martedì 6 aprile 2021

Viaggio nell’inconscio coloniale italiano. Fino al 7 aprile, sulla piattaforma Adessocinema "All’aldilà di qua" di Alessandra Cianelli e Opher Thomson.

di Roberto Silvestri
Le canzoni vincenti erano “Guaglione”, “Vurria”, “Marechiaro Marechiaro”… L’orchestra era diretta da Cinico Angelini o da Giuseppe Anepeta. Tra gli interpreti cult, indimenticabili e imbattibili, Aurelio Fierro, Sergio Bruni, Mario Abbate, Nunzio Gallo, Maria Paris, Giacomo Rondinella… Erano i protagonisti, negli anni dal 1952 al 1963, di memorabili Festival della Canzone Napoletana che venivano teletrasmessi in diretta dalla Rai, su palchi inondati di fiori, come a Sanremo. Nunzio Filogamo, Nino Taranto e Mike Bongiorno, i presentatori, ci salutavano dal teatro Mediterraneo e così tutti scoprimmo dietro quelle melodie orecchiabili e quei testi enigmatici (senza sottotitoli) la “Mostra d’Oltre Mare”, un complesso fieristico di 720 mila metri quadri nel quartiere (sventrato) di Fuorigrotta, ma dal nome piuttosto oscuro se non sinistro. Era stato progettato infatti nel 1938 da Marcello Canino, esponente del razionalismo italiano meno esibizionista e monumentale (rispetto all’Eur di Piacentini) ed era stato inaugurato il 9 maggio 1940 dal re Vittorio Emanuele III, in occasione della I mostra triennale delle Terre italiane d’Oltremare. Tema? "Celebrare la gloria dell'impero italiano nell'Africa del nord e nel Mediterraneo". Intento? Fare di Napoli la riverita e floreale capitale dell’Italia dell’al di là. Come? Mentre Mussolini (che mai andò a Adis Abeba, per fifa) veniva esportato in Libia, in quell’“altrove selvaggio”, circa 60 beduini venivano importate dalle colonie perché animassero lo “zoo umano” della Triennale mostrando agli italiani la propria “tipica e inguaribile arretratezza”. Insieme a loro, il regime fece importare migliaia di specie vegetali da trapiantare esoticamente (palme, tamarindi, papiri), animali da esibire orientalisticamente (fenicotteri, scimmie, leoni, elefanti) e qualsiasi oggetto fosse utile a simulare l’ambiente naturale in cui vivevano i “nuovi sudditi”. Un parco a tema. Un mese dopo l’anteprima di un dramma di Metastasio allestito da Silvio D’Amico, il complesso venne chiuso per la guerra e poi distrutto dai bombardamenti alleati nel 1943. Nel 1948 dopo il breve triennio felice di epurazioni (ahimé fallite) e di rieducazioni (impossibili), si ricostruì e in parte se ne riattivarono alcuni edifici, anche dopo il terremoto del 1980. Dal punto di vista ideologico l’attenzione si spostò sull’esibizione del “lavoro degli italiani all’estero” fingendo di dimenticare il passato mentre Niccolò Carosio, dagli stadi, insegnava a chiamare Eusebio “negretto”. Ma molte zone fieristiche oggi giacciono in stato di abbandono, tra muri crollati, calcinacci e sterpaglie. E la “vitalità delle macerie” è proprio la sostanza conoscitiva di un piccolo grande film dalla formulazione di immagine sorprendentemente innovativa. Il 10 maggio 2014 l’Ente Fiera mise 62 ettari a disposizione di associazioni e aziende tramite bando di concorso per rilanciare la fiera Monumentale (e così alcuni ricercatori come Ian Chambers misero mano all’archivio) trovando conferme (celate) a tutto quel che in questi decenni, inascoltati, gli studiosi Del Boca, La Banca, Rochat, Triulzi scrivevano mettendo in discussione un presunto colonialismo italiano “dal volto buono”. All’aldilà di qua, realizzato dall’artista, esploratrice e cineasta Alessandra Cianelli con lo scrittore, fotografo e regista Opher Thomson è un viaggio sorprendente e fantastico, nella mente e nel paesaggio (tra landscape e mindscape ci sono legami estetici e poetici intrecciati, come scrive l’antropologa Marina Brancato) nella storia di questo monumento mal ripulito e nel nostro immaginario, istituzionalmente razzista (la Bossi-Fini cos’è?), che ha lo scopo di ricostruire e reinterpretare il nostro “inconscio coloniale” senza muoverci troppo da casa. Anche perché, dato il covid 19 ammazza-vecchietti, non ci si sposta più così facilmente. E le nostre esperienze schermiche stanno diventando sempre meno collettive. Vediamo i film al computer o in tv o sul cellulare, da soli o in famiglia. Come nelle gallerie d’arte trattiamo ormai ogni opera come se fosse un’installazione a cui dare finish “privato”. E questo film pare proprio rendersi conto di questa mutazione, nella narrazione e nella ricezione. A molti della mia età verrà in mente, vedendo il film, il proprio incontro familiare con lo zio o il bisnonno di paese che ha edificato in casa il suo piccolo museo coloniale fatto di foto con le “negrette nude”, la lunga pelle del serpente srotolata in corridoio, lance e maschere infide appese alla parete e misteriosi nomi e frasi rimaste insondate: Adua, «È successo un Ambaradàn». «Che fine ha fatto la Regina Taitù?». Qual è la lingua di Menelik? In streaming on demand fino a domani sulla piattaforma Adessocinema, vi consiglio dunque di vedere questo cortometraggio anticolonialista già selezionato al Torino Film Festival 2020, che fa parte di un più approfondito progetto di ricerca sulle nostre disastrose imprese coloniali, iniziato nel 2008, che si intitola Paese delle Terre d’Oltremare. Stanno collaborando al progetto artisti, teorici, ricercatori, autori e filosofi. E le prime due uscite sono state nel 2017, a Berlino, con una performance radio-live presentata a Documenta 14 Radio, e nel 2018, con una video installazione già parte della mostra “War is Over”, al Museo MAR di Ravenna. Prodotto da Dormire Fondazione, il film ne è il capitolo più recente ed è stato realizzato anche per festeggiare gli 80 anni di quel gigantesco progetto fascista destinato alla crescita e allo sviluppo del sud. Si parte però da una piccola scoperta autobiografica. Da emozioni e ricordi forti, ma squisitamente personali. La co-regista Alessandra Cianelli racconta, in prima personal singolare femminile, in voce off, una storia di famiglia. E’ sulle tracce del nonno materno, Saverio Rossi, partito dall’Irpinia, arruolato nella fanteria reale, salpato da Napoli per la “quarta sponda del Mediterraneo” e scomparso in Cirenaica nel 1940, forse combattendo, forse disperso nei campi di prigionia inglesi del mondo, di cui restano solo due lettere e qualche cartolina che Alessandra ha ritrovato. Il dolore privato di quel “vuoto” diventa metafora di un “vuoto organizzato” che sospende la riflessione critica sul nostro passato, il processo al razzismo istituzionale che tutela monumenti abietti e protegge orrori storicamente provati. Lo stato ha bloccato ogni finanziamento pubblico a film che ‘rimestassero’ su quel passato e mettessero in discussione la retorica patriottica e l’onore dell’esercito, della marina e dell’aviazione patria, purificati miracolosamente da ogni contaminazione fascista. “E’ la democrazia, bellezza!” E ha attentamente tenuto ai margini della distribuzione e dell’esercizio ogni opera di controinformazione. Il caso della censura a Omar Moukhtar il leone del deserto, il rigorosissimo kolossal di Akkad con Anthony Quinn sulla repressione e impiccagione del leader della resistenza libica a Graziani, è emblematico. Per esempio chi ha visto Inconscio italiano di Luca Guadagnino? Neanche il “governo più di sinistra della storia italiana” ha mai preteso in prima serata su Rai1 i film di Gianikian e Ricci Lucchi sull’iprite sparsa in Etiopia. Ma questo film è stranamente “fermo in moto”. Il viaggio è in tempi e in spazi infiniti. Cioè non si parte per la Libia in cerca di una verità da reportage. Ma si resta in Italia, a Napoli. Cosa pensava il nonno? E’ partito convinto? Obbligato? Alienato? Questo il tema della meditazione in voice over. Si sentono canzoni d’epoca, spezzoni di una cronaca audiovisiva già preventivamente stipata dal regime in “formine” ad hoc, per esaltare bambinescamente lo slancio dei “nuovi legionari che portavano la civiltà al mondo barbaro”. Ma alle quali Cianelli e Thompson ridanno vita e vera forma adulta. Nessuna critica o perplessità o ironia era consentita al cinegiornali Luce. E nessun altro filmò. E chissà quanto materiale ortodosso ma comunque scomodo nei decenni è andato distrutto scientemente. La rimozione del passato razzista, imperiale e coloniale è stata scientifica. Il protagonista del film diventa dunque la grande struttura della Mostra delle Terre d’Oltremare di Napoli, il polo fieristico che, dal porto verso il Mediterraneo coloniale, doveva rievocare il mistero esotico di quei mondi da scoprire. E qui ci si incanta davanti a piani fissi e ipnotici dei muri che diventano sempre più inquietanti. Ci si fa imprigionare dagli spazi vuoti, urbanisticamente e architettonicamente sopravvissuti e anacronistici, della metafisica concezione fascista del mondo che della nuda vita se ne fregava. Facciate, scalinate, ex teatri di un razionalismo comunque prepotente anche se non monumentale, preda della vendetta vegetale. Ci sentiamo come quel sudafricano a Roma, all’epoca dell’apartheid, che gironzola per il Foro italico come in preda ad allucinazione. Un’esperienza di teletrasporto atomico alla The Fly di Cronenberg: si sente riportato a casa, a glorificare la stessa estetica razzista, quei nudi atleti ariani dello stadio dei marmi e le geometrie disumane, di spazialità vettista, che invece di omaggiare il Dux (grazie alla colonna tuttora fallicamente esposta sul lungotevere) si prostrano davanti alle statue di Paul Kruger o ai monumenti afrikaner in onore dei riveriti leader post-hitleriani (perché anticomunisti) Daniel François Malan e Johannes Gerhardus Strijdom. Un cineasta anti apartheid di allora, Stefano J. Moni ne fece un bellissimo documentario che anticipava proprio questo tipo di geografia emozionale, di esperienza tattile con la storia. Utilizzando quel procedimento da detective del paesaggio, che sa far parlare anche i muri, utilizzato dalla cineasta Lee Anne Schmitt in Purge this land, per spiegare agli americani del nord i loro crimini razzisti conla stessa forza emotiva di John Brown. Anche questi muri vibrano di suoni, odori, profumi, orrori. «Intrecciando echi e suoni, oggetti e tracce, dotati del potere favoloso di aprire mondi nascosti, scomparsi o mai esistiti, ci siamo spesso persi nella nostra antichissima, amatissima città, scoprendo pezzi segreti di aldilà nell’aldiqua. Abbiamo percorso migliaia di chilometri su e giù, tra il tempo che fu (forse) e il tempo che (forse) sarà, alle radici del nostro sé coloniale», racconta Cianelli. Dura meno di mezz’ora ma arriva just in time All’aldilà di qua,anche perché il nostro presidente del consiglio dei ministri proprio oggi è a Tripoli, prima sua visita ufficiale all’estero, per ritessere rapporti politici e economici deteriorati dalla guerra civile con una Libia che sembrerebbe quasi riappacificata e l’ex primo ministro ha appena replicato con vigore su La Stampa a un editoriale del suo direttore molto critico sulle mosse degli ex governi gialloverde e giallorosso rispetto a Tripoli e agli Emirati Arabi Uniti e, secondo Conte, pieno di falsità, sorprendenti per un giornale così autorevole. L’Occidente è molto preoccupato – vedi colpo di stato in Giordania - di perdere la sua influenza su indispensabili “alleati strategici e energetici”, anche se continua a rimuovere il più possibile il suo passato imbarazzante, non sempre basato sull’attuale reciproco rispetto. Neanche Mattarella chiede scusa. Dopo il rifiuto del governo Zanardelli, oltre un secolo fa, fu il governo Crispi ad aprire l’Italia all’avventura militare coloniale, alimentando un razzismo “imperialista” diventato oggi quasi automatico e endemico, sulla quale poi il generale fascista Graziani, sia in Libia che in Etiopia, scrisse le pagine più nere e criminali, fatte di lager, rapine, repressioni, bombardamenti proibiti e rappresaglie che per esempio dimezzarono a Adis Abeba metà della stessa chiesa cristiana etiope. Tra il silenzio dei mass media, degli storici ufficiali e della scuola. Ah, dimenticavo. Si costruirono strade e chiese e scuole e bei quartieri eleganti, per gli italiani dell’altra riva e per spedire più in fretta possibile in madre patria tutto il maltolto. Come la stele di Axun, che almeno ricordava qualcosa del passato. E che ora non c’è più.

1 commento:

  1. Film bellissimo, intenso, dotato di una leggiadra profondità e fonte di ispirazione di riflessioni più ampie sul tema della memoria e dei suoi nessi con un passato rimosso e tuttora tacitato. Molto bella la recensione, grazie.

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