domenica 23 febbraio 2014

The Square. Il libro Cuore contro tutti i despoti d'Egitto. Il primo film egiziano che potrebbe vincere l'Oscar

Ahmed Assam, l'avanguardia di massa di piazza Tahrir
Roberto Silvestri

E' incredibile quest'anno avere ben due documentari su 5 candidati al premio Oscar già nelle sale italiane. Il primo è ambientato in Indonesia e il secondo in Egitto. Sta cambiando qualcosa nella distribuzione, finalmente. E anche nel pubblico, più vispo, esigente e consapevole. The square, il film egiziano, in realtà sta girando in tutto il mondo in fermento, da Kiev ad Atene, da Tunisi a Damasco. Si vede in rete. In dvd. In Italia Feltrinelli lo dostribuirà così presto. Certo in Egitto non esce nelle sale, ma nessun documentario esce nelle sale. Non è che in questi anni abbiano fatto scorpacciate di Michael Moore o dei film di Abnoudi El Attiat...La censura di Mubarak non c'è più. Ci sono giornalisti in carcere. Al Jazeera, certo. Ma questo ha a che fare con il complotto di cui è accusato Morsi. Un colpo di stato organizzato a Doha dal Qatar.... 
Ahmed Assan, il protagonista di The Square


Act of Killing di Joshua Oppenheimer resta il grande favorito per la statuetta, perché porta la narrazione a soggetto storico a un livello tragicamente surreale, coniugando Joris Ivens con Franco Maresco, il rigore e la provocazione, l'esattezza storica e la deformazione grottesca, i fatti con gli strafatti, nella messa in scena di uno dei crimini contro l'umanità meno pubblicizzato dai media: il massacro di più di mezzo milione di comunisti e democratici liberali in Indonesia nel 1965. 

Khalid Abdalla e Aida el Kashef
Il New York Times, quando è morto Suharto, che a quel massacro dette il via, nelle due pagine dedicategli, non se ne fa cenno. Era un grande amico dell'America, no? Infatti a Giakarta i cattivi sono ancora oggi coccolati eroi nazionali. E si vantano pubblicamente delle loro gesta. E' come se in Italia gli autori della strage di Piazza Fontana e di piazza della Loggia e dell'Italicus, considerati salvatori della patria, venissero esibiti come super star a Sanremo. Oppenheimer, americano, vive a Amsterdam, infatti.

Piazza Tahrir, sempre pronta a riempirsi....
Quegli assassini non solo non sono infatti mai stati processati, ma si vantano anche in prime time di aver ripulito il paese dai rossi, per lo più cinesi di Sumatra (e sempre pronti a rifarlo in caso di necessità: sono tre milioni i paramilitari fascisti ben armati e addestrati) e si divertono nel film di Oppenheimer (che li stuzzica come da noi La Zanzara di Radio 24) a rievocare le loro gesta ricostruendo torture e sventramenti come se fossero grintosi come John Wayne in Berretti Verdi o blasé come Bogart in Il grande sonno. Davvero scioccante.

il manifesto del film di Jehane Noujaim
The Square (La piazza) di Jehane Noujaim è invece un reportage molto più tradizionale, nel soggetto e nel format (si rispettano le leggi dello standard da mercato internazionale, sviluppo cronologico, utilizzo di materiali da repertorio, interviste, etc...) che sceglie però il punto di vista della strada insorgente per raccontarci cosa sta accadendo in Egitto attraverso la radiografia dell'anima dei ribelli. Bellissimi murales, affidati 'live' al graffitista  Ammar Abo Bakr, illustrano via via gli avvenimenti  in corso e indicano chiaramente chi sono stati i mandanti della rivoluzione. Artisti. Giovani rapper. Musicisti heavy metal. Ragazze oppresse dalla morale corrente, integralista o meno. La parte di popolo vitale e attiva che ha trascinato dietro di sé tutto il paese. E che gli ha restituito una sua caratteristica dimenticata: la cultura della protesta.

Ahmed Assam in un momento di sconforto
Il film non ha bisogno così di inquadrare i fatti all'interno dello scenario politico tradizionale o internazionale, e si rifiuta di spiegare meglio e di mettere in prospettiva gli avvenimenti (il ruolo del Qatar, che finanzia i Fratelli musulmani; dell'Arabia Saudita, che appoggia salafiti e al Sisi; degli Usa, che tardano a comprendere le ragioni del movimento, anche Hillary inizialmente appoggia Mubarak...). E non menziona volutamente  neppure il ruolo di alcuni leader politici della rivolta, come El Baradei, considerandoli evidentemente marginali. Anche se - siamo in epoca skype - i protagonisti del film, gli eroi 'dal basso' della rivolta, ci parlano direttamente e costantemente negli occhi. 

Ahmed Assam prima di uno scontro nel quale resterà ferito
Ci sono i buoni, idealisti e disarmati, che sono il fiore di quella moltitudine invincibile: "una tenda e una coperta possono risolvere tutti i problemi", rappresentati da alcuni giovani rivoluzionari della piazza: Ahmed Assam, il più lucido e consapevole ("i ricchi non vogliono la libertà, perché ce l'hanno già"), ha un futuro politico assicurato; il 'fratello musulmano' e barbuto Magdy Ashour, sulle barricate fin dal primo minuto, anche disobbedendo agli ordini dei suoi superiori, pii ma opportunisti; l'attore Khalid Abdalla che è arrivato da Londra e si occuperà di intervenire su Cnn e coordinare l'ufficio propaganda e informazione per controbattere in rete, e con abilità, le bugie mediatiche del potere; Rami Essam, il musicista e cantante; Aida El Khasef, una ragazza molto combattiva e indomita; l'avvocatessa Ragia Omran, che cura gli interessi delle famiglie delle vittime...

L'attore Khaled Abdalla
La forza per resistere e crescere, nonostante un nemico pesantemente armato, spalleggiato da spie e teppisti, nasce dalla lotta stessa e dal fatto di non avere nulla da perdere: "Per la prima volta in vita nostra non siamo stati messi a tacere". Si danza e si canta in piazza. "Le risate e il canto, in Egitto, vengono solo dal cuore". Si urla per i proiettili e per le botte, anche. Un cantante folk-rock viene arrestato e torturato dalla polizia segreta, dopo il primo sgombero. Ma tornerà a cantare quando Tahrir sarà rioccupata, contro le bugie dei militari che anticipano le elezioni per non voler riscrivere una costituzione che impedirebbe ai fratelli musulmani di presentarsi. Un accordo segreto tra i 'partiti forti' viene subito combattuto con un nuovo tumulto. Ancora in piazza. Siamo nell'autunno 2011. Si aizza all'eccidio dei copti cristiani. I militari si scatenano contro le manifestazioni delle minoranze religiose. Un massacro. Proiettili veri. Blindati sopra i corpi schiacciati dei manifestanti.  

La cineasta egiziana Jehane Noujaim
Già, ci sono i cattivi, i corrotti, armati fino ai denti, schiaffati dal film soprattutto nel fuori campo, tranne qualche generale ridacchiante, intervistato in automobile o negli intervalli degli scontri. O Mubarak che in tv, prima di arrendersi, aveva lanciato una profetica minaccia: "Ho paura che i giovani che chiedono il cambiamento, saranno i primi a subirne le conseguenze". Allude al fascismo fondamentalista, che presto entrerà prepotentemente padrone del campo.

Khalid Abdalla e la tenda di piazza Tahrir
I buoni sono quelli che hanno riempito coraggiosamente e pacificamente la piazza per esigere la fine dello stato di emergenza imposto per 30 anni al paese da Mubarak (il cui partito è membro dell'Internazionale socialista) per abusare meglio di una democrazia non rappresentativa, limitata e imperfetta. E opprimere il popolo. 

Ma questi buoni, rabbiosi anche se impauriti dalla repressione, hanno costretto il Faraone, violento fino alla fine, alla resa. Effettivamente il nuovo Faraone sarà peggio di lui. L'Egitto, la patria della danza del ventre, non può essere wahabita.

Jehane Noujiam
Sono gli stessi, la moltitudine insorta che agiva all'unisono, come se fosse un solo corpo, o un solo pugno anche nei film nasseriani di Yussef Chahine, che così cacciano poi dopo la 'più grande manifestazione di piazza della storia umana' anche il Secondo Faraone, il presidente eletto al 51%, Morsi (finanziato dal Qatar) e i Fratelli musulmani, saliti al potere approfittando delle concessioni che Mubarak gli aveva fatto negli ultimi anni (rendendoli responsabili di scuola e sanità) e di una legge elettorale senza garanzie costituzionali. Protagonisti infine di una ennesima svolta autoritaria, ancor più plateale e spudorata di quella di Mubarak. Anche con loro, dice una canzone, "i corrotti vanno avanti"....

Rami Essam
Jehane Noujaim segue gli avvenimenti, cronologicamente impaginati, dando raramente la parola ai militari o agli integralisti islamisti anche perché, quando se la prendono - in tv -  fanno davvero paura. Si partecipa, dall'interno, alla lotta per la libertà, la giustizia sociale, il pane e la dignità al Cairo e nell'intero paese. E anche alla repressione sanguinosa. Al carcere, alle torture, ai raid dei blindadi di al Sisi che sventrano teste e corpi dei copti, ai funerali dei rivoluzionari...Morsi vinte le elezioni ha cucito la costituzione sull'Islam. Pensa più alla sharia che a dare ai lavoratori una assistenza sanitaria garantita che, visto la situazione epidemologica del paese, e le sue responsabilità sarebbe proprio indispensabile. Nell'inverno 2013 Morsi si attribuisce superpoteri che neanche Mubarak e Nembo Kid. Il regime social-fascista militare di Mubarak viene così sostituito dal regime falangista (cioé finot religioso) di Morsi. Il popolo torna in piazza  nell'estate 2013 e l'esercito è costretto a intervenire. Morsi viene deposto e arrestato per complotto contro lo stato.

Abbiamo già vissuto questa sensazione dolorosa e inebriante (il miracolo di un regime autoritario che si sbriciola) assieme ai tre ragazzi, una donna e un giovane rivoluzionario di sinistra, e un integralista che cerca di ragionare con la sua testa, scelti anche da Stefano Savona nel suo doc dell'anno scorso, Tahrir, per osservare le metamorfosi interiori della Storia, e rappresentare il pluralismo e le contraddizioni di un movimento che ancora non ha vinto ma certamente oggi non ha ancora perso. 

Savona però aveva lasciato "la morsa" dopo la caduta di Mubarak. Qui si rimane anche dopo la caduta di Morsi. Ci sono sempre i militari, che comandano il paese, e succede dagli anni 50 del secolo scorso, e sarebbe ora che accettassero di ratificare una nuova costituzione che li metta al servizio del paese, e non alla loro testa.

La musica (un po' alla Philip Glass) è di H. Scott Salinas e Jonas Colstrup, ma raddoppia troppo, raggelando le emozioni, i sentimenti descritti (rabbia, gioia, tristezza...). Il montaggio a 10 mani è veloce e terrorizzato da lasciare qualche secondo vuoto, morto. Si ricorre come nel bel film di Maghed el Madi, egiziano d'Italia, adesso al lavoro su un film 'musicale' sulla seconda rivoluzione dopo I don't speak very good, I dance better, nei momenti di maggiore tensione e repressione, da Pierre Soufi, l'anziano anarchico capellone, il cui appartamento domina piazza Tahrir e che ha già ospitato tante troupe nazionali e straniere e protetto manifestanti inseguiti dalla polizia. 


Dunque è un lavoro sui ragazzi di piazza Tahrir seguiti in questi ultimi tre anni con passione e ostinazione dalla cineasta egiziana che vive a Montreal, Jehane Noujaim, già autrice di  Storm from the South (sulle prime elezioni in Kuweit) e Rafea: Solar Mama (2012) su una ragazza beduina che vive tra la Giordania e l'Irak (oltre a due lavori più americani, uno sulla start-up fallita di una compagnia di new media e l'altro sulla copertura nei media della guerra Usa-Urak).  

Assieme a due operatori, e videocamera in spalla anche lei, spesso dando prova di notevole coraggio, la quarantenne cineasta non si è mossa dalla piazza e ha partecipato dall'interno alla rivolta permanente della moltitudine egiziana partecipando alla "prima rivoluzione"dell'11 febbraio 2011 e alla seconda rivoluzione per contestare il diritto, poco costituzionale perché democrazia è il rispetto delle minoranze, ad "imporre uno stato islamico". 

Magdy Ashour con il figlio, anche lui fratello musulmano
La parte più interessante del film naturalmente è l'evoluzione del personaggio islamista, Magdy. Padre di due bambini, amico d'infanzia e di strada di Ahmed, di cui conosce e rispetta l'onestà e integrità, ferito negli scontri, rivouzionario dalla prima ora, eppure non può a un certo punto non schierarsi con il capo della sua organizzazione verticistica e leaderistica, Morsi, a cui ingenuamente crede, considerandolo l'unico uomo politico capace di portare una democrazia effettiva e non formale in Egitto, facendone uno stato religioso. 

Manifestazione di cristiani copti
Anche se resta contrario ai metodi violenti con i quali gli integralisti cercano in un primo momento di sradicare con la forza le tende dei manifestanti. Per tutto il film porta una t-shirt con su scritto Boicottate Israele! Eppure sua madre, tutta vestita di nero come Belfagor, gli dà una lezione politica e etica. A un certo punto, si parla di rendere gli egiziani padroni della propria libertà, dichiara: "Vorrei solo un uomo per bene che governi secondo giustizia. Non mi importa se si chiama Mubarak o Morsi. E neanche se è ebreo".

Il produttore Karim Amer con la regista
Possiamo fidarci di Ahmed. Finchè c'è lui in piazza abbiamo una bella garanzia democratica. E' un ventenne saggio. Contro chi, disfattista, crede che lo slancio della rivoluzione sia finito e che i militari torneranno a poco a poco a decidere tutto (già i poster di al Sisi giganteggiano in tutto i locali pubblici...) risponde negativo. "La più grande e irreversibile conquista della nostra rivoluzione è che i bambini adesso hanno scoperto un gioco bellissimo. Si chiama PROTESTA."

Gordon Parks, l'artista multiforme e camaleontico Ultimo giorno di una mostra di fotografie a Roma, alla libreria Fandango



I Fontenelle al Poverty Board, centro di assistenza per poveri di Harlem. Foto di Gordon Parks 1967
Roberto Silvestri

Se le epopee degli individui nati poveri che si fanno tutti da sé e diventano potenti, importanti e ricchi sono il senso stesso dell'american way of life e del sogno americano, irritando la secolare propensione europea a sopportare come potenti solo i rampolli d'antico lignaggio (attenzione: i poveri diventano al massimo tiranni, in Europa, se la loro volontà di potenza emerge troppo, ricordate Mussolini e Hitler?),  ecco che, in pieno inizio di un'era di cambiamento epocale - perchè il governo Renzi è il primo a promettere guerra alle rendite e trionfo del merito individuale - una bella mostra e un magnifico catalogo annesso su una vita particolarmente eccezionale, fanno per noi.  

Foto di Gordon Parks1956
Anzi speriamo che il neo ministro Franceschini la faccia girare ancora, a spese sue/nostre, anche nelle scuole di tutta la repubblica. E' la mostra delle opere di un fotografo particolare, un fotografo e cineasta african-american, dunque 'doppio', vale due. Ha come quattro occhi. Ha una doppia coscienza perché guarda, nero, sempre attraverso gli occhi altrui, bianchi. "Percepiamo la nostra dualità - scriveva il grande intellettuale neroamericano W.E.B DuBois - in ogni istante: un americano e un nero: due anime, due pensieri, due sforzi irriconciliabili; due ideali che lottano in un solo corpo nero, cui solo una forza tenace impedisce di essere lacerato". Una foto del 1947 mostra il test della bambola. Una bimba non sa decidersi tra una bambola nera e una bambola bianca...Maschera bianca, volto nero....

Deborah Wills, 1956. Foto di Gordon Parks
Si racconta infatti la 'missione impossibile' di un ragazzo african-american del profondo sud che fa il fattorino delle ferrovie (un comparto di classe operaia molto forte e molto organizzata. Nel 1945 una minaccia di sciopero di questa categoria per lo più black ridiede il via alla lotta per la fine della segregazione razziale. E ovvio che il sindacato ottenne tutto quel che voleva senza neanche incrociare le braccia) quando decide di diventare un grande fotografo. E ci riesce. Sarà poi un artista multiforme e camaleontico, un cineasta di successo, l'inventore del blaxploitation con Shaft  - un centinaio di film anni settanta d'imitazione, a centralità simbolica african-american, che sbricioleranno tutti gli stereotipi anti neri fin lì collezionati e molti pregiudizi razzial-commerciali duri a morire - un compositore di colonne sonore epocali e una leggenda vivente del popolo african-american in lotta. Prima di Sidney Poitier, Jimi Hendrix, Spike Lee, Denzel Washington, Michael Jackson, Maya Angelou...    


Sandra Antonelli e Alessandra Mauro hanno curato il catalogo di questa importante mostra che è ancora aperta oggi 23 febbraio a Roma (ultimo giorno, affrettarsi) dopo una lunga proroga, presso la libreria Fandango (via dei Prefetti) e che riassume la carriera di un gigante del rinascimento nero in America, il fotografo, compositore, scrittore e cineasta african-american Gordon Parks (1912-2006), il papà baffuto appunto di Shaft il detective nero interpretato da Richard Roundtree e della blaxploitation tutta, le immagini che fiancheggiarono l'ascesa del Potere nero, capaci finalmente di conquistare un pubblico di massa, non solo black e non solo nordamericano. Ma che tutti quelli della mia generazione lo conoscono bene perché Parks è l'autore di moltissime fotografie ripubblicate a tutta pagina in Italia dall'Espresso (che era allora una rivista-lenzuolo) del funerale di John Kennedy, delle vittorie sul ring e della persecuzione di Cassius Clay-Muhammad Alì, delle lotte contro il segregazionismo e degli assassinii di Martin Luther King e di Malcolm X. Della miseria del ghetto, delle carcri, degli ospedali psichiatrici americani.... Perché erano sue le istantanee più forti e indimenticabili che scandirono, come in un requiem, gli indimenticabili anni sessanta, senza sapere da chi fossero scattate. Le Black Panthers, Marilyn Monroe, e prima ancora le miniere, le acciaierie, Rossellini e Bergman a Stromboli, le vittime della criminalità urbana e del razzismo sudista....   

Muhammed Alì, Miami, Florida, 1966 Foto di Gordon Parks
Nato in Kansas nel 1912, ultimo di una famiglia di 15 fratelli  nella desolata Fort Scott, adolescenza e studi a St.Paul, Minnesota, e di nuovo in Kansas, povertà e mille lavori per sopravvivere ai pregiudizi e alla Depressione (tra l'altro fu pianista e giocatore semiprofessionista di basket e football), nel 1937 Parks si rende conto, sfogliando nelle carrozze di prima classe Vogue e Life, che il fotografo può combattere i mali sociali, urlare forte con le parole, senza arrendersi alla rabbia e alla frustrazione. E' come una cornetta, o un piano. Ma esce dai club, entra a forza nelle case di tutti.... E' affascinato infatti dai reportage fotografici rooseveltiani sulla e contro la povertà in America. Studia Dorothea Lange, Russell Lee e Walker Evans e i reporter sguinzagliati ovunque dalla Farm Security Administration.

American Ghotic, Ella Watson. 1942. Foto di Gordon Parks
Nelle sue quattro appassionanti, compulsive e anche saporitamente romanzate autobiografie (più il racconto autobiografico The learning tree del 1963, su 12 libri in tutto scritti) Parks racconta che fu però particolarmente sconvolto e attratto dalla potenza emotiva di un coraggioso reportage filmato (a rischio della vita) da Norman Alley che confermava "nero su bianco" l'improvviso attacco giapponese alla corazzata americana Panay in Cina, ancorata al fiume Yangtze, e colata a picco il 12 dicembre. Lo vede a Chicago. Sente Alley, applaudito, raccontare il senso intimo, cioé politico, di quella esperienza drammatica. Esce alla ricerca di una macchina fotografica. Sarà una Voigtlander brilliant scovata in un banco dei pegni e sua per 12 dollari e 50 la sua prima arma di combattimento. 

Foto di Gordon Parks
Dopo aver vinto una borsa di studio del Julius Rosenwald Fund studia fotografia, e diventa il primo fotografo nero finanziato dall'Fsa per raccontare i problemi dei più poveri e reietti americani, agli ordini di Roy Stryker, il suo tirannico e gentile maestro. Al suo fianco, suscitando un certo imbarazzo nel South, l'amico e collega bianco John Vachon. Durante la guerra lavora per l'Owi (Office of War Information) e fotografa alcuni grandi esponenti dell'Harlem Renaissaince, come lo scrittore Richard Wright, allora iscritto al partito comunista e che resterà un punto di riferimento politico e morale, e l'attore Paul Robeson. 

Duke Ellington
Passa qualche anno alla Standard Oil Company prima di essere assunto nello staff della rivista Life nel 1949 come fotogiornalista e diventa per decenni una delle sue firme più illustri, si trattasse di aggiungere glamour agli stilisti e alle modelle, intrufolarsi nei ghetti cruenti, affiancare la nascita della middle class nera, raccontare la storia di Flavio, un ragazzo povero delle favela brasiliane (che sarà anche il soggetto di un suo cortometraggio), guardare in faccia lo sfruttamento in miniera, rubare i segreti del virtuosismo pianistico di Glenn Gould, pittorico di Carlo Levi, scultoreo di Giacometti, scenico di Sidney Poitier o Marilyn. Indimenticabile l'Arturo Toscanini nella bara, come una divinità. 

Gordon Parks
E anche il controluce di Woophi Goldberg sul set di The Colour Purple di Spielberg, istantanea che diventerà il manifesto di quel capolavoro. "Un pomeriggio mi sono accorto che il colore di un abito di Dior che stavo fotografando era identico a quello del sangue di un affiliato della gang che avevo fotografato a Harlem sul selciato il mattino dello stesso giorno". Sfiora il linciaggio più di una volta gironzolando nel sud razzista. Anche perché non ama il lavoro del ruba immagini. A lui piace conoscere i suoi soggetti. Restarne amico. Si fotografa solo chi si conosce davvero bene, nell'intimo... Una volta ha la sensazione di essere inseguito da ceffi nazistoidi, sconvolto dalla paura compra una pistola. Lo salva per fortuna il suo autista... Come scrisse James Baldwin nel 1972, e potrebbe essere una bella e stringata recensione di 12 anni schiavo (versione Parks e versione McQueen): "Dubito di aver mai capito cosa fosse il terrore, prima di andare nel sud".  

Glenn Gould, 1956
Ma anche il sud wasp fu terrorizzato e destabilizzato irreversibilmente quando Gordon Parks infilò un blockbuster dopo l'altro grazie al trionfo al botteghino nel 1971 del suo Shaft, produzione Mgm, che è un ironico modo per familiarizzare chiunque con la subcultura del ghetto, più che la storia di John Shaft, detective privato che aiuto il capo di una gang nera di Harlem a ritrovare la figlia rapita dalla mafia che vuole impadronirsi anche di quel territorio metropolitano african-american. La sua precedente opera per il grande schermo, sempre prodotta da una major, The Learning Tree, tratto da un suo romanzo autobiografico e addirittura marchiata Wb, perché il 68 ebbe questo di grandioso, che fece vacillare nelle loro certezze estetiche perfino le grandi compagnie, utilizzava un linguaggio per tutti, non ghettizzato, e spettacolare, e raccontava la sua infanzia, non certo facile, in Kansas.  

Sul set di The Learning Tree
Prima ancora avrebbe diretto alcuni cortometraggi come The diary of a Harlem family e The World of Piri Thomas  (che è l'autore di Down These Mean Street). Purtroppo la mostra romana non è stata accompagnata da contributi cinematografici adeguati. Solo qualche clip. E' un peccato che la Cineteca Nazionale non abbia affiancato in questi giorni una adeguata rassegna cinematografica delle opere di Gordon Parks al cinema Trevi. 

Richard Roundtree in Shaft (1971) di Gordon Parks
Anche perché avremmo scoperto alcune opere interessanti.  Come un film tv della Pbs del 1984, da lui diretto e musicato (assieme a Kermit Moore). L'episodio 3 del quarto anno della serie televisiva American Playhouse, titolo Solomon Northup's Odyssey, basato sulla autobiografia di un falegname-musicista part-time african-american, uomo libero, che fu rapito e schiavizzato per 12 anni. E' la stessa storia che forse darà a Steve McQueen il primo Oscar a un regista nero (anche se britannico). Il ruolo di Solomon nel tv play è stato affidato a un collega african-american, autore di una buona parte di episodi di Star Trek, a Avery Brooks


A Great Day in Hip-Hop Harlem New York, 1998. Di Gordon Parks

12 anni schiavo, girato nel 1984 da Gordon Parks, per la Pbs
 

mercoledì 19 febbraio 2014

Planet Jarmania. Tilda Swinton on Derek Jarman


di Tilda Swinton (*)



Tilda Swinton in The Last of England


Dear Derek,



Jubilee is out on DVD. I found a copy in Inverness and

watched it last night. It’s as cheeky a bit of

inspired old ham punk spunk nonsense as ever grew out

of your brain and that’s saying something: what a buzz

it gives me to look at it now. And what a joke:

there’s nothing an eighth as mad bad and downright

spiritualized being made down here these days this

side of Beat Takeshi. There’s an interview with you at

the end of the thing: a Face to Face .. very nice to

see that face, I must say.  Jeremy Isaacs asks you,

last of all, how you would like to be remembered and

you say you would like to disappear. That you would

like to take all your works with you and ... evaporate

...


Tilda Swinton in Caravaggio


It’s a funny thing, because the truth is that, here, 8 years later, in so many ways you never could, but, it

has to be faced, in so many others, you have. It’s snowed since you were here and your tracks are covered. Fortunately you made them on hard ground.



Well, I could tell you that we got some things right,

back then, sitting round the kitchen table in

Dungeness projectile vomiting with the best of them:

you were INDEED the great Thatcherite filmmaker - for

every £200,000 film you made, real profits were seen -

by someone or other -  within at least the first 2

years, all those royal circus brides did indeed end up

cutting themselves out of their wedding dresses and

looking into the camera. Alan ‘ all -film- is-

an-advertisment- for- something’  Parker did end up

running the BFI and dissolving its production arm,

Film 4 WAS just a flash in the pan ..  I DID have

twins of all genders and head for the hills.



Derek Jarman e Tilda Swinton
Do you remember Norman Stone calling to arms about us

all in the Sunday Times? saying ‘The Last of England’

and ‘ Sammy and Rosie get Laid’ and ‘Raining Stones’

and  i can’t remember what else were a damaging and

misleading series of slanders on the British character

and profile? .. those were the days. That strictly for

export word ‘British’ .. reminds me always how on show

it encourages us  to consider ourselves. Surely the

idea of a national identity was always tricky enough:

strikes me any attempt to define a national identity

for film is not unlike trying to get a hairnet on a

jellyfish .. and, by the by, it not unreasonable to

suggest that  those in the definition business -

boardroom table dancers with pension plans and jobs to

lose - might not necessarily be best equipped to blue

sky the blue for the rest of us.



Jubilee di Derek Jarman
They talk about The British Film Industry a lot these days. You remember that   Renaissance they all got moist about in the 80’s after ‘Chariots of Fire’ won

Oscars: the British are Coming? And then that Kenneth Branagh thing with ‘Henry v’ ? Didn’t he even call his company Renaissance Films? Well, the renaissances are rolling themselves out pretty much yearly, now, as director after director makes his or her first film and then graduates to making commercials.



The fact is - you know why - I cannot  ever quite be

serious about the British Film Industry. Its not a

phrase I can use - could ever use - with much of a

straight face. it’s really nothing personal.  It’s

just that  I find I predate it, like I predate the

thinking man’s stocks and shares, and I haven’t quite

got with the groove. Do you remember, we saw them

setting up the stall in the empty field and the tiny

man with the megaphone settling himself into position

behind the imperial velvet curtain? We were there 

watching when the wily colonial entrepeneur circled

the ring at the village fete with hot hands and did

visible dollar sums in his head at the sight of the

handicraft  table and prepared to hand over bead

necklaces to the cottage weavers for their finger

woven items from hand reared indigenous materials ..

It felt like industrial films on these islands in

those eighties were made by people who could not quite

get into television. Or by shameless traitorous ex

patriots who had legged it for the free world in the

colonies. In those days, British Film, when invoked,

meant getting proud about  the Lavender Hill Mob or

Whisky Galore. An American/Indian partnership began to

give Britain an exportable identity : these were the

Crabtree and Evelyn Waugh days of ex- imperial mooning

about, when nostalgic dreams of The Grand Tour meant

film culture to a lot of people. Class obsession,

still, now, the greatest stock in the trade of

industrial cinema here, began to show a profit. Gotcha

became a word in the national anthem. Land of banal

hope, of Past Times glory .. still superior about the

land of the free on the grounds that we managed to

sell London Bridge to the desert .. who’s the colony,

though? Then and now ..



Tilda Swinton
I had run away to join a different circus, myself -

yours: Planet Jarmania -  you were the first person I

met who could gossip about St Thomas Aquinas and hold

a steady camera at the same time ..as you did at our

first meeting ..i thought it would be good to hang

out with you for 6 weeks .. I guess we had things to

say. Our outfit was an internationalist brigade.

Decidedly pre-industrial. A little loud, a lot louche.

Not always in the best possible taste. And not quite

fit, though it saddened and maddened us to recognise

it, for wholesome family entertainment.



Wholesome families were all the rage then. There was a

fashion for a thing called ‘normal’ and there was a

plague abroad called ‘ perversion’. There was no such

thing as society and culture meant something to do

with a yoghurt plant. This was before the Sunday Times

educated us that culture means digested opinions about

marketable  artistic endeavours. Things are a little

different now: People -  at least pretend to - have an

enormous amount of sex and tell everybody else about

it. Not much ‘Butterflies’ on telly, except on the

nostalgia channels. We use the word terrestrial

without a flicker of spacethink. People cook and

decorate their flats and celebrate the Millenium and

the opening of the Commonwealth Games in Manchester

after compatible cajun/Echo Park hacienda/ Alternative

Miss World c. 1978 styles. Straight has started to

mean honest again, getting very drunk is hilariously

funny and smart and newsreaders would refer to today

as July Seventeenth.



Derek Jarman
And there’s a big chat on about film culture now ... that means ... genuinely concerned and frustrated individuals scrupulously trying to drum up and contextualise a cinema that speaks to them ... I tend to have a kind of visual/aural disphasia with that phrase and end up thinking that what is being

championed is a sort of film couture, as distinct from

 the ready to wear or diffusion line cinema that it’s

always easier to find off the peg.. I suppose there’s

some kind of balance to that analogy: although the

fashion world - the business that fashion is - is at

least cynical enough to understand the lossleading

value of the mystique of the handstiched and the Marie

Antionette fantasy about seamstresses losing their

eyesight in exchange for their passionate toil over

the bugle beads. That old garret mythology, .. it

doesn’t half send shivers of glee down the spines of

the uber-rich - it’s a fantasy not only of patronage

but also some sort of sacrificial blooddrinking .. the

secret, if not of eternal youth, then of eternal

spiritual worth .. an artist suffered for me ..



Derek Jarman
We used to be referred to as the arthouse; how it used

to irk us then .. how disparaging it sounded ...how

sickly and high falutin pious. and extra curricular.

For arthouse superstar read jumbo shrimp . yet, then,

as now,  the myth prevailed that there was only ever

one mainstream. We were only too happy to know that

our audience existed and to hoe the row in peace.

Nobody here paid that much attention to us, that’s

true: noone ever thought we might make them any money,

I suppose. What grace that constituted . Not to be

identified as national product.. The intergalactic

BFI. ZDF in Germany. MIKADO in Italy. Uplink in Japan.

This was our nation state: this was continuity. We

snuck under the fence, looked for - and found - our

fellow travellers elsewhere. Here’s the thought: slice

the world longways, along its lines of sensibility,

and not straight up and down, through its geographical

markers, and company will be yours, young filmmaker.

company, continuity, identity. Treason? To what?



The dead hand of Good Taste has commenced its last

great attempt to buy up every soul on the planet, and

from where I’m sitting, it’s going great guns. Art is

now indivisible from the idea of culture: culture from

heritage: heritage from tourism: tourism from what I

saw emblazoned recently on the window of an American

chainstore in Glasgow as ‘the art of leisure’. That

means, incidentally, velour lounging suits by the ton.





The colonial balance has shifted and the long spoons are out. We now stand shoulder to shoulder with something as identifiable as Civilisation itself, or

else.. Security never felt so much like a term of abuse.

I was in Los Angeles earlier this year and was asked by a jeweller’s assistant - in a hypergrand jewellry emporium on Rodeo Drive, if the reason i declined to

wear a stars and stripes jewelled badge on my front at

a public event was because i was, in fact, ‘ an

Afghani bitch’...



You may not need me to tell you about the fight for

civilisation afoot these days. More of the same but

worse than even you could have imagined. Meanwhile, in

a binary world, we on these islands cream on creamily

up a Third Way.



Things have got awfully tidy recently. There is a lot of finish on things. Clingfilm gloss and the neatest of hospital corners. The formula merchants are out in force. They are in the market for guaranteed product.

Financial returns. ... add -water- and -stir

reputations after one appearance over the parapet ...

the elusive second film - the developing body of work - far down that yellow brick road ..

They go out looking for filmmakers with the nous(e?) of one who might consider employing halogen spotlights

in the hopes of attracting wild cats into a suburban

garden. They are missing the point. Don’t the know the

roulette wheel is fixed.? The croupier is a card

sharp.? Do these people not watch old movies? It’s the

spirited that hold the hands in the long run, it

always was, the low key for the long term, the

irreverent, the cheats, the undaunted and inspired

rulebreakers, not the goodygoody industrial types with

their bedside manners and managerial knowhow.

It is all done with smoke and mirrors and it always

will be. Not with memos and corporate steering groups.

Not with statistical evidence or test screening

audience feed back. Don’t they know the basic laws of

being in an audience? That we say we want to know more

about the villain, but we don’t really: that we say we

like happy endings but our souls droop without the

bittersweet touch of something we might recognize - as

we bend in  from our fascinating and complex mortal

world into the virtual dark and back again. That we

say we want famous faces we can recognise, but there’s

a thing a face that we identify as an actor’s - first

and foremost - cannot do for us that the face we might

see as that of a person can do. It’s human beings that

are of use to us in the figurative cinema. human

shapes and gauchenesses and human passions. not drama

and perfect timing and a well tuned charisma round

every bend.






I have always wholeheartedly treasured in your work the whiff of the school play. It tickles me still and I miss it terribly. I forage for it now in the films I make with Lynn Hershman. The antidote it offers to the mirrorball of  the marketable. the artful without the

art, the meaningful devoid of meaning - is meat and drink to so many of us looking for that dodgy wig, that moment of awkward zing, that loose corner: where we might prize up the carpet and uncover the rich slates of something we might recognise as spirit underneath. Something raw and dusty and inarticulate,

for heaven’s sake. This is what Pasolini knew. What

Rosselini knew. What Abbas Kiarostami knows.This is

also what Ken Loach knows. What Andrew Kotting knows.

What Bill Douglas knew. What Michael Powell and Emeric

Pressburger, what William Blake knew. And, for that

matter, what Caravaggio knew, painting prostitues as

madonnas and rent boys as saints; no - madonnas as

prostitutes and saints as rent boys .. there’s the

rub.It’s all about rhythm: it’s all in the knees. Bring

it from home. Bring it out from under your bed. Your

own bed. Your own life. That’s - eventually - what you

did, Derek, and measures your highest contribution as

an artist, in my opinion: that you made your work out

of the soup kitchen that was your life.



Derek Jarman
I think that the reason that people wanted to

inaugerate this event in your name, the reason that

you count for so much, so uniquely, to some people,

particularly in this hidebound little place we call

home, is that you lived so clearly the life that an

artist lives. Your money was where your mouth was

always. Your vocation - and here

maybe it helped a little that you offered that special

combination of utter self obsession with the

appearance of the kindest Jesuit classics master in

the school - was a spiritual one, even more than it

was political, even more than it was artistic. And the

clarity with which you offered up your life and the

living of it, particularly since the epiphany - I can

call it nothing less - of your illness, was a genius

stroke, not only of provocation, but of grace . With

your gesture of public confessional , both within and

without your work- at a time when people talked fairly

openly about setting up ostracised HIV island

communities and others feared, not only for their

lives, but, believe it or not, also for their jobs,

their insurance policies, their  friendships, their

civil rights - was made with such particular, and

characteristically inclusive, generosity that it was

at that point that you made an impact far outspanning

the influence of your work. ..you made your spirit ,

your nature, known to us - and the possibility of an

artist’s fearlessness,a  reality. And the truth of it

is: by defying it, you may have changed the market as

well.. 



Jubilee
There is a character in ‘La Dolce Vita’ - shall I

leave out that he is the suicide? - who describes

himself: ‘too serious to be a dillatante, too much of

a dabbler to be a professional .’.  I use it in my own

head from time to time to explain to myself, if to

noone else, my peculiar idle ways. Now I look at it

again, I think of you and how it might well describe

you. Your focus on the ball beyond the crowd. Your

amateur’s enthusiasm. Your delight in process. Your

perennial beginner’s mind.





Sebastian
Things you taught me:



The example of Huckleberry Finn getting a fence

painted by having such a visibly good time doing one

post himself that every passerby stops to join in.

and

never to leave a  place having done all you want to do

there



You should have been a Catholic, I sometimes think,

Del. All those robes in ‘Caravaggio’, all those

poppies in’ War Requiem’ and again in’ The Last of

England’ and ‘ The Garden’, to say nothing of all that

buggery in the crypt in ‘Jubilee’ ...: you and Michael

Powell have to be the best subscribers to the

passionate use of cardinal red in English cinema. The

secret language of holy blood in the hands of pagans

... longlivethepassion. Why is it that  the English

never mention that Shakespeare was a Catholic? All

those squeaky scrubbed classical columns. The

colourfree reformation. Clean up the sweat and blood,

if not the tears. Here we go again.  Longlivesweat.

Longlive secret blood. There’s more than one way to

organise a clearance.



Sebastian
A lot of people go to Dungeness nowadays. I expect you

know that from Keith. Those  old stones: you said

they’d grow things and they did. When I think of that

nice lady who showed us round Prospect Cottage that

day we found it. How quiet, how pale pink her bedroom

was there. I wonder where she went. Do you remember

that letter we found under the carpet with the old

rubber johnny in it: ...’ my wife is not a cold woman

but ..

you are so lovely ..’ somesuch. Addressed to a woman

in Vauxhall, as I remember.

And never sent. Under the carpet with it before she

comes in .. aah. unsent letters.



Tilda Swionton in The Last of England
I found this again the other day: this is Emeric

Pressburger writing to Wendy Hiller outlining the

Archers MO in the hopes of persuading her to work with

them on The Life and Death of Colonel Blimp:



"one; we owe allegience to nobody except the

financial interests which provide our money and to

them the sole responsibilty of ensuring them a profit

not a loss.



two; every single foot in our films is our own

responsibilty and nobody else’s. we refuse to be

guided or coerced by any influence but our own

judgement.



three; when we start work on a new idea we must be a

year ahead, not only of our competitors, but also of

the times. a real film, from idea to universal

release, takes a year. or more.



four, no artist believes in escapism. and we secretly

believe that no audience does . we have proved, at any

rate that they will pay to see the truth, for other

reasons than her nakedness.



five; at any time, and particularly at the present,

the self-respect of all collaborators, from star to

prop-man, is sustained, or diminished, by the theme

and purpose of the film  they are working on. they

will fight or intrigue to work on a subject they feel

is  urgent or contemporary, and fight equally hard to

avoid working on a trivial or pointless subject. and

we agree with them and want the best workmen with us;

and get them. these are the main things we believe in.

they have brought us an unbroken record of success and

a unique position. without the one of course we should

not have enjoyed the other very long. we are under no

illusions. we know we are surrounded by hungry sharks.

but you have no idea what fun it is surf-bathing, if

you have only paddled, with a nurse holding onto your

rompers. we hope you will come on in, the water’s

fine."



Tilda Swinton, The Last of Englan
Here’s a tradition speaking: and it’s a tradition that

you belong to, Derek: and those of us whose hearts

rise up to the challenge fall in alongside the best

company possible on these islands.. a long established

- and classical  national tradition, some might argue

- of powerful outsider artists .. pioneers .. devoted

to the idea of making things not made before .. shapes

and gestures new to the lexicon ..  people willing to

trust the law that humanity and human made work is

good for humanity .. at least that it’s better for

them to make than not to make .. that society’s shapes

and patterns, at heart, cannot be as profoundly

fascinating as the humans that live within them .. and

that they are not alone.



Tilda Swinton e Derek Jarman
That earlier Jubilee year, you gave us prophesy:

painting extinct in Paranoia Paradise, the generation

who grew up and forgot to lead their lives, the idea

of artists as the world’s blood donors,  history

written on a Mandrax, fear of dandelions.. and yet,

like

Carnation from Floris , not all the good things have

disappeared.



Maybe it’s as bad as you and I used to say it could

possibly get, now. Maybe it’s worse. But here we are,

the rest of us, tilting at the sameold sameold

windmills and spooking at the same old ghosts. and

keeping company, all the same. It’s a rotten mess of a

shambles, you could say. It’s driving into the curve,

at the very least. Some would say you are well out of

it. I reckon you would say let me attam.



Tilda Swinton in Caravaggio
I say bring it on. Bring on the fisticuffs and let’s

get weaving. And that we could do with you here among

us. And I can’t be the only one, cos look: hey, you’re

a memorial lecture now and look: hey, stranger still:

I’m giving it .. Are they tired of the academic view,

one wonders, tired of the need to listen to lectures

about  funding bodies and cultural diversity? What do

they want to hear about from me? What can I give them?





Given that it’s you who should be the one standing

here giving your own Memorial Lecture - not for the

first time, your closest friends might cry - and you

are presently otherwise engaged, or at least have left

the building, I suppose I might as well read them this

and let them in on the trick - that the conversation

is not done yet .. that the company you keep with us,

when we care to think of it, is just as strong and

empowering as it ever was. That the example you set us

is as simple as a logo to sell a sports shoe; less

chat, more action, less fiscal reports, more films,

less paralysis, more process. Less deference. More

dignity. Less money. More work. Less rules. More

examples. Less dependence. More love.



Tilda Swinton
It has nothing whatever to do with money. Money is the

easier thing in the world for any filmmaker to come

by: next to vision, stamina, vocation,

resourcefulness, comradeship, a sense of the

ridiculous, and the long, long view,  money grows on

trees. Money is the one element that socializes a

filmmaker - that ....ties him to the shore. Easier to

control, easier to scupper. .. who’s for Emeric’s

surf-bathing?



A suggestion about money:  keepit clean.  Have less.

Need less. Want less. Work with straw, but work.



And the challenges facing a film culture here?



The possibility of filmmakers losing the use of their

own spirits.

The paralysis of isolated original voices

The existence of the student loan in the place of the

student grant

The rarity of distributers with kamikazi vision 

The habit of patronage

Too many  conference tables

Too few cinemas

Too little patience

Pomp and circumstance

The concept of the ‘ successful’ product

The idea that there is not enough to go around

The eye to the main chance

The substitution of codependence for independence

The idea that it has to cost  millions of pounds to

make a feature film

The idea that there is only one way to skin a cat



WH Auden to BBritten: ‘Goodness and beauty result from

a combination of order and chaos, bohemianism and

bourgeois convention ... bohemianism alone leads to a

mad jumble of beautiful scraps ... bourgeois convention

alone to large unfeeling corpses.’



This is what I miss, there being no more Derek Jarman

films:

the mess

the vulgarity

the cant

the poetry

the edge

the pictures

Simon Fisher Turner’s music

the real faces

the intellectualism

the science

the bad temperedness

the good temperedness

the cheek

the standards

the anarchy

the gauchness

the romanticism

the classicism

the optimism

the activism

the challenge

the longeurs

the glee

the playfulness

the bumptiousness,

the resistance

the wit

the fight

the colours

the grace

the passion

the goodness

the beauty



Longlivemess.



Longlivepassion



Longlivecompany.





yr,



Tild 







(*) grazie all'intercessione di Luca Guadagnino, Tilda Swinton regalò al manifesto questo suo scritto in memoria di Derek Jarman. L'articolo fu pubblicato sul supplemento culturale alias nel 2002