martedì 27 aprile 2021

Frances McDormand e il recitare con le orecchie e il cuore. Frammenti da una intervista di Willem Dafoe con l'attrice dei 4 Oscar

di Roberto Silvestri 

Comica e drammatica. Villain and hero. Il suo ruolo in Fargo resta al 33 ° posto per l’American Film Institute nella lista dei buoni indimenticabili. Buona? Non troverete nulla di nulla in Hollywood Confidential, la bibbia dei gossip sulle star. Solo che è amica di Tom Hanks e che porta al dito la fede della prima moglie divorziata di Joel Coen perché non è una donna sprecona. 
Ma passiamo all’arte. Dalla fragilità vulnerabile dei suoi primi ruoli è entrata in mutazione e si è incorporata progressivamente in personaggi sempre più inossidabili e auto-valorizzanti. “La nostra voce è una lancia” ha ricordato alle colleghe attrici, accettando, da guerriera sioux, l’ultimo Oscar. 
Molta della sua forza però è nella sua “faccia di gomma” munita di appuntiti sensori che la interconnettono con set e troupe. Sa ascoltare per incidere, più che recitar battute. 

Come Mary Pickford è di origine canadese ed è altrettanto tosta. Chi ha visto quel genio politico- finanziario della United Artists, nonché “fidanzatina d’America”, nel western Romance of the Redwoods di Cecile De Mille (1917), sa che al sostantivo ‘fidanzatina’ bisogna dare ben più robuste connotazioni. La “houseless” Fern, la giustiziera drastica Mildred Hays e Marge Gunderson, capo della polizia incinta del Minnesota scandinavo, ruoli entrati nella leggenda, sono accurate reincarnazioni proprio di quella “disarmacattivi” di Jenny Lawrence. Anche per quanto riguarda l’artistica estraneità al convenzionale spirito materno. Fargo docet. E Pedro McDormand Coen, nato in Paraguay nel 1994, è suo figlio, adottato ancora nella culla. 

Frances McDermond è una delle poche attrici al mondo che quando confessa di aver ottenuto la parte per essere andata a letto con il regista, fa morire dal ridere (36 anni di matrimonio con Joel Coen lo confermano). E che imitando l’ululato del lupo alla premiazione degli Oscar 2021, per ricordare Michael Wolf Sneyder geniale sound-mixer morto suicida a 35 anni, sa sprofondarci in un batter d’occhio nella tristezza più inconsolabile. “Michael ha registrato tutti i palpiti del cuore, ogni nostro sospiro. Per me Michael Wolf Snyder è Nomadland” ha detto la protagonista incantevole del film di Chloé Zhao. 

Nel curriculum McDormand leggiamo teatro sperimentale con la compagnia “The Wooster Group”. E, da ieri, i tre Oscar: Fargo, Tre manifesti a Ebbing e Nomadland. I colleghi e la stampa accreditata di Hollywood, l’accademia Britannica del cinema e tanti festival nel mondo l’hanno amata e premiata fin dal suo esordio, Blood Simple-Sangue facile che nel 1984 venne lanciato al Sundance e, da noi, a Salsomaggiore. La sua Abby sarà poi doppiata da Emanuela Rossi. 

Frances Louise McDormand, nata Cynthia Ann Smith (Gibson City, Illinois, 23 giugno 1957), attrice e regista di teatro, anti-star e produttrice cinematografica statunitense, da ieri ha sull’armadio di casa ben quattro Academy Awards (tre come attrice protagonista, uno come produttrice di Nomadland). Solo Katherine Hepburn ha fatto meglio di lei. Per ora, 4. Però è una delle 18 attrici a vantarsi della “triplete” performativa: l’Oscar più l’Emmy televisivo, per la serie della Chodolenko Olive Kitteridge, più il Tony teatrale per Good People di David Lindsay-Abaire (2011). Si chiama “Triple Crown of Acting” e l’innalza al livello di Ingrid Bergman, Liza Minnelli, Rita Moreno, Maureen Stapleton, Jessica Tandy, Audrey Hepburn, Anne Bancroft, Vanessa Redgrave, Maggie Smith, Ellen Burstyn, Helen Mirren, Jessica Lange, Glenda Jackson… Credo che non ci sia una sola persona negli Usa che considera i premi, comunque, insignificanti.

La sua filmografia non si ferma alle ormai 7 collaborazioni artistiche con il marito e suo fratello Ethan (La Tragedia di Macbeth uscirà nel 2021). “Fran” ha lavorato tra gli altri con il caro amico di gioventù Sam Raimi (I due criminali più pazzi del mondo e Darkman), Robert Altman (Short cuts), Ken Loach (L’agenda nascosta), John Boorman (Oltre Rangoon), John Sayles (Stella solitaria), Alan Taylor (Palookaville), Cameron Crowe (Quasi famosi), Bruce Beresford (Paradise Road) e Wes Anderson l’ha diretta nel suo nuovo lavoro, The French Dispatch. Tre gli Oscar sfiorati come attrice non protagonista, Mississippi Burning, 1989; Quasi famosa, 2001, North Country - Storia di Josey, 2006 (nello stesso anno ha rischiato il Razzie Award…). 

La sua originalità performativa? Sheila Benson sul Los Angeles Times recensendo Mississippi Burning, nota che "la maestria di Gene Hackman raggiunge qui il suo apice, ma McDormand vola con lui. E poiché è lei l'unica voce morale del film è giusto che sia così memorabile”. Roger Ebert, del Chicago Sun-Times, definito Fargo "uno dei migliori film che abbia mai visto", considerava da nomination ogni singolo momento della sua performance, “ma è l’effetto cumulativo che colpisce: è astutamente, silenziosamente, estremo”. Sam Raimi, in Soldi sporchi, del 1998, fece di Fargo una apologia-parodia indimenticabile. E' una sorta di lettere d'amore all'amica persa di vista.

Sul suo lavoro di attrice, Fran ricorda che bisogna allontanarsi dal set e dal palcoscenico e vivere la vita, perché se passi solo da un lavoro all’altro sei prigioniera del mondo fantastico e non hai nient'altro da offrire che la fantasia: “La maggior parte delle persone supera un grande dolore tramite una sorta di cicatrice interiore, mentale, che aiuta a coprire le cose e a sopravvivere. Il tessuto cicatriziale di un attore sensibile non ricopre mai completamente i dolori allo stesso modo. Con una buona tecnica, un attore può far riemergere quel trauma e attraversare la vita, senza impazzire”.

Infanzia non proprio tradizionale. Nata il 23 giugno 1957 a Gibson City, Illinois, all'età di un anno e mezzo è adottata da una coppia di origine canadese, Noreen Nickelson e Vernon McDormand, e ribattezzata Frances Louise McDormand. Il padre è un pastore della congregazione protestante 'Discepoli di Cristo', di cui la madre biologica di Frances McDormand era parrocchiana. Un'altra figlia adottiva dei coniugi McDormand, Dorothy, è stata ordinata pastore e cappellano dei 'Discepoli di Cristo', così come accaduto ad altri due loro figli adottivi. 

I McDormand non hanno avuto figli naturali e hanno vissuto in piccoli centri dell’Illinois, Georgia, Kentucky e Tennessee, prima di stabilirsi a Pittsburgh, in Pennsylvania, dove Frances si è diplomata nel 1975, vantando un controllo inusuale di accenti e cadenze del Middle, studiando poi teatro al Bethany College di Bethany, West Virginia e a Yale, dove era compagna di stanza di Holly Hunter. 


Il suo primo ruolo importante è in un dramma scritto dallo scrittore e poeta West Indies Derek Walcott. Poi, tra gli altri, due Odets, Edipo re di Sofocle (con regia sua), un importante, ma come leggeremo poco riuscito, The Sisters Rosensweig di Wendy Wasserstein al Lincoln Center e un Macbeth nel 2013. 

La sua voce dalle mille modulazioni contraddittorie è difficile da centrare, anche se in Italia è Antonella Giannini ad averne il monopolio (Fargo, L'uomo che non c'era, Tutto può succedere - Something's Gotta Give, Un giorno di gloria per Miss Pettigrew, Burn After Reading - A prova di spia, This Must Be the Place, Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore, Promised Land, Olive Kitteridge, Ave, Cesare!, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Nomadland, The French Dispatch). Però è Paila Pavese in Quasi famosi e nel suo duetto d’amore adulto con Gene Hackman di Mississippi Burning. E altre venti attrici, tra le quali Barbara Castracane (Short Cuts cioé America oggi), Anna Rita Pasanisi (Palookaville), Ludovica Modugno (North Country - Storia di Josey) e Roberta Paladini in Æon Flux - Il futuro ha inizio di Karyn Kusama, che le fece sfiorare il Razzie Award nel 2005 (il premio per la peggiore performance cinematografica dell’anno), hanno cercato di coglierne il segreto. 

Accettando la statuetta per Tre manifesti a Ebbing, Missouri, nel 2018, McDormand ha ricordato l’importanza dell’inclusion rider, quella clausola contrattuale che garantisce a cast e troupe un equo livello di diversità e fa inorridire le vestali della meritocrazia (astratta, astorica e opportunista) e la sensibilità razziale dei “politicamente scorretti”, speculare a quella dei politicamente corretti. Gli stessi politicamente scorretti a cui non è piaciuto il clima della bella cerimonia Oscar 2021. Ma il problema non è mai stato il razzismo (Juve merda!) ma il razzismo istituzionale e sistemico. Quello è un cancro vero. Non le ironie e le perfidie sugli alentejani, i carabinieri, i gialli, i neri, i bianchi e i rossi....


L’idea di scrivere su Frances McDormand mi è venuta dopo aver ritrovato un’interessante intervista “sulla recitazione” che il collega (in Mississippi Burning) Willem Dafoe le fece a più riprese (bar rumoroso, casa di lei, telefono) nel 1997, anche perché fan dei Coen, indocili al “film-formula”, per il numero 7 della rivista Projection codiretta da John Boorman in collegamento con i Cahiers du cinema

Dafoe era rimasto folgorato da Blood Simple, “film che apre gli occhi”, perché aveva esclamato dentro di sé “dove cavolo hanno pescato quella donna!”, emozione confermata da Raising Arizona (anche se Nicolas Cage gli aveva strappato la parte). “In Mississippi Fran mi ha colpito come attrice semplice, diretta e divertente. Molto seria e brava in quello che fa, ma giuro che a volte mi dimenticavo, con lei, di recitare”. 
Curiosamente l’intervista iniziava con Frances che ricordava l’uso di seni finti per Rising Arizona: “Sì, ti ho parlato dei miei seni finti? Inizialmente li avevo presi perché il personaggio aveva cinque figli. Facevano parte del mio processo, quei seni”. Nella versione di Projections questo incipit è stato cassato. Fran spiega che non partecipa mai al lavoro di sceneggiatura con i fratelli. “Non sono uno scrittore”. Ma interviene dopo, per il casting e per eventuali precisazioni sui suoi personaggi. Per esempio sulla fallibilità di Marge, la dura poliziotta del Minnesota, ma estremamente a disagio quando si tratta di esternare le proprie emozioni, o per evitare ‘l’immagine materna standard’ o la ‘mamma-natura’ nei confronti di Mike Yanagita, il personaggio interpretato da Steve Park.
Willem Dafoe 
Quando ti danno un copione, qual è la prima cosa che fai? C'è uno schema di lavoro a cui tendi ad aggrapparti? Vai ai dettagli esterni del personaggio? Cerchi un modello? 
Frances McDormand 
Non faccio molte ricerche. E non l'ho mai fatte, né al cinema né al teatro. A teatro faccio tutto il lavoro durante le prove. Certo, non sempre riesce. Sai esattamente in un mese di prove cosa funzionerà? Non mi siedo a casa a imparare le battute, anche se oggi mi rivolgo al copione molto più di prima. Uno dei problemi che ho avuto quando ero più giovane era che non avevo idea di quale fosse lo sviluppo del mio personaggio, né di come l’evoluzione del personaggio raccontasse la storia del film. Andavo avanti di scena in scena. Se ero fortunata alle prove veniva bene. Al cinema però, visto che le riprese non sono in sequenza cronologica, dovevo avere un'idea molto migliore dell’arco narrativo. 
WD 
È divertente, il mio impulso è esattamente l'opposto. Non puoi sapere come verrà tracciato un character, deve ancora essere modificato, quindi in effetti devi solo essere presente e trovare intuitivamente un modo per riprodurre ogni scena. 
FM
Decisamente. Per me, non fa alcuna differenza quanto so, o quanto ci ho pensato nella mia testa. Quando si tratta di interpretare scene emotivamente difficili, non mi siederò a casa e penserò, okay, è qui che si crea la tensione perché tutto dipende esattamente da dove ti trovi quando lo fai. L'intera faccenda del ricordo emotivo può essere molto utile per un altro attore, ma non funziona per me. Per me, è tutta una questione di catarsi emotiva. Tutto quello che devo fare è stare proprio in mezzo a un gruppo di persone che tirano i cavi, che fanno le luci - io me ne sto lì e l'isolamento di essere solo in mezzo a un gruppo di persone può portarmi in un luogo vulnerabile. Per la maggior parte della razza umana, la gioia, il dolore o l'emozione vengono custoditi in un posto molto sicuro. Questo è il processo di guarigione. Ma gli attori non lasciano che il tessuto cicatriziale guarisca completamente, e dal momento che non guarisce mai completamente, non si tratta di manipolare un ricordo o un'emozione tanto quanto non dover scavare troppo lontano - non dover staccare così tanto la crosta. Non devi passare tutto il tuo tempo a recitare facendolo sanguinare. È solo lì, te lo stai portando in giro. 
WD
Scegli un progetto per il ruolo o per il regista ...? 
FM
Con Fargo non avevo letto la sceneggiatura né mi ero preparata per un'audizione. Ho ottenuto la parte perché ho lavorato con i fratelli Coen, conoscono il mio lavoro da 12 anni. Mi stavano offrendo una sfida. È interessante, perché non sono sicura di come mi sarei sentito per quel personaggio se avessi appena letto la sceneggiatura. Lo davo per scontato, con loro. Volevo lavorare con Joel ed Ethan. (…) WD
Quanta tecnica c’è nella recitazione cinematografica? È facile da riconoscere in teatro, ma nei film si tratta di catturare questi momenti intuitivi. E quello che fai nel film è così mediato. Pensi che si tratti davvero di essere presenti e ricettivi? 
FM
Dipende. Lavorare con Joel ed Ethan è molto più simile al teatro di altri film che ho fatto. I loro film sono teatrali. Sono molto stilizzati, come deve essere con una compagnia di attori. La sceneggiatura è simile a una sceneggiatura teatrale. Non stai cercando di riparare i buchi nella sceneggiatura con l'improvvisazione o lo sviluppo del personaggio. Ti è stato dato tutto, è lì. 
WD
Hai un'idea chiara del loro mondo prima di girare? 
FM
Quando leggi la sceneggiatura e poi vedi il film, non c'è deviazione dell'idea originale. Joel ed Ethan iniziano a realizzare il film quando lo scrivono. Non scrivono sceneggiature che un altro dirigerà o modificherà. Dal momento in cui hanno l'idea, parlano del dialogo, scrivono la sceneggiatura, pensano alla posizione e ai movimenti di macchina. Tutto inizia nello stesso momento. È davvero un buon sistema perché non ho alcuna formazione nel cinema. Ho studiato i classici, ma non ho mai lavorato con la macchina da presa o con la videocamera. 

WD 
Hai lavorato molto in teatro prima del tuo primo film?
FM 
No, Blood Simple era il mio secondo lavoro alla Yale Graduate School. La prima è stata una commedia teatrale che ho fatto poco prima, a Trinidad. Il poeta dell’isola di Santa Lucia, Derek Walcott, aveva appena ricevuto una borsa di studio MacArthur per produrre a Trinidad uno spettacolo con attori locali e due attori nordamericani. Alcune sere non ci esibivamo perché non si presentava nessuno, ma era fantastico essere laggiù. Ed era interessante perché Walcott prima di tutto era un poeta e poi un drammaturgo. Gli dicevamo "Bene, Derek, ma non è molto realistico iniziare a parlare con linguaggio poetico". Diceva: "Ci lavorerò" e gradualmente il dialogo prendeva forma. In Blood Simple ho scelto di non essere teatrale. Non ho mai mosso la faccia e la mia bocca è sempre rimasta aperta, come se fossi terrorizzata – e lo ero spesso. Ho solo fatto quello che mi hanno detto di fare, che era perfetto per il personaggio, ma non è che ho preso quella decisione come una scelta del personaggio. Era perché non sapevo cosa fare. 
WD
Cos'è cambiato? 
FM 
Beh, dipende dal regista 
WD 
Cosa trovi piacevole nel tuo approccio a un progetto? Segui uno schema? 
FM 
Sì. Scelgo personaggi teatrali e cinematografici che so che mi porteranno da qualche parte come attrice. Anche se non ho scelto Beyond Rangoon per il personaggio, un classico ruolo di supporto, non aveva altra vita se fare da spalla alla protagonista, Patricia Arquette. Ma mi piaceva lavorare con Boorman, i cui film amo molto, e andare in Malesia. 
WD
Intendi sfidarti? 
FM
Sì, non volevo interpretare sempre donne del sud, maltrattate e ignoranti. A teatro faccio Irma in Three Sisters e interpreto anche Masha. Mi spacco il sedere. Mi uccidono, mi mettono al tappeto (…). Per tre mesi ho lavorato sul palco, ho fatto Stella in A Streetcar Named Desire, poi ho avuto modo di fare quel tipo di personaggio nel film, e ho dovuto abbassare il volume della voce per recitare sullo schermo. È stato fantastico. 
Ho davvero scoperto che sono completamente diversi i muscoli da utilizzare. Nei film non lavori mai con la parte inferiore dei piedi. Si concentra tutto sul tuo viso e sulle tue orecchie, nell’ascolto. Ad esempio, in Mississippi Burning, non ho fatto nessuna ricerca. Tutto quello che ho fatto è stato ascoltare Gene (Hackman). Aveva la straordinaria capacità di non rivelare, nelle letture, nulla di se stesso. Ma quando eravamo sul set le piccole persiane sui suoi occhi si sono alzate e tutto era disponibile. È stato ipnotizzante. È davvero credibile ed è stata come una lezione di recitazione basic. 
Penso che sia la cosa che faccio di più nei film, ascoltare. Il che è difficile se non credi alla persona che ti sta parlando. Ma se ascolti veramente gli altri personaggi, allora succede qualcosa al tuo viso. Succedono molte cose, senza e proiettare nulla, semplicemente lasciando che accada. La prima volta che ho visto Fargo con un pubblico la mia mascella tremava perché ero così tesa. Sono rimasta sbalordita, non avevo mai interpretato un personaggio che causasse tanta ilarità. E non è che l’avessi interpretata come una commedia, ma il pubblico rideva, non solo di lei, e costantemente. 
WD
Hai sentito la pressione di essere "divertente" quando lo stavi girando? 
FM Mi sono resa conto che funziona la vecchia scuola di recitazione standard riguardo alla commedia: se sei fedele al tuo personaggio e rendi quel personaggio credibile, e sei fedele al suo comportamento, allora qualunque sia la situazione in cui ti trovi, la commedia funzionerà. Sul palco, quando ho provato a fare commedia, ho sempre cercato di essere onesta. Ad esempio, quando ho interpretato Pheni in Sisters Rosenzweig, un personaggio a un punto di svolta nella vita, che vive una situazione davvero difficile, è infelice, si lamenta per lo stato dei rifugiati e dei paesi dilaniati dalla guerra. Ora, come puoi renderlo divertente? Non ci sono riuscita. Non importa quanto fossi fedele al suo comportamento, non riuscivo proprio a trovare la soluzione. Ma con Marge, non c’era il pubblico che ti aiuta a capire i tempi della commedia. Succede durante il processo di montaggio. Se Joel taglia da destra o da sinistra del fotogramma, farà la battuta o non farà la battuta. Quindi non aveva senso pensare che Marge dovesse essere un personaggio comico. (…) 
WD 
Dirigerai ancora un po ' a teatro? 
FM 
Mi piacerebbe, sì. In teatro sicuramente. 
WD 
Non film. 
FM 
No. Perché ... no. 
WD 
Perché sei molto vicino a un ottimo regista. 
FM 
Giusto, sì. Non credo di poter raccontare una storia con i film, come regista. 
WD 
Ne senti il bisogno? 
FM No. Ma a teatro sì. Ci ho vissuto più a lungo e di più. Mi sento come se sapessi cosa ho da offrire in teatro come regista. Ma diventa frustrante nel film, perché non voglio necessariamente lavorare con un regista noto per essere "bravo con gli attori". A volte quella frase mi scoraggia. Preferirei lavorare con un regista che sa come fare un film. 
WD 
Sono d’accordo 
FM 
Non mi importa se hanno rispetto per l'arte della recitazione, mi piace, va bene, significa che mi lasceranno fare il mio lavoro. Ma preferirei di gran lunga che sapessero quale obiettivo usare, come lo modificheranno, averlo nella loro testa. Perché allora, tutto ciò che ci porto, che venga tagliato o meno, potrà essere utilizzato. 
WD 
So esattamente cosa intendi. Ben detto. 
FM 
A teatro, mi piace fare commedie nuove, esplorare nuovi linguaggi e nuovi stili che non sono ancora stati fissati. Mi piace fare anche teatro classico. La prima volta che ho fatto Three Sisters, era con Liviu Ciulei che all'epoca aveva 65 anni. Non aveva ancora fatto quella commedia, anche se aveva fatto molti altri Cechov, perché voleva aspettare, essere abbastanza grande. La seconda volta che l'ho fatto è stato con Emily Mann quando aveva circa 30 anni. Era una produzione completamente diversa. Aveva bisogno di farlo, ma per un motivo diverso. Avevano entrambi motivazioni profonde. E quindi, qualunque sia il viaggio che ho intrapreso come attore, comunque ho contribuito alla loro produzione, è stato per una buona ragione. Invece, ero in un'altra commedia che era molto difficile da fare, e un personaggio ostico da creare, e alla fine, mi sono reso conto che la produzione non aveva avuto successo perché il regista non aveva una autentica motivazione. 
WD 
Cosa stai pensando di fare dopo? 
FM 
Sto aspettando di essere sorpresa. (…)

martedì 6 aprile 2021

Viaggio nell’inconscio coloniale italiano. Fino al 7 aprile, sulla piattaforma Adessocinema "All’aldilà di qua" di Alessandra Cianelli e Opher Thomson.

di Roberto Silvestri
Le canzoni vincenti erano “Guaglione”, “Vurria”, “Marechiaro Marechiaro”… L’orchestra era diretta da Cinico Angelini o da Giuseppe Anepeta. Tra gli interpreti cult, indimenticabili e imbattibili, Aurelio Fierro, Sergio Bruni, Mario Abbate, Nunzio Gallo, Maria Paris, Giacomo Rondinella… Erano i protagonisti, negli anni dal 1952 al 1963, di memorabili Festival della Canzone Napoletana che venivano teletrasmessi in diretta dalla Rai, su palchi inondati di fiori, come a Sanremo. Nunzio Filogamo, Nino Taranto e Mike Bongiorno, i presentatori, ci salutavano dal teatro Mediterraneo e così tutti scoprimmo dietro quelle melodie orecchiabili e quei testi enigmatici (senza sottotitoli) la “Mostra d’Oltre Mare”, un complesso fieristico di 720 mila metri quadri nel quartiere (sventrato) di Fuorigrotta, ma dal nome piuttosto oscuro se non sinistro. Era stato progettato infatti nel 1938 da Marcello Canino, esponente del razionalismo italiano meno esibizionista e monumentale (rispetto all’Eur di Piacentini) ed era stato inaugurato il 9 maggio 1940 dal re Vittorio Emanuele III, in occasione della I mostra triennale delle Terre italiane d’Oltremare. Tema? "Celebrare la gloria dell'impero italiano nell'Africa del nord e nel Mediterraneo". Intento? Fare di Napoli la riverita e floreale capitale dell’Italia dell’al di là. Come? Mentre Mussolini (che mai andò a Adis Abeba, per fifa) veniva esportato in Libia, in quell’“altrove selvaggio”, circa 60 beduini venivano importate dalle colonie perché animassero lo “zoo umano” della Triennale mostrando agli italiani la propria “tipica e inguaribile arretratezza”. Insieme a loro, il regime fece importare migliaia di specie vegetali da trapiantare esoticamente (palme, tamarindi, papiri), animali da esibire orientalisticamente (fenicotteri, scimmie, leoni, elefanti) e qualsiasi oggetto fosse utile a simulare l’ambiente naturale in cui vivevano i “nuovi sudditi”. Un parco a tema. Un mese dopo l’anteprima di un dramma di Metastasio allestito da Silvio D’Amico, il complesso venne chiuso per la guerra e poi distrutto dai bombardamenti alleati nel 1943. Nel 1948 dopo il breve triennio felice di epurazioni (ahimé fallite) e di rieducazioni (impossibili), si ricostruì e in parte se ne riattivarono alcuni edifici, anche dopo il terremoto del 1980. Dal punto di vista ideologico l’attenzione si spostò sull’esibizione del “lavoro degli italiani all’estero” fingendo di dimenticare il passato mentre Niccolò Carosio, dagli stadi, insegnava a chiamare Eusebio “negretto”. Ma molte zone fieristiche oggi giacciono in stato di abbandono, tra muri crollati, calcinacci e sterpaglie. E la “vitalità delle macerie” è proprio la sostanza conoscitiva di un piccolo grande film dalla formulazione di immagine sorprendentemente innovativa. Il 10 maggio 2014 l’Ente Fiera mise 62 ettari a disposizione di associazioni e aziende tramite bando di concorso per rilanciare la fiera Monumentale (e così alcuni ricercatori come Ian Chambers misero mano all’archivio) trovando conferme (celate) a tutto quel che in questi decenni, inascoltati, gli studiosi Del Boca, La Banca, Rochat, Triulzi scrivevano mettendo in discussione un presunto colonialismo italiano “dal volto buono”. All’aldilà di qua, realizzato dall’artista, esploratrice e cineasta Alessandra Cianelli con lo scrittore, fotografo e regista Opher Thomson è un viaggio sorprendente e fantastico, nella mente e nel paesaggio (tra landscape e mindscape ci sono legami estetici e poetici intrecciati, come scrive l’antropologa Marina Brancato) nella storia di questo monumento mal ripulito e nel nostro immaginario, istituzionalmente razzista (la Bossi-Fini cos’è?), che ha lo scopo di ricostruire e reinterpretare il nostro “inconscio coloniale” senza muoverci troppo da casa. Anche perché, dato il covid 19 ammazza-vecchietti, non ci si sposta più così facilmente. E le nostre esperienze schermiche stanno diventando sempre meno collettive. Vediamo i film al computer o in tv o sul cellulare, da soli o in famiglia. Come nelle gallerie d’arte trattiamo ormai ogni opera come se fosse un’installazione a cui dare finish “privato”. E questo film pare proprio rendersi conto di questa mutazione, nella narrazione e nella ricezione. A molti della mia età verrà in mente, vedendo il film, il proprio incontro familiare con lo zio o il bisnonno di paese che ha edificato in casa il suo piccolo museo coloniale fatto di foto con le “negrette nude”, la lunga pelle del serpente srotolata in corridoio, lance e maschere infide appese alla parete e misteriosi nomi e frasi rimaste insondate: Adua, «È successo un Ambaradàn». «Che fine ha fatto la Regina Taitù?». Qual è la lingua di Menelik? In streaming on demand fino a domani sulla piattaforma Adessocinema, vi consiglio dunque di vedere questo cortometraggio anticolonialista già selezionato al Torino Film Festival 2020, che fa parte di un più approfondito progetto di ricerca sulle nostre disastrose imprese coloniali, iniziato nel 2008, che si intitola Paese delle Terre d’Oltremare. Stanno collaborando al progetto artisti, teorici, ricercatori, autori e filosofi. E le prime due uscite sono state nel 2017, a Berlino, con una performance radio-live presentata a Documenta 14 Radio, e nel 2018, con una video installazione già parte della mostra “War is Over”, al Museo MAR di Ravenna. Prodotto da Dormire Fondazione, il film ne è il capitolo più recente ed è stato realizzato anche per festeggiare gli 80 anni di quel gigantesco progetto fascista destinato alla crescita e allo sviluppo del sud. Si parte però da una piccola scoperta autobiografica. Da emozioni e ricordi forti, ma squisitamente personali. La co-regista Alessandra Cianelli racconta, in prima personal singolare femminile, in voce off, una storia di famiglia. E’ sulle tracce del nonno materno, Saverio Rossi, partito dall’Irpinia, arruolato nella fanteria reale, salpato da Napoli per la “quarta sponda del Mediterraneo” e scomparso in Cirenaica nel 1940, forse combattendo, forse disperso nei campi di prigionia inglesi del mondo, di cui restano solo due lettere e qualche cartolina che Alessandra ha ritrovato. Il dolore privato di quel “vuoto” diventa metafora di un “vuoto organizzato” che sospende la riflessione critica sul nostro passato, il processo al razzismo istituzionale che tutela monumenti abietti e protegge orrori storicamente provati. Lo stato ha bloccato ogni finanziamento pubblico a film che ‘rimestassero’ su quel passato e mettessero in discussione la retorica patriottica e l’onore dell’esercito, della marina e dell’aviazione patria, purificati miracolosamente da ogni contaminazione fascista. “E’ la democrazia, bellezza!” E ha attentamente tenuto ai margini della distribuzione e dell’esercizio ogni opera di controinformazione. Il caso della censura a Omar Moukhtar il leone del deserto, il rigorosissimo kolossal di Akkad con Anthony Quinn sulla repressione e impiccagione del leader della resistenza libica a Graziani, è emblematico. Per esempio chi ha visto Inconscio italiano di Luca Guadagnino? Neanche il “governo più di sinistra della storia italiana” ha mai preteso in prima serata su Rai1 i film di Gianikian e Ricci Lucchi sull’iprite sparsa in Etiopia. Ma questo film è stranamente “fermo in moto”. Il viaggio è in tempi e in spazi infiniti. Cioè non si parte per la Libia in cerca di una verità da reportage. Ma si resta in Italia, a Napoli. Cosa pensava il nonno? E’ partito convinto? Obbligato? Alienato? Questo il tema della meditazione in voice over. Si sentono canzoni d’epoca, spezzoni di una cronaca audiovisiva già preventivamente stipata dal regime in “formine” ad hoc, per esaltare bambinescamente lo slancio dei “nuovi legionari che portavano la civiltà al mondo barbaro”. Ma alle quali Cianelli e Thompson ridanno vita e vera forma adulta. Nessuna critica o perplessità o ironia era consentita al cinegiornali Luce. E nessun altro filmò. E chissà quanto materiale ortodosso ma comunque scomodo nei decenni è andato distrutto scientemente. La rimozione del passato razzista, imperiale e coloniale è stata scientifica. Il protagonista del film diventa dunque la grande struttura della Mostra delle Terre d’Oltremare di Napoli, il polo fieristico che, dal porto verso il Mediterraneo coloniale, doveva rievocare il mistero esotico di quei mondi da scoprire. E qui ci si incanta davanti a piani fissi e ipnotici dei muri che diventano sempre più inquietanti. Ci si fa imprigionare dagli spazi vuoti, urbanisticamente e architettonicamente sopravvissuti e anacronistici, della metafisica concezione fascista del mondo che della nuda vita se ne fregava. Facciate, scalinate, ex teatri di un razionalismo comunque prepotente anche se non monumentale, preda della vendetta vegetale. Ci sentiamo come quel sudafricano a Roma, all’epoca dell’apartheid, che gironzola per il Foro italico come in preda ad allucinazione. Un’esperienza di teletrasporto atomico alla The Fly di Cronenberg: si sente riportato a casa, a glorificare la stessa estetica razzista, quei nudi atleti ariani dello stadio dei marmi e le geometrie disumane, di spazialità vettista, che invece di omaggiare il Dux (grazie alla colonna tuttora fallicamente esposta sul lungotevere) si prostrano davanti alle statue di Paul Kruger o ai monumenti afrikaner in onore dei riveriti leader post-hitleriani (perché anticomunisti) Daniel François Malan e Johannes Gerhardus Strijdom. Un cineasta anti apartheid di allora, Stefano J. Moni ne fece un bellissimo documentario che anticipava proprio questo tipo di geografia emozionale, di esperienza tattile con la storia. Utilizzando quel procedimento da detective del paesaggio, che sa far parlare anche i muri, utilizzato dalla cineasta Lee Anne Schmitt in Purge this land, per spiegare agli americani del nord i loro crimini razzisti conla stessa forza emotiva di John Brown. Anche questi muri vibrano di suoni, odori, profumi, orrori. «Intrecciando echi e suoni, oggetti e tracce, dotati del potere favoloso di aprire mondi nascosti, scomparsi o mai esistiti, ci siamo spesso persi nella nostra antichissima, amatissima città, scoprendo pezzi segreti di aldilà nell’aldiqua. Abbiamo percorso migliaia di chilometri su e giù, tra il tempo che fu (forse) e il tempo che (forse) sarà, alle radici del nostro sé coloniale», racconta Cianelli. Dura meno di mezz’ora ma arriva just in time All’aldilà di qua,anche perché il nostro presidente del consiglio dei ministri proprio oggi è a Tripoli, prima sua visita ufficiale all’estero, per ritessere rapporti politici e economici deteriorati dalla guerra civile con una Libia che sembrerebbe quasi riappacificata e l’ex primo ministro ha appena replicato con vigore su La Stampa a un editoriale del suo direttore molto critico sulle mosse degli ex governi gialloverde e giallorosso rispetto a Tripoli e agli Emirati Arabi Uniti e, secondo Conte, pieno di falsità, sorprendenti per un giornale così autorevole. L’Occidente è molto preoccupato – vedi colpo di stato in Giordania - di perdere la sua influenza su indispensabili “alleati strategici e energetici”, anche se continua a rimuovere il più possibile il suo passato imbarazzante, non sempre basato sull’attuale reciproco rispetto. Neanche Mattarella chiede scusa. Dopo il rifiuto del governo Zanardelli, oltre un secolo fa, fu il governo Crispi ad aprire l’Italia all’avventura militare coloniale, alimentando un razzismo “imperialista” diventato oggi quasi automatico e endemico, sulla quale poi il generale fascista Graziani, sia in Libia che in Etiopia, scrisse le pagine più nere e criminali, fatte di lager, rapine, repressioni, bombardamenti proibiti e rappresaglie che per esempio dimezzarono a Adis Abeba metà della stessa chiesa cristiana etiope. Tra il silenzio dei mass media, degli storici ufficiali e della scuola. Ah, dimenticavo. Si costruirono strade e chiese e scuole e bei quartieri eleganti, per gli italiani dell’altra riva e per spedire più in fretta possibile in madre patria tutto il maltolto. Come la stele di Axun, che almeno ricordava qualcosa del passato. E che ora non c’è più.