pentagono utilizzando, come nello judo, le sue stesse aberranti (perverse e perdenti in Vietnam) logiche e regole militariste.
Pochi anni fa, Jonas (un nome che piaceva molto a John Berger, che sicuramente lo ha omaggiato nel celebre film di Tanner) era raggiante al festival di Rotterdam (presentava film e un volumone di suoi scritti) che lo adorava davvero come onorava Brakhage, Markopoulos, Jacobs, Menken, Bruce Ballie, Jack Smith, Breer, Heliczer, De Bernardi, Warhol  e tutti gli altri. Si era reso conto di aver scritto manifesti e di aver provocato polemiche non sterili, che l'underground era diventato un pezzo sostanziale di mondo emerso e vitale, dotato di cuore pulsante e radiante. Dopo Kerouac tutti scrivevano. Dopo Mekas, tutti filmammo. 
Già. I Beat. Quelli che sono incapaci di distinguere tra arte e vita, e che si sono battuti subito e in gruppo contro razzismo, sessismo, sciovinismo, violenze poliziesche, ingiustizie, depressione, bomba atomica, sfruttamento dentro e fuori la fabbrica e il set, le guerre e i consumi non futili. Con la penna, la macchina da scrivere, la cinepresa-camera-stylò, con ogni strumento necessario per alzare la voce, ma con la saggezza dei nativi indocili. La tribù, la sacra famiglia Nac (New American Cinema) e i "free jazz gigs" hanno urlato soprattutto dagli anni 50 agli anni 70, la loro rabbia e alterità con opere assolutamente personali e soggettive, liriche dunque politiche. Finché Fashistland, dal maccartismo a Trump,  ha levato la maschera e in America è apparsa perfino l'antitesi (che Italo Calvino non riusciva a cogliere). Femministe, gay, lesbiche, ex wobblies, trans, organizzazioni ispaniche, ecologisti drastici, animalisti non fanatici, studenti di cinema, clandestini, asiatici... il fronte reticolare a sviluppo orizzontale e transculturale di Barnie Sanders (erede del mitico "Fug" Ed Sanders?)...  
Resta in vita tra i beatnicks ormai solo Lawrence Ferlinghetti, e pochi altri colleghi del comparto "Naked Lens". Poi i vecchi numeri ingialliti di Film Culture, tesoro di ogni cantina, la rivista teorica che Mekas ha fondato nel 1955 e sulla quale hanno scritto tutti i cineasti indie e sono comparsi i documenti politici che hanno creato il New American Cinema Group e poi la Filmmaker's Cooperative, arma distributiva autogestita di immagini antagoniste. E poi i suoi film, di non facile reperibilità, a parte quel che troviamo su UBU WEB e in costosi cofanetti. Dai primi, girati con la comunità di emigranti lituani di Williamsburg, dopo un apprendistato da Hans Richter, ai suoi capolavori: Guns of the trees (1961), l'unico semi narrativo, in bianco e nero, colonna sonora impura (folk song, telegiornali, jazz radicale e Allen Ginsberg), due coppie di amici, una bianca e l'altra african-american, si confrontano sui temi del vivere quotidiano, depressione, parto, spesa, manifestazioni pro-Fidel Castro, mentre pende sulla loro testa la minaccia della fine atomica. Il film fu premiato a Spoleto nel 1962 e a Porretta Terme da Zavattini, nello stesso anno. Allora l'Italia - tutto Mekas arrivò presto al Filmstudio 70 - possedeva l'occhio del falco, non era preda del malocchio. E poi:  Film Magazine of the Arts (1963); Award Presentation to Andy Warhol (1964) sei minuti, muti, con Warhol che riceve l'Indipendente Spirit Award, ovvero una cesta di frutta e verdura (nel 1990 girare anche Scenes from the Life od Andy Warhol); The Circus Notebook (1966), Hare Krishna (1966), Walden (1969), ritratti e impressioni di Dreyer, Sanders, Warhol, Velvet Underground, Richter e altre personalità della controcultura;  Lost Lost Lost (1976) con Le Roi Jones e Robert Frank, ma anche con le sue prime riprese tedesche; He Stands in a Desert Counting The Seconds of His Life (1985) ovvero 150 reazioni, senza montaggio, a una data situazione, come fossero 150 canzoni;  Report from Millbrook (1966), poi confluiti negli infiniti New York Diaries iniziati nel 1949 un vero esempio di cinema libero e puro senza alfabeto che dimostra come il cinema commerciale non sia necessariamente più libero ma solo infinitamente limitato. Del 1983 è Street songs con il Living Theatre. Sulla new dance sono Cup/Saucer/Two Dancers/Radio e Erik Hawkins: Excerpts from Here and Now with Watchers/Lucia Diugoszweski Performs.  Infine i suoi diari lituani tra i quali Scene dalla vita di George Maciunas (1991). Un poderoso corpus di opere che è diventato patrimonio dell'umanità.  Grazie anche ai dipartimenti cinema delle Università nordamericane che le hanno fatte circolare e studiare (erano soltanto 12 nel 1960, divennero 1200 nel 1970.,..). Forse per questo gli Stati Uniti, a differenza dei regimi che reprimono il fuori norma, tutela e protegge la trinità spettacolare: Hollywood, Sundance, Underground. 








autografo di Jonas Mekas

lunedì 7 gennaio 2019

Golden Globes 2019. Tutti i vincitori e i candidati

da Fox-Time

MIGLIOR FILM DRAMMATICO
  • Bohemian Rhapsody
  • Black Panther
  • Se la strada potesse parlare
  • BlacKkKlansman
  • A Star Is Born
MIGLIORE ATTRICE DRAMMATICA
  • Glenn Close, The Wife


Glenn Close ai Golden GlobeHDGetty Images
Glenn Close ha battuto Lady Gaga

  • Melissa McCarthy, Can You Ever Forgive Me? - Copia originale
  • Nicole Kidman, Destroyer
  • Rosamund Pike, A Private War
  • Lady Gaga, A Star Is Born
MIGLIOR ATTORE DRAMMATICO
  • Rami Malek, Bohemian Rhapsody


Rami MalekHDGetty Images
Rami Malek ha trionfato ai Golden Globe 2019

  • Bradley Cooper, A Star Is Born
  • Willem Dafoe, At Eternity’s Gate
  • Lucas Hedges, Boy Erased
  • John David Washington, BlackKklansman
MIGLIOR FILM COMMEDIA O MUSICAL
  • Green Book
  • La favorita
  • Il ritorno di Mary Poppins
  • Crazy Rich Asians
  • Vice
MIGLIORE ATTRICE IN UNA COMMEDIA O MUSICAL
  • Olivia Colman, La favorita


Olivia ColmanHDGetty Images
Olivia Colman con il suo globo d'oro

  • Emily Blunt, Il ritorno di Mary Poppins
  • Elsie Fisher, Eighth Grade
  • Constance Wu, Crazy Rich Asians
  • Charlize Theron, Tully
MIGLIOR ATTORE IN UNA COMMEDIA O MUSICAL
  • Christian Bale, Vice – L’uomo nell’ombra


Christian BaleHDGetty Images
Christian Bale ha vinto per Vice

  • Lin-Manuel Miranda, Il ritorno di Mary Poppins
  • Viggo Mortensen, Green Book
  • Robert Redford, Old Man & the Gun
  • John C Reilly, Stan & Ollie
MIGLIOR FILM D’ANIMAZIONE
  • Spider-Man – Un nuovo universo
  • L'isola dei cani
  • Mirai
  • Ralph spacca Internet
MIGLIOR FILM STRANIERO
  • Roma (Messico)
  • Cafarnao (Libano)
  • Girl (Belgio)
  • Never Look Away - Opera senza autore (Germania)
  • Un affare di famiglia (Giappone)
MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA
  • Regina King, Se la strada potesse parlare


Regina KingHDGetty Images
Regina King ai Golden Globe 2019

  • Emma Stone, La favorita
  • Rachel Weisz, La favorita
  • Claire Foy, First Man - Il primo uomo
  • Amy Adams, Vice
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
  • Mahershala Ali, Green Book


Mahershala AliHDGetty Images
Mahershala Ali ai Golden Globe

  • Sam Rockwell, Vice
  • Richard E. Grant, Can You Ever Forgive Me? - Copia originale
  • Timothée Chalamet, Beautiful Boy
  • Adam Driver, BlacKkKlansman
MIGLIOR REGISTA
  • Alfonso Cuarón, Roma


Alfonso CuarónHDGetty Images
Alfonso Cuarón ai Golden Globe

  • Bradley Cooper, A Star Is Born
  • Spike Lee, BlacKkKlansman
  • Adam McKay, Vice
MIGLIORE SCENEGGIATURA
  • Green Book 
  • Roma
  • La favorita
  • Se la strada potesse parlare
  • Vice
MIGLIORE COLONNA SONORA
  • First Man – Il primo uomo – Justin Hurwitz
  • A Quiet Place - Un posto tranquillo
  • L'isola dei cani
  • Black Panther
  • Il ritorno di Mary Poppins
MIGLIORE CANZONE ORIGINALE
  • Shallow, A Star Is Born


Lady Gaga ai Golden Globe 2019HDGetty Images
Lady Gaga ha vinto con la canzone Shallow presente in A Star Is Born

  • All the Stars, Black Panther
  • Requiem for a Private War, A Private War
  • Revelation, Boy Erased
  • Girl in the Movies, Dumplin’
MIGLIORE SERIE TV DRAMMATICA
  • The Americans
  • Bodyguard
  • Homecoming
  • Killing Eve
  • Pose
MIGLIORE ATTRICE SERIE TV DRAMMATICA
  • Sandra Oh, Killing Eve


Sandra Oh con il suo Golden GlobeHDGetty Images
Sandra Oh è stata la regina dei Golden Globe 2019

  • Caitriona Balfe, Outlander
  • Elisabeth Moss, The Handmaid’s Tale
  • Julia Roberts, Homecoming
  • Keri Russell, The Americans
MIGLIOR ATTORE IN UNA SERIE DRAMMATICA
  • Richard Madden, Bodyguard


Richard MaddenHDGetty Images
Richard Madden ha vinto con Bodyguard

  • Jason Bateman, Ozark
  • Stephan James, Homecoming
  • Billy Porter, Pose
  • Matthew Rhys, The Americans
MIGLIORE SERIE TV COMMEDIA O MUSICAL
  • The Kominsky Method
  • Barry
  • The Good Place
  • Kidding
  • The Marvelous Mrs. Maisel
MIGLIORE ATTRICE IN UNA SERIE TV COMMEDIA O MUSICALE
  • Rachel Brosnahan, The Marvelous Mrs. Maisel


Rachel Brosnahan ai Golden Globe 2019HDGetty Images
Rachel Brosnahan con il suo Golden Globe

  • Kirsten Bell, The Good Place
  • Candice Bergen, Murphy Brown
  • Alison Brie, GLOW
  • Debra Messing, Will & Grace
MIGLIOR ATTORE IN UNA SERIE TV COMMEDIA O MUSICALE
  • Michael Douglas, The Kominsky Method


Michael DouglasHDGetty Images
Michael Douglas con il suo globo d'oro

  • Sacha Baron Cohen, Who Is America?
  • Jim Carrey, Kidding
  • Donald Glover, Atlanta
  • Bill Hader, Barry
MIGLIOR MINISERIE TV O FILM PER LA TELEVISIONE
  • American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace
  • The Alienist
  • Escape to Dannemora
  • Sharp Objects
  • A Very English Scandal
MIGLIORE ATTRICE IN UNA MINISERIE TV O FILM PER LA TELEVISIONE
  • Patricia Arquette, Escape at Dannemora


Patricia Arquette HDGetty Images
La vittoria di Patricia Arquette

  • Amy Adams, Sharp Objects
  • Connie Britton, Dirty John
  • Laura Dern, The Tale
  • Regina King, Seven Seconds
MIGLIOR ATTORE IN UNA MINISERIE TV O FILM PER LA TELEVISIONE
  • Darren Criss, American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace


Darren Criss ai Golden GlobeHDGetty Images
Darren Criss ha trionfato ai Golden Globe 2019

  • Antonio Banderas, Genius: Picasso
  • Daniel Brühl, The Alienist
  • Benedict Cumberbatch, Patrick Melrose
  • Hugh Grant, A Very English Scandal
MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA IN UNA SERIE TV O FILM PER LA TELEVISIONE
  • Patricia Clarkson, Sharp Objects


Patricia ClarksonHDGetty Images
Patricia Clarkson con il suo globo d'oro

  • Alex Bornstein, The Marvelous Mrs. Maisel
  • Penélope Cruz, American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace
  • Thandie Newton, Westworld
  • Yvonne Strahovski, The Handmaid’s Tale
MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA IN UNA SERIE TV O FILM PER LA TELEVISIONE
  • Ben Whishaw, A Very English Scandal


Ben WhishawHDGetty Images
Ben Whishaw è stato premiato per A Very English Scandal

  • Alan Arkin, The Kominsky Method
  • Kieran Culkin, Succession
  • Edgar Ramírez, American Crime Story: L'assassinio di Gianni Versace
  • Henry Winkler, Barry
L'appuntamento è con gli Oscar, in programma al Dolby Theater per il prossimo 25 febbraio

venerdì 4 gennaio 2019

Roma, Messico e nuvole



Il testo è una rielaborazione di quello pubblicato da Alfabeta2  

Mariuccia Ciotta

Roma, nome di un quartiere della media borghesia di Città del Messico dove si svolge l'azione, nella casa del regista, mobili, librerie, soprammobili autentici e anche, meticolosamente viscontiano, il contenuto dei cassetti. Alla ricerca del tempo perduto che torna in un folgorante presente. Il filo narrativo lo tiene in mano Cleo (Yalitza Aparicio) la domestica della “famiglia felice” con quattro ragazzini e un cane. Sguardo sbilenco e anti-celebrativo, prospettive dalla cucina, ai margini della storia, così inanellata emozionalmente da inventare una realtà già passata.
Cleo e la signora Sofia (Marina de Tavira) vedranno i loro uomini dissolversi nella polvere messicana. Uno con la sua macchina over size, che entra a malapena nel cancello di casa, se ne andrà con l'amante ad Acapulco, la città perversa di La signora di Shangai, l'altro abbandonerà Cleo incinta. Due facce nere del Messico di Echeverria, da un lato il “padrone” e dall'altro la manovalanza a servizio della borghesia, il “fidanzato” di Cleo, Fermin (Jorge A. Guerrero), cultore delle arti marziali, arruolato nelle fila dei Los Halcones, i Falchi, gruppo paramilitare di estrema destra, sostenuta dalla Cia, che il 10 giugno 1971 replicherà il massacro degli studenti avvenuto nel '68. La polizia non intervenne, più di 100 studenti uccisi. Il giorno di El Halconaro è ricordato dal bambino Alfonso, dieci anni, in un negozio di arredamento, quando Fermin e i suoi camerati inseguirono uno studente e gli spararono in testa. Cleo lo guarda uccidere, Cleo partorisce una bambina morta, Cleo salva dall'annegamento i bambini. E tutto passa nei suoi occhi, presenza oscurata dalla vita degli altri e che Cuaron restituisce alla centralità del racconto, unica verità nella penombra. Lei, la “sguattera” india, come la ricorda il bambino che sarà il visionario regista di Gravity, ispirato da Abbandonati nello spazio di John Sturges, visto allora in un cinema di Mexico City. Da astronauti si vestirono tutti i bambini, quel carnevale, i poveri se la cavavano con uno scatolone in testa.
Roma (Leone d'oro 2018) ricorda Y Tu Mama Tambien, quel vagabondare tra le cose ai margini, insignificanti dettagli di un'esistenza senza carta di identità. Sono le cosiddette “code” o “stasi”, si inquadrano soli oggetti, senza umani, ed è ciò che caratterizza tra l'altro - ci spiega Paul Schrader - lo stile trascendentale. E anche il lavoro da cameriera. Quando Cleo è ricoverata in ospedale per il parto nessuno conosce i suoi dati anagrafici, nemmeno il suo vero nome, che la figlia non avrà mai, cadaverino immobile in secondo piano, sullo sfondo della camera operatoria. Yalitza Aparicio non sa che il copione le ha tenuto nascosto la morte del neonato, e che il livido corpo sfocato è stato cancellato dalla storia. L'emozione passa così nel riflesso dello sguardo annichilito di Cleo. Lo stesso accade nella corsa sospesa tra sabbia e cielo verso le onde che hanno travolto i bambini della signora Sofia. Cuaron la riprende mentre corre con l'espressione mutevole in un progressivo orrore senza mai inquadrare il mare e spinge l'occhio nella frenesia della possibile scoperta, i cadaveri galleggianti, fino alla messa a fuoco quando Cleo come un'apparizione fatta di nuvole, presenza divina, circonda i naufraghi e li salva. Tra quei bambini ce n'è uno che si chiama Alfonso e che ha visto quella corsa dal mare verso la terra, l'orizzonte capovolto come lo è l'omaggio di Cuaron non alla “buona serva” ma a quella parte del Messico che è la sua.

mercoledì 2 gennaio 2019

Suspiria di Luca Guadagnino, la crudele storia d'amore tra Fassbinder e Dario Argento


Roberto Silvestri


Aumentare il tasso di crudeltà e diminuire quello di horror, rispetto al Suspiria originale. Crudeltà vuol dire non sfornare mai allo spettatore immagini precotte. Ricondurlo a uno stato percettivo e ricettivo estremamente pericoloso. E poi. Aumentare il peso della storia dell'arte, della politica e del sesso. Rendere omaggio all'immaginario femminista anche iconografico, Gina Pane, Francesca Woodman, Judy Chicago e Ana Mendieta... Questo il progetto provocatorio, e anticonformista come Black Panther, di un film-remake di un remake (il primo progetto naufragato era stato scritto da Luca Guadagnino con David Gordon Green) sul Potere che trasforma le tre Madri, le streghe danzanti, in supereroine (capaci di scovare, affrontare e abbattere la psicoanalisi lacaniana del dottor Jozef Klemerer), e questo già irrita, e poi metterle pure in conflitto tra loro.  E il conflitto, come si sa, non è più di moda. La strega della continuità e della tradizione, Helena Markos. La strega del rinnovamento, Madame Blanc. La strega della discontinuità sovversiva... Le tre madri si azzuffano. E vince la 'rivoluzione di velluto' di Dakota Johnson-Susie Benner.
Figuriamoci. Il tutto lavorando su due testi, e non solo su quello di Argento. Anche su Germania in autunno. Perché Fassbinder, più ancora di Visconti, la sua crudeltà più del gusto macabro per la fiaba nera di Argento, è il punto di riferimento formale di questa nuova avventura visiva e musicale di Guadagnino (più Tom Yorke), come lo era di Io sono l'amore. E che dire del contributo cromatico del direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom?  Dove abbiamo visto quei grigi impuri, quelle ombre verdastre, quelle sfumature di marrone Fendi e di sangue non di routine, insomma tutto ciò che non è bianco né nero, perché i cattivi e i buoni amano travestirsi sempre da loro contrario? Ma in Balthus! Le adolescenti nude. Dunque un critofilm pienamente perverso, dalla parte di Woody Allen e non di Timothée Chalamet. Speriamo che turbi molto questo film. Non succedeva più neppure che Fofi o il New Yorker o il NYTimes s'incazzassero...


Cos'è un critofilm? Un film che critica un oggetto o un soggetto dell'arte letteraria, pittorica, scultorea, musicale o architettonica, ci aveva insegnato Carlo Ludovico Ragghianti. Ma, nella primavera del 1967, il futuro regista Luigi Faccini, in un intervento sul n.1 di Cinema&Film, ne amplia il significato.  Si può pensare e scrivere per immagini: "Il pensiero visuale è diverso da quello verbale, forse più ampio e significativo, più moderno, più sintetico, più espressivo e comunicativo, anche sul piano filosofico e saggistico". Inoltre il "fatto critico" può essere trasferito finalmente nella sede linguistica adeguata all'oggetto preso in esame, si può fare critica di un film girando un film (il critico e futuro regista Maurizio Ponzi aveva appena girato il critofilm Il cinema di Pasolini). 
Come la critica letteraria anche la perifrasi del critico cinematografico diventa così linguisticamente identica all'opera e analoga al senso, alla struttura e al ritmo dell'opera filmica.  Erede e sintetizzatore di Joe Dante e Jean-Luc Godard allo stesso tempo, Luca Guadagnino viene dalla critica scritta e ogni suo lavoro, perfino Chiamami col tuo nome (che si confrontava con il sistema James Ivory) è un crito-film, cioè un esplicito lavoro di tatuaggio che lui e il suo montatore d'affezione, Walter Fasano, compiono su testi prediletti o di ossessiva o demoniaca “forza” per abbellirli, adornarli, chiosarli, parafrasarli, cancellarne parti, rinnegarli, riaggregarli e criticarli, “costruttivamente” o “distruttivamente”. Non si lavora solo Suspiria di Argento, ma anche in sovrimpressione su Germania in autunno, il film collettivo che proprio sulla contrapposizione tra vecchia Germania-nuova Germania, tra il 1977 e il 1980 si esprime, senza compromessi di alcun tipo. Il rapporto tra Madam Blanc, la maestra di danza (una delle parti di Tilda Swinton), e Suzie Bannon, l'allieva che è una sorta di Biancaneve, non possiede la stessa violenza, lo stesso  seduttivo conflitto artistico e intellettuale di quello tra madre-figlio e tra regista e amante dell'episodio di Fassbinder in quel capolavoro sul riflusso del movimento rivoluzionario mondiale? 
   

Questa anomala mancanza di spontaneità narrativa, il meditare, anzi concettualizzare sulle immagini-suono, sulle immagini-spazio e sulle immagini-sguardo hanno reso problematico il rapporto con una parte di pubblico, soprattutto italiano, quella più rigida e meno ludica, che considera questo procedimento di arrangiamento da “cover” una “frivolezza floreale” (e Io sono l'amore un sotto Visconti, o “Melissa P” un sotto Jarman). 
Siamo abituati, se pigri o analfabeti schermici, più ancora degli spettatori americani, a non giocare con le immagini potenti, a non contribuire al finish artistico libertario di un film, ad affidarci invece completamente alla potenza delle immagini (come alla prepotenza dei politici "muscolari"), che siano forti e autoritarie, che non ammettono ulteriori “decostruzioni”. 



Invece il lavoro “futile” di Guadagnino sui testi è la novità estetica più interessante e feconda degli ultimi anni. Uso il temine futile nell'accezione etimologica latina. La crepa, la rottura del vaso che fa fuoriuscire il liquido dando altra forma al "contenuto". Fertilizzandoci il cervello. Che dal soggetto di Argento e Nicolodi, ispirato a sua volta a Wedekind di Mine-haha, la scuola di danza per adolescenti che nasconde segreti insostenibili, si possa rifondare, tramite incrinatura del vaso, il nostro rapporto con la gerarchia simbolico uomo-donna e con la memoria meno antica (l'antisemitismo, la shoa; il musical d'arte da Busby Berkeley a Powell-Pressburger, da 42th street a Scarpette rosse e quanta sofferenza e violenza sia nascosta nell'arte, perché anche l'arte ha una storia) e più recente (la nascita della Ddr, la guerra civile e anti imperialista in Germania degli anni ’70), conferma la unicità di questo film anche per Guadagnino (una sorta di rinascita e di esperimento è questo suo primo horror movie) e anche la grandezza culturale di quel movimento artistico degli anni ‘60 e ’70 troppo dimenticato e che non casualmente interessò Austria, Germania e Italia contemporaneamente. L'arte concettuale appunto, antisessista, antirazzista e antiautoritaria, alla quale Guadagnino questa volta esplicitamente si rivolge. Per mostrare e non per dimostrare. Il corpo forsennatamente dilaniato di Stelarc, le “tette a portata di mano” di Valie Export, l'eco-arte di Beuys, i giochi attici di Pino Pascali, le sfere anti-securitarie di Sergio Lombardo, gli akzionisti e le akzioniste austriache (non quelli della finanza), le orge di sangue di Otto Muhl, la mummificazione suicida di Rudolf Schwarzkogler, le schizo-passeggiate di Gunter Brus con l'anima divisa in tre, per dire un grande sì alla vita nonostante possenti e subdole aggressioni arrivassero da ovunque, neo-fascismi, caccia bombardieri in Vietnam, carri armati in Israele, eroina nelle metropoli, molestie e oltre alle donne... ecco tutto quel che ritroviamo - scandalizzando a morte i puristi puritani dell'horror perché in questo modo l'horror è costretto a far strip-tease -  in questo grandioso e inquietante film “triadico”, e non solo per la triplice performance di Tilda Swinton, ma per il gioco di scrittura contemporaneamente umano, sovrumano e subumano. 



E anche nel senso che lavora, secondo le istruzioni di Eisenstein, sul corpo terragno, sul corpo roteante e sul corpo librante. Mano. Piede. Spirito? Lavoro. Fuga. Ascesi. Se si è terrorizzati come si fa a non essere terroristi? Ritrovando, nell'era digitale, il contatto. Il tatto. Il senso “comune”. E "il tatto ha memoria", come ricordava il poeta John Keats. David Kajganich, il cosceneggiatore di Suspiria-Guadagnino, fa benissimo a ricordare lo sguardo tattile sulla Germania occidentale di Thomas Harlan, il primo a ribellarsi alla continuità tra nazismo e repubblica federale di Adenauer che aveva infarcito i posti di comando politico-finanziario di ex gerarchi del III Reich. Fassbinder proseguì nell'opera di ribellione e smascheramento di quella rimozione storica con il suo anti-teatro e anti-cinema (e la sua ex moglie  Ingrid Caven è qui a ricordarcelo). Molti registi del nuovo cinema tedesco, come Margaret von Trotta si sono confrontati con il terrorismo Baader-Meinhof e con la tolleranza repressiva di Bonn (a Angela Winkler è qui a ricordacelo). Al critofilm adulto che imprigiona il "pensiero sensibile" dentro gelide atmosfere strutturaliste Guadagnino contrappone però, da neo-beatnik, da femminista convinto,  da seguace di Dante e di Godard e di Bertolucci, il calore vitale dell'home movie, del film privato che ha un movente antico (a 10 anni, quel poster pauroso del film di Argento sbirciato, adorato e mal metabolizzato a Cesenatico, quando era in vacanza solo e in asilo), un senso autobiografico forte, una cinematica ossessione adolescenziale, che costringe al remake inaspettato, al film che, come ha scritto Larry Gross sulla rivista americana Filmmaker "al posto dei colori brucianti, di una colonna sonora minacciosa e della fiaba nera, sceglie la strada profondamente fastidiosa della riflessione semifilosofica sull'arte, la performance e le radici storiche del male". Senza sacrificare i viscerali piaceri di un film di genere, continua Gross (che è anche un collega sceneggiatore), Guadagnino sa espandere il suo raggio d'azione a temi sociali e politici, come sanno fare pochi altri cineasti. E tra questi Francis Ford Coppola nella saga politica-gangsteristica Il Padrino. Come Dreyer e Bunuel, Cronenberg e Bergman, Resnais e Kubrick, Aldrich e Carpenter, anche Guadagnino tende più a storicizzare il male e i cattivi che a moralisticheggiare sul peccato, dovere di ogni buon film horror, come ci ricordava Stephen King. 



Non poteva mancare dunque nel film la foto di un cineasta che quei tempi ha scolpito, il militante comunista rivoluzionario nonché grande cineasta Holger Meins, che fu l'unico che davvero si suicidò fino alla disincarnazione totale, della Baader-Meinhoff, offrendo il proprio corpo come Pasolini, in pasto al Moloch, per evitare ulteriori catastrofi. Le “tre madri”, appunto, che si contendono non senza spargimento di sangue il controllo del simbolico, strappandolo al fallocentrismo che “ha tante colpe e tante vergogne” da scontare (non dimentichiamo mai che a Guadagnino si deve l'unica riflessione cinematografica del nostro razzismo criminale all'opera in Etiopia, in un paese che lo ha rimosso completamente, perfino dalla parte progressista, Inconscio italiano, 2011). L' immersione dentro il testo cult come la cattedrale horror di Dario Argento dunque è riuscita. Grazie a un cast impeccabile e a danze e musiche che più che a Bausch rimandano a gesti, movenze, e rigidità da karate. Più a Chuck Norris che a Bruce Lee. Tranne, nel finale, addolcirsi. Flashdance. Spielberg. E' stato chiesto a Guadagnino perché dopo il calore sottile e l'umanità densa di un amore totale catturati in Chiamami col tuo nome avesse sterzato verso la rabbia di un horror. "Entrambi i film parlano di esseri umani e delle loro emozioni. A volte prevale la malinconica fusione d'amore, altre volte il devastante insorgere della violenza".