venerdì 29 settembre 2023

Prendere a pugni il Palazzo. Ma non è elegante! Il nuovo film di Polanski (in duetto con "Menus Plaisirs: Les Troisgors" di Wiseman)

Roberto Silvestri
La fauna umana più repellente e provocatoria del pianeta festeggia la notte di capodanno 2000 in un hotel super esclusivo delle Alpi svizzere. Oligarchi russi rigonfi di soldi da esportare. Bancari corruttibili coinvolti in piani finanziari criminali. Miliardari braccati da parenti improbabili e ormai cadaveri, truccati da vivi per via dell’eredità. “Briatori” dall’erezione molto complicata e “Fedore” dell’eterna giovinezza chirurgica, tutti riuniti per l’Euro-Big-Party per esibire gli ornamenti e i colori di guerra del potere. Un delirante mondo Kitsch. Uomo dell’anno nascente è già il neo Zar Putin che, fatto fuori Eltsin morente, si presenta al mondo sovrapponendo in tv al decadente passato da agente frustrato del Kgb il neo-panslavismo minaccioso del fondamentalista “cristiano-ortodosso”. Ci si augura che tutto questo possa essere spazzato via dal Millennium bug…Speranze vane. Solo un paio di animali, giovani e indocili, cane e pinguino impertinenti, festeggeranno davvero. Anche camerieri, cameriere, impiegati e fattorini, e profughi balcanici ed escort da circo Berlusconi sembrano contagiati da questi corpi consumati, di una certa età, e con tutta la loro storia scritta in faccia: corpi maturi, o come si dice, menti serie.
Morale? Un uomo non è amico di un altro uomo! Niente di più disgustoso e repellente per un uomo di un altro uomo. “Un uomo – scriveva nel 1960 un grande genio polacco dell’avanguardia letteraria - può essere sopportato da un altro uomo soltanto se sa rinunciare, se rinuncia a se stesso a beneficio di qualche cosa, dell’onore, della virtù, della nazione, della lotta… Ma un uomo che non è altro che un uomo? Una vera mostruosità”. Il regista provoca, uno a uno, questi provocatori. Un verme è molto più simpatico della marchesa, di Arthur William Dallas III, di Magnolia, del dott. Lima (è Joaquim Almeida), di Bill Crush, di Vaclav, dell’ambasciatore russo …. Più che un incontro con il cinema siamo a un incontro di boxe con i pugni nudi, senza l’ipocrisia dei guantoni. Le anime candide non possono resistere. Di questo si parla in The Palace. Finalmente (dopo un primo esperimento non del tutto riuscito 32 anni fa) si riesce a trasformare in immagini il flusso narrativo e la sostanza erotica (ma dovete cercarla nel fuori campo) di un romanzo di Witold Gombrowicz, come Cosmo o Pornografia (da cui Jan Jakub Kolski ha tratto un film). Per lungo tempo proibito nella Polonia del socialismo reale Witold Gombrowicz si era imposto nel 1937 come l'enfant terrible della letteratura moderna polacca con il suo primo romanzo Ferdydurke. Dopo un lungo esilio in Argentina, tra il 1939 e il 1963, tornato in Europa aveva trionfato sulle scene parigine con il dramma Le Mariage per la regia di Jorge Lavelli. E’ morto a Saint-Paul de Vence nel 1969. In Italia è stato subito adorato dal Gruppo 63, e Feltrinelli (consulente Nanni Balestrini) ha tradotto i suoi romanzi Ferdydurke e Cosmo, mentre Bompiani Pornografia (1960) ambientato durante l’occupazione nazista e la Resistenza. Ma The Palace non è dunque solo una satira o un tipico affresco grottesco. Non è un divertimento slapstick né una commedia. Non è film d’autore che eccita lo spettatore indicandogli omaggi e citazioni, perché le parodie sono piuttosto nascoste (il realismo socialista rosa di La signora col cagnolino di Iosif Cheific 1960 e la Nuova Babilonia pre-Comune di Parigi di quando i sovietici erano “comunisti festivi”; i pupazzi di Svankmejer mimati da uno strepitoso Mickey Rourke - no, non è Califano - o Takashi Miike di Visitor Q… o qualunque festa di partito di un Menzel, di un Forman, di una Chytilova). E’ più un horror, certo, The Palace ma di tipo nuovo, che non sai ancora bene come maneggiare o definire per raccontarlo agli amici. Film deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile, concettuale e formalista, che va lavorato e decifrato mentre suscita reazioni contrastanti e simultanee: riso +indignazione, scandalo+rabbia. Ammirazione per un parco di attori dalla perfetta concentrazione. John Cleese, Fanny Ardant, Bronwyn James, Sydne Rome, Oliver Masucci, e anche Barbareschi è in palla. Non c’è pausa, ha il ritmo dei 10 mila metri di atletica leggera, corre forte sempre ma dei fratelli Vanzina d’epoca d’oro (a cui il film è stato associato) condivide lo spirito derisorio e cancella ogni personaggio teenager (un vuoto che inquieta non poco). Inoltre non è un film girato senza far caso all’attore. Anzi comincia dagli attori, “unendoli” in un modo qualsiasi e attraverso queste unioni creare il filo conduttore delle situazioni, dell’azione. Ed ecco che Polanski libera ciò che già esiste potenzialmente negli attori in quanto esseri viventi, con le loro particolari possibilità, diversità, unicità, mostruosità. Il personaggio scenico è creato per lui, cucito su misura come un vestito.
Mi ha insospettito dunque, alla Mostra di Venezia 80, la vistosa freddezza sarcastica dei potenti media euroamericani (e perfino di qualche collega arabo), quasi fosse frutto di un complottardo pregiudizio preventivo, che ha presentato in anteprima mondiale il nuovo film di Roman Polanski, dal bel titolo pasoliniano “Il Palazzo”. Forse, dopo la valanga di serie tv che li hanno trasformati in eroi dei nostri tempi, i personaggi cattivissimi e sgradevoli non si possono più provocare, attaccare, criticare, picchiare né ridicolizzare? Ai colleghi egiziani, almeno, avrebbe dovuto ricordare, titolo a parte, che quel che avviene in un solo maestoso edificio può raccontare la miseria del mondo intero, e indurci all’indignazione, come ci ha insegnato Marwan Hamed nel 2006 in Imarat Yacoubian (The Yacoubian Building), emulo di Cukor, Bunuel, Wes Anderson, Tony Richardson, Jerry Lewis, Hitchcock, i Coen, Wenders, Billy Wilder, Richard Quine, Liliana Cavani, Luchino Visconti e tanti altri. Perfino Ostlund. Il direttore del festival Alberto Barbera e il suo gruppo di selezione ha fatto molto bene a selezionare quest’opera, colta e speciale, epocale anche, visto che la sceneggiatura riunisce per la seconda volta gli illustri amici della “nuova onda polacca degli anni 60” Roman Polanski e Jertzy Skolimowski. Ma è stato un po’ troppo diplomatico (e in arte, a differenza che in politica, è un errore grave) nell’escludere dal concorso sia The Palace (per non provocare chi sbraita in giuria, come successe alla disinformata presidente della giuria Lucrecia Martel nel 2019 con L’ufficiale e la spia?), ambientato in un super hotel esclusivo della Svizzera francese (Gstaad, a un passo da casa Polanski), e un altro formidabile pamphlet sullo strapotere incontrastato dell’1% che oggi domina e schiavizza il pianeta, Menus Plaisirs: Les Troisgors (2023). Tre ore che Frederick Wiseman dedica alla capitale mondiale della goduria culinaria, presso Clermond Ferrand, il ristorante très chic dove un pranzo non costa meno di 550 euro e una paradisiaca bottiglia iperbariccata di Borgogna, se l’inflazione non galoppa, con soli 12 mila euro è tua. Wiseman, come un bimbo stupefatto si affeziona alla maestria di cuochi, agricoltori, camerieri, maître, dalle radici così gianseniste, e non ho mai visto un horror così agghiacciante e obliquo, raccontato da occhi altrettanto dolci e cuore così ammirato e perfido. E’ la stessa impressione che mi ha fatto il film-gemello, The Palace. Per i giansenisti (ci spiegò al cinema Luis Bunuel in La via lattea, 1969) l'essere umano nasce essenzialmente corrotto e, quindi, inevitabilmente destinato a commettere il male, dannato. Solo la predestinazione salva (i ricchissimi). Il giansenismo fu combattuta come eresia protestante dal cattolicesimo, perché solo per gli unti dal Signore era aperto il regno dei cieli. C’è chi racconta l’America proprio come il conflitto secolare tra chi crede che la costituzione sia stata scritta solo per proteggere i predestinati-proprietari-miliardari e chi i poveri cittadini “dannati”. Polanski e Wiseman sono con questi ultimi. Il fatto che l’opera di Polanski non abbia distribuzione angloamericana né (ancora) francese, e venga battezzato in sale festivaliere dove i critici sono ormai minoranza insignificante e gli applausometri mercantili dominano, non mi ha dunque stupito. “Skolimowski è arrogante?” E con questo? Rispose in gioventù un non meno spavaldo Roman Polanski, chiamato dagli amici Romak, aggiungendo: “ma ha molto talento”. Anzi è stato proprio il suo maestro dialoghista nel Coltello nell’acqua, 1964, l’altra collaborazione, prima di The Palace.
In una sceneggiatura di Skolimowski e della sua compagna Ewa Piaskowska non troverete mai espedienti che pretendono di imitare il linguaggio parlato. Nessun: ah! mah! beh! O altre inezie simili che abbondano nel cinema privo di costruzione formale e che si compiacciono di collezionare trovate graziose. Jerzy sta ore e ore a smussare dai dialoghi tutte le lettere inutili per rendere ogni parola imprevista, allusiva, sorprendente, ellittica, perché è sempre di qualcos’altro che si parla quando sono le intenzioni che ci muovono, qualunque sia obiettivo che ci si prefigga. Lui “ha un’enorme memoria verbale e immagazzina inconsciamente il modo esatto di dire le cose”. Polanski, intervistato nel 1966 dai Cahiers du cinema ricordava: “Andrebbe su tutte le furie per una battuta come ‘Questa sera mi piacerebbe andare al cinema’, direbbe piuttosto: ‘danno qualcosa di interessante stasera?’”. Lo scrittore preferito di Polanski, quando nel 1957 riuscì a leggerlo finalmente grazie all’apertura culturale (breve) del Partito Operario Unificato sotto la direzione di Gomulka, era proprio Witold Gombrowicz, da cui Skolimowski ha tratto nel 1991 30 Door Key una sua lettura di Ferdydurke, il romanzo del 1937 che Polanski più adorava (un saggio dello studioso polacco Jacek Nowakowski racconta proprio i profondi rapporti tra l’autore esistenzialista dei celebri Diari, morto nel 1970 dopo un lungo esilio in America Latina e a Parigi e il regista di Per favore non mordermi sul collo, non meno esule di lui) perché gli ha insegnato a smascherare, con analoghi procedimenti grotteschi, paradossali e perversi, l’inautenticità della vita, i ruoli forzati che dobbiamo assumere e l’infantilismo coriaceo e indelebile che ci sottomette ai poteri.
Scrive Skolmowski: “Ho letto Ferdydurke nel 1960, quando ero studente alla Scuola di Cinema di Lodz. Ricordo di averne discusso con Roman Polanski, che all'epoca lo considerava il suo libro preferito per come trattava e metteva a soqquadro l'ambiente scolastico, la borghesia e l'aristocrazia. Non condividevo del tutto il suo entusiasmo, perché c'erano alcuni aspetti di Gombrowicz che mi irritavano. Era un uomo dall'intelligenza caparbia, che si divertiva a prendere in giro i suoi lettori. A quel tempo questo mi dava fastidio”. Nel 2015 a Parigi, alla fiera del libro, Polanski ha letto un commovente elogio di Gombrowicz, ricordando la sua celebre frase “Non siamo noi che diciamo le parole, sono le parole che ci dicono”: "Witold Gombrowicz era il mio autore preferito quando ero giovane perché quel genere di letteratura era proibita in Polonia. Non si conosceva, l’ho scoperto solo grazie ad amici. La scoperta di questo genere di scrittura ha avuto un profondo impatto su di me: ignoravo nella realtà staliniana che romanzi così potessero esistere” .

sabato 9 settembre 2023

Rimpiangendo la lobotomia. Il Leone d'oro va a Lanthimos per "Povere creature"

Roberto Silvestri
Il cineasta greco Yorgos Lanthimos con lo strano horror (“femminista” secondo lui), molto applaudito, e tra i favoriti della critica nazionale e internazionale, e che poi ha vinto stasera il Leone d'oro, forse perché si è considerato la risposta colta, “europea”, cromaticamente fiammeggiante anche nella parte in bianco e nero, al mondo rosato di Barbie, ha molto lavorato di cesello sul suo nuovo Poor Things dal romanzo dello scrittore scozzese Alasdair Gray. Ed entra nel club esclusivo dei creatori di mostri, dei dottor Frankenstein, e di chi, tra Racconti di Hoffman e bambole inanimate, suscitata molta paura con i cadaveri che riprendono vita grazie a innesti fuori natura (un inedito trapianto di cervello).
Il laboratorio diabolico è del dottore, anche lui piuttosto inguardabile, Godwin Baxter (Willem Dafoe) e la sua creatura, Bella (Emma Stone), rivive grazie a un ricambio di materia grigia, preso dalla nascitura e inserito nel cadavere di una giovane donna incinta, morta suicida e strappato alle acque. Bella Baxter, dopo un claudicante inizio sia mentale che motorio, prende possesso di sé e fugge dal palazzo che la rinchiude. Si butta alla conquista del mondo, in crociera, a partire da Lisbona, quasi un omaggio a Manoel de Oliveira, però non manca il fado, e non è strageniale, e al pieno dispiego della sua sessualità con l'aiuto non disinteressato anzi dissoluto dell'astuto avvocato (Mark Ruffolo) compagno di venura, che sarà poi sopraffatto dalla assoluta mancanza di freni inibitori e di pregiudizi della scatenata “mostra”, che naturalmente in un bordello parigino si sentirà di casa. Tanto che in Usa il film è vietato ai minori di 17 anni. La sceneggiatura è dell'australiano Tony McNamara (già al fianco di Lanthimos in La favorita) . Scene e costumi sono mozzafiato e molto devono alle straordinarie animazioni fantasmagoriche anni 50 e 60 del cecoslovacco Karel Zeman, con la sua 'fantascienza passatista' ripresa anche da Miyazaki. Ricostruita dall'uomo, la 'donna antica' tutta natura viva e tanto rimpianta, torna in vita. Ma questo artificio lobotomico alle giovani generazioni che sono ignare del caso Ulrike Meinhof non rimanda più a sinistre e abiette manipolazioni. Davvero una 'povera cosa'.

mercoledì 6 settembre 2023

Diario della Mostra di Venezia n.80. 29 e 30 agosto

Roberto Silvestri
La Preinaugurazione
Già la pre-inaugurazione esibisce segnali se non “eversivi” piuttosto antipatici. Intanto. Per la presenza più visibile del solito della polizia inassetto ninja e di sbarramenti di sicurezza e sistemi di controllo e tracciabilità degli ospiti non più giustificati. Esempi. Per quale motivo, a Covid-19 addomesticato, sussiste l'obbligo di prenotazione digitale dei posti che istituisce rituali sadici come la sveglia “blasettiana” alle 6 di mattina? Perché a sale non completamente piene si impedisce l'ingresso degli accreditati in fila, come avviene a Cannes? Inoltre per la presenza rituale-non-rituale del ministro della cultura Sangiuliano che nel suo breve intervento fa già venire i brividi quando invita a guardare i film, come fa lui, “con gli occhi e il cuore dei bambini”. E uno ripensa immediatamente alle leggi censorie degli anni 50 (quelli sì di piombo) con Luigi Gedda e i comitati civici e i magistrati compiacenti a far crociate bigotte contro il cinema “adulto”, che corromperebbe i sani costumi “italici”. Così film molto importanti furono fatti a brandelli o messi direttamente al rogo. E poi, altro segnale indigesto: perché “italianizzare” in modo così imbarazzante la manifestazione? Perché ben sei film nazionali in gara? Una esagerazione. Direbbe Castellitto jr. : manifestazione di strapotere, non di potenza vitale. Però. Pure Cannes lo fa. Certo ma Cannes ha da anni scelto la strada dell'autopromozione tricolore glamour, anche perché Unifrance sa produrre opere di qualità in ogni parte del mondo, Stati Uniti inclusi. RaiCinema e Cinecittà no. Solo colpa dello sciopero a Hollywood o qualcosa di più inquietante? Per esempio è stato cancellato uno degli appuntamenti culturali più fecondi della manifestazione. Il “classico del cinema muto” con raffinato accompagnamento musicale, che gemellava la Mostra del Lido alle Giornate del cinema muto di Pordenone, una delle poche manifestazioni cinematografiche italiane di prestigio davvero internazionale. Ma sempre temuta, ignorata, boicottata dalle amministrazioni di destra della città friulana, che non ne comprende (per primitivismo capitalistico?) il senso. Al suo posto lo star system. La provinciale con la diva maggiorata Gina Lollobrigida, certo obbligatorio omaggio a una attrice amata e che ci ha lasciato quest'anno. E magnifico affondo, più che calligrafico e più che neorealista, di Mario Soldati, il più liberal degli antifascisti, contro quella parte monarchica del paese, di conti e marchesi che nessuna riforma agraria osò espropriare, dunque ancora viva e potente negli anni 50. Classe dominante che controllava immaginario, economia e sessualità del nostro provinciale paese, come se si fosse ancora nel medioevo (il film di Costanzo sul caso Montesi tornerà su queste radici malate dell'Italia dei femminicidi di oggi). Ma forse gli occhi di un bimbo sono attratti solo dalle forme procaci della povera ma bella protagonista, la Lollo, aggredita e minacciata costantemente da uomini sadici e donne perfide, e perfino dal bel giovine che l'ama e che lei adora. Il documentario di Orson Welles “Portrait of Gina” è dedicato all'italico vizio di affossare e dimenticare le nostre grandi personalità artistiche, dalla Duse a Caruso, e conferma dunque una interpretazione adulta di Lollobrigida, che faceva parte dell'elite senza potere, per dirla all'Alberoni. Nella parte finale del documentario, quando Welles riesce a intervistare la super star che conquisterà anche Hollywood, ecco la scena che - secondo Marco Giusti – segnerà la censura del piccolo film. “Io pago molte più tasse del produttore dei film”. Gli artisti potranno anche essere in vita 'leggende viventi del popolo' ma si devono sfruttare fino all'osso, da vive e da morte. La mostra “I Mondi di Gina” è visitabile fino all'8 ottobre 2023 presso l'Istituto Centrale per la Grafica - Palazzo Poli di Roma, in via Poli 54 (lato fontana di Trevi). Ore 10.00 – 19.00 dal martedì alla domenica (ultimo ingresso ore 18.00). Lunedi chiuso. Ed è stata ideata e curata in tutta fretta dal sottosegretario del MIC Lucia Borgonzoni e dalla Presidente di Cinecittà Chiara Sbarigia. Entrambe presenti alla preinaugurazione della Mostra d'Arte Cinematografica numero 80.I documentari di Welles, girati nel suo periopdo do esilio dagli Stati Uniti (malati di maccartismo) sono tutti stupendi, acuti, curiosi, divertenti come questo. Ne ha girato uno sugli esistenzialisti parigini, uno sui baschi, considerati i più osteggiati"indiani d'Europa", uno sulla corrida, e l'atavico sacrificio rituale dei tori (nello straordinario film su "Guernica" di Yervant Gianikian si vedranno le immagini di una corrida organizzata per raccogliere fondi pro esercito repubblicano durante la guerra civile) e su Isidore Isou, il poeta lettrista che gli spiega come ampliare la vocalità, cioé la coscienza sonora delle lettere che eistono già e di quelle che non esistono ancora...In un film cino-tibetano presentato fuori concorso, "Il leopardo delle nevi", di Pema Tseden, morto a 53 anni poco prima della Mostra dopo aver portato a Venezia ben tre film, sul rapporto non sempre semplice tra allevatori e bestie feroci e carnivori, c'è una piccola lezione di alfabeto tibetano e scopriremo che le loro 30 lettere hanno sonorità affascinanti e profonde. Mentre scriviamo arriva la brutta notizia della morte del regista genovese e genoano Giuliano Montaldo. Uomo di cinema di prsigio mondiale, di cultura finissima,di umorismo contagiante e di altissima passione civile. Lui utilizzava gli attori giusti per ogni personaggio, senza chiedergli il luogo di nascita. Era un grande artista. Non un burocrate dell'ufficio passaporti, che avrebbe impedito a Adam Driver di interpretare Enzo Ferrari, come pretenderebbe Pierfrancesco Favino. A cui consiglio la visione di un film tedesco girato in Italia nei primi anni 70, di Koch, Spqr. In questo film la protagonista tedesca chiede a Pier Paolo Pasolini di essere assunta in un suo film. Da memorizzare la risposta di PPP.
30 agosto 2023. Comandante e El Conde
A proposito. Edoardo De Angelis dirige il film d'apertura, scritto con Sandro Veronesi, Comandante. Apertura italiana vera, non come quella annunciata di Guadagnino, annullata per lo sciopero Usa di attori e sceneggiatori. Qui i soldi (15 milioni di euro) sono della Indigo e di RaiCinema. Un po' ci si inquieta anche davanti al bio-pic (vanno alla grande nei festival) che glorifica però un alto atto di civiltà umana e marinara. Salvatore Todaro, comandante fascista (nel fuori campo) della regia Marina Militare, nell'ottobre 1940 affonda con il suo sommergibile Cappellini un mercantile belga in navigazione fantasma nell'Atlantico che lo aveva attaccato. Cercherà poi di portare in salvo i 26 marinai fiamminghi sopravvissuti all'affondamento come prescrive la legge del mare, trainandone la scialuppa, finche non si spezza il cavo, e ospitando poi i profughi a bordo fino a porto sicuro (nelle Azzorre neutrali), non senza pericolo per il suo stesso equipaggio. Dunque Todaro viola gli ordini ricevuti, per un motivo eticamente superiore. Fa come Dirty Harry. Todaro tradisce. E' infatti un braccio destro di Junio Valerio Borghese, un combattente della X Mas, anzi l'autore del simbolo di quella brigada Wagner ante-litteram. E probabilmente se non fosse morto in guerra nel 1942, lo avrebbe seguito nella repubblica di Salò, tradendo il re, e perfino nella giravolta filoamericano, tradendo Duce e Hitler, per superiori valori (in quel caso discutibili: l'anticomunismo). Esplicito il senso del film. Se perfino un fascista radicale sa cosa sono le leggi del mare perché il ministro Salvini continua a ignorarle, promulgando leggi in contrasto con la nostra costituzione? Peccato che il gioco dei dialoghi troppo scontato e i movimenti della cinepresa in uno spazio così angusto e complicato come un sommergibile, troppo contratti, con un insistere ripetitivo sui primi piani (ricordate invece i virtuosismi di Petersen?) ci ricordino quasi più le barzellette tv di Walter Chiari sui sommergibili che i film che secondo gli storici del cinema 'inventarono il neorealismo' perché scaraventavano il mondo autentico a scardinare ogni canone, format e clichés. Erano girati negli anni della seconda guerras mondiale da Francesco De Robertis (Mine in vista, Uomini sul fondo, Alfa Tau), con la consulenza non casuale di Rossellini, o scritti, nel dopoguerra da Marcantonio Bragadin (Siluri umani). Un film che ha dunque il merito di ristudiare un momento aureo del nostro passato cinematografico. Ma, a proposito di Walter Chiari, cade su ridicoli snodi di trama, forse causati dai vincoli di coproduzione, come la presenza di un traduttore dal fiammingo in italiano, incomprensibile perché Todaro parlava francese (almeno così afferma) e i fiamminghi parlano piuttosto bene il francese. A meno che non sia un raffinato rimando al libello nazionalista di Baudelaire sulla “inguaribile stupidità” dei belgi e degli alti ufficiali della marina italiana. Vedremo altri alti marinai in conflitto con le leggi del mare nel Caine di Friedkin. Ma lì non c'è un errore di dettaglio, e l'occhio è mobile nonostante lo spazio angusto (aula di corte marziale). Però va un po' più alla radice delle cose. Da buon lettore di Norman Mailer, Friedkin cita quel che Red risponde a Martinez in Il nudo e il morto: “Io che cos'ho contro gli stramaledetti giapponesi? Credi che mi importi se si tengono questa giungla fottuta? Che differenza fa per me se Cummings si prende una promozione?” “Il generale Cummings è una bava persona” disse Martinez. “Non esistono la mondo ufficili buoni” proclamò Red. A proposito di “ufficiali buoni” il generale Pinochet per metà Cile è una brava persona. Dopo il suo sanguinoso colpo di stato ha arricchito pesantemente le tasche della media e dell'alta borghesia. Perché gli Stati Uniti, commossi dallo zelo nell'eseguire gli ordini di Kissinger, da tanta generosità anticomunista, e da tanta mansuetudine nei loro confronti, hanno fatto in modo che la loro moneta valesse il doppio delle altre valute sudamericane, inebriando la bilancia dei pagamenti di Santiago. Insomma Pablo Larrain esagera un po' nel “vampirizzare” fin quasi a renderlo demoniaco, come se fosse Hitler, un piccolo servo dei poteri forti di origine basca, proprio come l'anarchico-socialista che ha ucciso, Salvador Allende. Le classi agiate cilene devono in qualche modo scusarsi agli occhi del mondo per aver sguinzagliato il loro cane. Ma da pit bull a Dracula, che è un po' il simbolo stesso del capitalismo finanziario (come scriveva in un bel saggio di tanti anni fa Franco Moretti), che rende “sempre più ricchi i ricchi”, senza preoccuparsi di godere mai alcun “bene diurno”, il passo è troppo lungo. Questo El Conde che non muore mai, e la sua compare Vampirella Margaret Thatcher, circondati da famelici familiari, nel grottesco in bianco e nero, troneggiano come insopportabili e sacralizzati e dunque invincibili divinità maligne. E non criminali comuni.

lunedì 4 settembre 2023

MOSTRA DI VENEZIA 80. LA BESTIA DI BERTRAND BONELLO

di Mariuccia Ciotta
Viaggio onirico attraverso due secoli in un gioco di premonizioni che Henry James attribuì al giovane John Mercher nel romanzo breve La bestia nella giungla, scritto nel 1903. Al posto di John, Léa Seydoux, il viso incollato all'obiettivo, corpo, volti e abiti cangianti dal 1910, passando per il 2014 fino al 2044, dove si trovano tracce del Minority Report di Spielberg con la vasca d'acqua dei sogni che prevedono il futuro. Le bambole-robot umanoidi di intelligenza artificiale impongono l'azzeramento delle emozioni, leitmotiv del cinema distopico come Equals (2015, passato alla Mostra) con Kristen Stewart. Anche qui un siero antiempatia iniettato nell'orecchio depurerà i ricordi di vite passate o mai vissute. In concorso al Lido, La Bestia sprofonda in un delirio lungo 145', il tempo per Gabrielle di cancellare dal suo Dna l'angoscia che la perseguita di epoca in epoca, la paura della catastrofe, la premonizione di qualcosa capace di annientarla. Sospeso nel tempo l'amore per Louis, ruolo che spettava al più affascinante dei giovani attori francesi, Gaspard Uillet, morto in un incidente poco prima delle riprese, e al quale il film è dedicato. Al suo posto, George MacKay, biondino britannico (si parla francese e inglese), inseguito nei sogni, fantasma imprendibile. Bonello nell'estenuante passaggio di anni e di ore, sperimenta luci e generi, e arriva alla Los Angeles delle grandi ville che evoca Mulholland Drive, l'aria tersa, i colori pastello, la Bestia in agguato. E la surrealtà di locali rosso sangue attraversati da luci stroboscopiche, e abitata da David Lynch. Nel 2044, gli umani sono una minoranza, e per non soffrire in un mondo di automi è meglio mutarsi in macchine. Ecco qual era la catastrofe, la terribile premonizione, non essere più.

domenica 3 settembre 2023

MOSTRA DI VENEZIA 80. LEONARD BERNSTEIN NON E' PIU' RADICAL CHIC, MA NEANCHE RADICAL

Roberto Silvestri
Esterrefatto dalla reazione critica nazionale e internazionale di Venezia 80 a una Mostra invivibile come mai nella storia (indipendentemente dalla decina di film e oltre molto belli che vengono comunque scodellati, “classici” a parte, perché il comitato di selezione ha occhio e anima) e invece accolta da quotidiani poker di stelle come se gli stessi critici si rendessero ormai conto di non contare più nulla se non come gentili amplificatori pubblicitari di ogni visualità masticabile, registro che decenni di serie tv hanno cambiato il concetto di ricezione vispa, trasformando noie micidiali in capolavori assoluti (Poor Things, El Conde, Bastarden, Maestro, Killer...perfino Harmony Korine) e i film dotati di vita propria ed eccitanti in insopportabili polpettoni (i miei preferiti? Polanski, Ferrari, anche Besson, una commedia di Stephanie Rothman del 1974). Barbie e Oppenheimer non vengono forse trattati dal blob critico dominante come preistoria audiovisiva? Già. Tranne il divertimento acido di Costanzo (che pare il remake di Spqr, un film tedesco dei primi anni 70 sul cinema italiano, c'è anche l'hotel Plaza tra i protagonisti) i film italiani non reggono finora l'urto. Da cui la rabbia verso Ferrari, omaggio al Bertolucci di Strategia del ragno e al Bellocchio di I pugni in tasca perché è proprio quella Emilia del culatello che Michael Mann sa catturare magicamente. Infatti Adam Driver è stato qui perché il film è fuori norma, fuori schema, fuori Hollywood. Oltretutto Sergio Castellitto è già stato Enzo Ferrari in un film tv di 20 anni fa diretto da Carlo Carlei, non a caso discepolo di Michael Mann della prima ora. Già. Da decenni Hollywood è diventato un comparto secondario di giganteschi conglomerati che fanno profitti planetari vendendo poca arte e molto altro: armi, farmaci, prodotti chimici, sigarette (grande ritorno del tabacco, un tempo bandito, sul grande schermo), miniere, cliniche, acciaierie e carte di credito. Per questo i grandi Studios trattano il falso in bilancio da giocolieri (copiati dai governi democratici di tutto il mondo), le classifiche di incasso come momento marketing e gli attori e sceneggiatori che non sono super star come il diavolo trattava Faust (“volete vendermi per l'eternità la vostra voce e la vostra sagoma? Ecco a voi 30 mila dollari!”). Da cui lo sciopero di questi mesi. Impressionante anche il controllo politico censorio sulle pellicole, come dimostra Maestro, in concorso a Venezia 80. Dunque già il titolo è perfido. Maestro, e lascia più che perplessi quando si tratta del bio-pic Netflix sul grande musicista Leonard Bernstein, superstar intoccabile perché idolo della televisione anni 70 per i suoi corsi di successo sulla musica sinfonica e operistica. Quel retrogusto Mastercard, che di Maestro è gestore, non è simpatico. Ma ho l'impressione che il perfido titolista alluda anche a qualcos'altro. Bernstein è stato definito infatti nel 1970, in piena guerra contro la guerra in Vietnam, da un prezzolato geniaccio della destra statunitense, Tom Wolfe, il “maestro dei radical chic”. Definizione abietta che ha tuttora grande successo nei salotti devoti alla “Grande Bellezza”. E perfino tra gli sceneggiatori statunitensi più liberal. Josh Singer ha scritto The Post e Il caso Spotlight. Gliel'hanno fatta pagare? Non credo però che tutti ricordino i fatti. E il film, diretto e interpretato con lunga protesi nasale criticatissima da Bradley Cooper, 48 anni (e coprodotto anche da Scorsese e Spielberg) - ma la Mostra 80 sta esibendo un debole verso gli “uomini soli al comando”, dopo che Comandante ha aperto la kermesse nell'imbarazzo generale e sta per arrivare anche Io Capitano - ha la vigliaccheria di oscurarli del tutto, dietro un interminabile e insopportabile melodramma-fotocopia di A star is born (algoritmico esordio di Cooper alla regia) che proprio di Bernstein come “maestro di musica”, direttore d'orchestra mitico, si occupa pochissimo e si ostina invece (come una spia dell'Fbi pagata da Hoover) a rovistare nelle avventure coniugali (24 anni di matrimonio) ed extraconiugali, perché omosessuali, dell'artista di origini aschenazita. E' come raccontare Hitler tralasciando non dico la “soluzione finale” ma anche solo la “notte dei cristalli”. Peccato. Bradley Cooper dimostra di dirigere con stile radicale e chic le schermaglie d'amore tra Bernstein e l'amata Felicia Montealegre (nella prima parte del film, in bianco e nero stile “Life”-”Time” epoca più amata, anche se davvero di piombo, Corea, maccartismo...) e anche i duelli d'odio della storia (con i colori lisergici della contestazione generale, dunque un po' malati e avvelenati). Ma è come se ignorasse con ostinazione gli scontri aspri della Storia. Dopo un famoso party del 14 gennaio del 1970 il compositore dei celebri musical West Side Story e Un giorno a New York - nonché direttore d'orchestra della New York Philarmonic succedendo giovanissimo a Bruno Walter - e sua moglie Felicia, attrice di origine cilena molto impegnata politicamente a sinistra, sono stati infatti oggetto della madre di tutte le vergognose campagne mediatiche scatenate nell'ultimo mezzo secolo. All'epoca Bernstein preparava un epocale Fidelio. E la coppia ospitò nella propria villa (c'è chi riconosce il valore bancario dell'arte) circa 90 persone per raccogliere fondi (10 mila dollari) a sostegno delle famiglie dei "Panther 21", i militanti del partito delle Pantere nere newyorchesi arrestati il 2 aprile 1969 e accusati di aver progettato attentati dinamitardi contro sedi della polizia, grandi magazzini e altri edifici pubblici di Manhattan Dopo 9 mesi di carcere i “Panther 21” cauzione a 100 mila dollari, senza risorse per preparare una adeguata difesa, non solo sono stati tutti scagionati ma sono risultati vittime di infiltrati dell'Fbi che avrebbero organizzato il complotto con la complicità dei massmedia (anche liberal) e delle forze dell'ordine. Altro che radical chic. Altro che "la più grande minaccia alla sicurezza interna del paese" come il direttore dell'FBI Edgar Hoover definì il Black Panther Party per il suo dichiarato marxismo. Altro che “giusto processo”. Piuttosto una plateale violazione delle libertà civili che fu rintuzzata dall'opinione pubblica e dal Movement (si schierarono con le pantere nere anche Marlon Brando e Jean Seberg, altre divinità radical chic) e i Bernstein, perché non era più il tempo di maccartismi. Alla festa parteciparono tra gli altri Otto Preminger, Sidney e Gail Lumet, Barbara Walters, Bob Silvers, le mogli di Arthur Penn e Harry Belafonte, e i leader del Black Panther Party Robert Bay, Donald Cox e Henry Miller. Charlotte Curtis sul New York Times (15 gennaio) scrisse tra l'altro: "Eccoli lì, le Pantere Nere del ghetto e i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si studiavano cautamente tra i mobili costosi, le elaborate composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d'argento di tartine” mentre il giorno dopo un editoriale disgustoso aizzava al linciaggio morale: "L'emergere delle Pantere Nere come beniamini romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla maggioranza dei neri americani... La terapia di gruppo più la serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein... rappresenta il tipo di elegante baraccopoli che degrada sia i clienti che i patrocinati. Potrebbe essere liquidata come un divertimento che allevia i sensi di colpa arricchito di coscienza sociale, tranne per il suo impatto su quei bianchi e neri che lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale. Ha deriso la memoria di Martin Luther King Jr. ..." (The New York Times, 16 gennaio 1970). La risposta della signora Bernstein fu pubblicata, ovviamente molti giorni dopo: "Come donna impegnata nella tutela dello stato di diritto ho invitato un certo numero di persone a casa mia il 14 gennaio per ascoltare l'avvocato e altri coinvolti nel processo ai “Panther 21”, discutere il problema delle libertà civili applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a raccogliere fondi per le loro spese legali... È stato per questo scopo profondamente serio che è stato convocato il nostro incontro. Il modo frivolo in cui è stato riportato come un evento "di moda" è indegno del Times è offensivo per tutte le persone impegnati a far rispettare la giustizia." (New York Times, 21 gennaio 1970). Nei mesi successivi i Bernstein ricevettero lettere minatorie, furono oggetto di innumerevoli attacchi stampa e vessati per tutta la primavera davanti al loro edificio da manifestanti dell'associazione ebraica “Defense League” che protestò a gran voce contro il presunto "appoggio" di Bernstein alle Pantere nere antisioniste. Cinque mesi dopo la raccolta fondi fu immortalata in un lungo saggio di Tom Wolfe sul New York Magazine intitolato "Radical Chic: That Party at Lenny's" (8 giugno 1970). Nel film si fa una vaga allusione alla invidia e alla gelosia che motivavano gli attacchi durissimi ricevuti da Lenny Bernstein, senza chiarire che si allude a Tom Wolfe e al party “hollywoodiano”. Come i reazionari di casa nostra di destra e di sinistra appresero bisogna essere livorosi contro gli artisti liberi, milionari per il loro maggiore talento, e dunque da aggredire “squadristicamente” a parole meglio se prezzolati dai “diversamente miliardari”

mercoledì 14 giugno 2023

Arnold Schwarzenegger per la prima volta in streaming si prende in giro in Fubar, otto episodi al Cia...nuro

di Roberto Silvestri
Luke Brunner (Arnold Schwarzenegger), prima della pensione, fa 2 missioni per la Cia. Dopo un blitz cruento ad Anversa per sgominare un traffico di diamanti è in Guyana per salvare un collega in pericolo e strappare dalle grinfie del boss Boro (Gabriel Luna) un' atomica portatile (e pericolosamente in vendita). Luke ama più il lavoro della famiglia (però se la moglie vuol divorziare, lui vuole riconquistarla) e poi Boro, a cui ha ucciso il padre trafficante d'armi, ma gli ha pagato gli studi per evitare, senza successo, che ne seguisse l'esempio. Sarebbe un thriller come gli altri se Luke non contasse su tecnologie futuriste e collaboratori (il suo capo è un giovane african-american) le cui veloci battute esigono super-prontezza di spirito. E se la spia nei guai, che Luke ritrova mentre gonfia di pugni un malcapitato nella giungla, non fosse sua figlia Emma (Monica Barbaro, italo-californiana), che credeva una pacifica vestale del volontariato. Anche Emma è stupefatta: “Ah! Ecco perché sparivi sempre da casa”! Gli scontri edipici che seguono danno ritmo a un “concept” ritrito ma regalano al copione acrobazie sorprendenti e non le variazioni a 360° sul carattere e sull'etica dei personaggi. Per il compleanno di Eastwood, 93 anni, Schwarzenegger gli ha scritto: “sei il mio mentore, ho sempre cercato di imitarti!”. Meno come regista (Eroe per famiglie, 1992, non è memorabile) più attore-reattore e come repubblicano anticonformista, quando era governatore della California (su armi, ambiente e diritti civili). E così, dopo due Terminator inerziali, a 76 anni, l'attore austro-americano più palestrato del mondo, icona della new Hollywood (esordì con Bob Raphelson), scodella 8 buffi episodi di Fubar (“Fucked Up Beyond All Recognition”), serie ideata da Nick Santora, prima sua fiction di “gran fondo”, regalandoci campionature da True Lies, e ripetuti omaggi obliqui a Clint: il ri-matrimonio (Gunny), fenomenologia di una spia in pensione (Assassinio sull'Eiger), identificazione con il nemico e i sensi di colpa del padre per la figlia trascurata (Potere assoluto, e quasi tutti). Invece l'atroce, violentissima sequenza di esecuzione “pasoliniana”, quando passa e ripassa mentre parla d'altro, con un fuori strada, distrattamente, sul corpo esanime di un nemico ispanico ricorda piuttosto John Huston di Lettera al Cremlino, l'unico film capace di equiparare Kgb con la Cia, per metodi e etica.

mercoledì 29 marzo 2023

Il cinema camerunese perde i suoi pilastri. Muoiono i pionieri Jules Takam e Alphonse Béni

ROBERTO SILVESTRI
Il cinema africano in questi giorni ha perso due suoi pionieri camerunesi, Jules Takam, morto nell’ospedale Lariboisière di Parigi il 9 marzo scorso a 81 anni. E Alphonse Béni, deceduto in patria tre giorni dopo, a 77 anni, paradossalmente in povertà visto che rappresentava l’ala più commerciale del cinema di Douala.
L’anno scorso era anche scomparso Jean-Paul Ngassa, formato all’Idhec di Parigi negli anni 50 e autore del primo cortometraggio del paese, L'aventure en France (1962) 15’, codiretto con Philippe Brunet; di un altro corto, La grande Case Bamiléké (1965) di 35’, coregia di W. Hamon e del primo lungometraggio, Une nation est née (1972) un documentario che festeggiava i primi 10 anni di indipendenza nazionale. Segretario generale della Federazione panafricana dei cineasti (FEPACI), dal 1972 al 1976, dopo aver creato, con l’appoggio del regime di Amadou Ahidjo, Cameroon News, un giornale che aveva il compito di sostenere la produzione audiovisiva pubblica e dopo aver fondato e diretto, dal 1973, il Fondo per lo sviluppo industriale del cinema (FODIC) questo cineasta che veniva da Bana Bafang, Camerun occidentale, dove era nato nel 1939, è stato bruscamente licenziato per motivi politici, sostituito da un incompetente (un ingegnere agricolo) e per la delusione ha abbandonato definitivamente il cinema dedicandosi all’avvocatura. Jules Takam era più conosciuto in Italia per aver partecipato alle mitiche “Giornate del cinema africano di Perugia”, create nei primi anni 80 da Mohamed Challouf (un regista tunisino che attualmente sta girando un documentario proprio sul cinema camerunese) dove ha presentato L'appet du gain (L’esca del guadagno, 1979) il suo primo lungometraggio, un poliziesco molto politico e pericolosamente polemico con la Francia, per la sua rapacità neocoloniale, ambientato in un paese “immaginario” dell’Africa subsahariana la cui banca centrale viene derubata da mafiosi europei con la complicità di un gruppo di alti funzionari locali golpisti. Nato il 15 novembre 1941 a Bamendjou, nella regione occidentale del paese, in una nobile famiglia poligama, studia e lavora come sarto a Douala, e con la vendita del suo negozio di camicie si paga gli studi superiori al Conservatoire libre du cinéma français di Parigi (dove ha studiato anche Dikongue-Pipa) e lavora come montatore a Antenne 2 (ora France 2) girando nel 1972 il suo corto d’aesordio, L'Attente (L’attesa, 16').
Assistente della grande montatrice francese Andrée Davanture (che ha affiancato l’esplosione artistica dei film-maker africani tra gli anni 70 e 80) ha partecipato alla lavorazione di Muna Moto (1975) di Jean-Pierre Dikongué Pipa, considerato dai critici il capolavoro del cinema camerunese e vincitore del primo premio, Yennenga Stallion, al Fespaco. Del 1998 è la commedia Le Cercle du pouvoirs codiretto con l’Ettore Scola del cinema camerunese, Daniel Kamwa, e tratto dalla sceneggiatura di Taka N’Deussa scritta nel 1987. E’ una satira sul potere del denaro dopo la svalutazione del franco CFA nei paesi africani francofoni. L’insuccesso commerciale del film lo costringe a cambiare lavoro, e diventa agente a contratto presso l'Assistenza Publica Sanitaria, pur continuando a scrivere sceneggiature che, come ha raccontato il regista congolese David-Pierre Fila al giornalista Christian Eboulé, erano soprattutto serie pensate per la televisione.
Alphonse Béni, soprannominato il "ninja nero" ha iniziato la sua carriera come attore in Francia, tra erotismo e soft porn. Poi, tornato in Camerun, ha preferito un cinema di impegno commerciale e popolare, dirigendo film musicali, western o d’azione, interpretari da Richard Harrison, icona americana del cinema bis, o ispirati a Bruce Lee, come Cameroon Connection (1985). L'ispettore Baïko indagando su un omicidio incontra Bruce Le, sosia del grande filosofo-lottatore di Hong Kong. C’è anche Paco Rabanne. Questi film lo portano a Hong Kong, e con Godfrey Ho, partecipa come attore a Black Ninja (Il ninja nero, 1987), al fianco di Richard Harrison. Del 2005 l’ultimo lungometraggio, La Déchiure.