martedì 7 luglio 2015

"Per soli uomini", l'histoire d'eau di Elisabetta Sgarbi


"Per soli uomini" di Elisabetta Sgarbi


Mariuccia Ciotta




Per soli uomini o per uomini soli? L'ambiguità si insinua nella sensualità dei corpi e del fiume che scorre, si ferma prima di cadere in mare e apre una valle nel delta del Po, una specie di Shangri-La dove il tempo è prigioniero dentro vasche di liquido opaco, case come relitti galleggianti e il silenzio dei pesci. Il film è un'incursione clandestina nel mondo di tre allevatori ittici sorpresi dallo sguardo di Elisabetta Sgarbi, presenza “proibita” nell'oasi maschile, regista e autrice del soggetto insieme a Eugenio Lio (produzione Betty Wrong e Rai cinema).
I tre uomini, Gabriele, Claudio e Giorgio detto il “Bertinotti”, sentinelle del microcosmo Ca' Pisani, si scambiano parole in codice, allusioni in gergo e battute ironiche sul “fuori”, lo spazio dei comuni mortali che non sanno cosa succede di giorno e di notte nel labirinto popolato da “mostri” guizzanti di cui sono gli dei protettori. Il luogo è off-limits, una specie di Grotta di Chauvet con i suoi dipinti preistorici filmati da Werner Herzog, sito prezioso di una realtà evanescente. Non a caso il delta del Po è stato proclamato patrimonio dell'Unesco, e proprio mentre il film usciva nelle sale, distribuito da Istituto Luce Cinecittà, in questi giorni d'estate, dopo il passaggio al Festival di Roma 2014 (e in attesa del dvd). 
Gabriele Levada
G

Sinfonia di natura e nostalgia, Per soli uomini può dirsi un documentario poetico su musiche solenni di Franco Battiato, film abbinato a Il pesce siluro è innocente sotto il titolo Due volte Delta, al quale seguirà Il pesce rosso dov'è? a chiudere il trittico, omaggio di Elisabetta Sgarbi al fiume amato e ricorrente nelle sue opere dalla vocazione pittorica. Ma nell'incanto di questa zona a parte e dei suoi allevatori solitari si muove quel cinema che fa convergere il reale con il suo doppio fantasmatico e rompe i confini tra documento e narrazione. Osservare diventa allora un esercizio di forza nell'avvicinarsi al soggetto per smascherarne la sostanza politica, come accade nei lavori a distanza ravvicinata di Gianfranco Rosi e nell'ultimo ibrido di Roberto Minervini, Louisiana, presentato a Cannes 2015, amorevole “fotografia” di una violenta comunità di marginali del Texas suprematista bianco. 


L'arte danzante dei tre “pescatori” in bilico sui bordi delle piscine coperte, il talento nel sentire il vento e il sapore dell'acqua, troppo fredda, troppo calda, e la conversazione con le creature del Po - avete mangiato abbastanza? - si muta in una titanica lotta tra vita e morte comprensiva di uomini, pesci e il territorio circostante che tocca il delta di tutti i fiumi. Cormorani e gabbiani non sono più decorazioni nel cielo ma feroci predatori pronti a lanciarsi sul popolo squamoso, difeso dai guardiani coraggiosi ma destinato a galleggiare, riverso in superficie, al momento della pesca.

Gabriele, il leader, torreggia, divo da cinema peplum, e guida la brigata in ambienti incrostati di fango, ruggine, reti disfatte, congegni per impacchettare conchiglie in uno sforzo muscolare al limite. Il lavoro, ecco, si vede e macina fotogrammi neanche fossimo alla catena di montaggio di Tempi moderni
“Duro lavoro sul fiume”, direbbe divertito Manoel de Oliveira quando un giornale gli storpiò il titolo, Douro, lavoro fluviale, e dal 1931 a oggi l'eco rimane nel corpo a corpo con la fabbrica liquida. Gli uomini soli si esibiscono nella meraviglia del non-spettacolo, è quel che fanno davvero nella loro valle nascosta. Vertigine, sensazione di assistere a un rituale segreto. E' la fatica di misurarsi con l'aggressione all'equilibrio instabile di un luogo anche mentale che si vorrebbe residuale mentre è creativo e immaginifico. Il Po segno di libertà e di invenzioni, innocente come il pesce siluro, meno vorace e mortale dei veleni riversati in acqua, “le ferite vengono dagli scarichi industriali” dice Sgarbi, direttore editoriale Bompiani e creatrice della Milanesiana (22 giugno -16 luglio), festival multidisciplinare fuori canone, così come questo “film di avventura” e di resistenza. 
Elisabetta Sgarbi



sabato 4 luglio 2015

Sergio Sollima, il più grande tra i nostri cineasti "sconosciuti"


Sergio Sollima

di Roberto Silvestri

Il critico francese Laurent Aknin (autore del fondamentale Cinema bis – 50 anni di cinema di quartiere) lo collocava “tra i cineasti italiani più importanti della sua epoca”, nonostante mezzo secolo di filmografia relativamente scarna (12 lungometraggi, un corto e molti film tv tra il 1962 e il 1998) e una pensione (certo involontariamente)  “anticipata”. Aggiungerei “di importanza non solo italiana”. E importanza non sempre fa rima con celebrità.

Sergio Sollima

Infatti il poliziesco Revolver, del 1973, coproduzione internazionale con Oliver Reed, Agostina Belli, Fabio Testi e Paola Pitagora (in Francia La Poursuite implacable), con l’uomo della legge che si rivela ancor più sordido e violento dei gangster, anticipa certe elucubrazioni visive a venire di Clint Eastwood sul lato dark dell’Ordine e affascina la nuova generazione dei cineasti di tutto il mondo, ancora impegnati nella contestazione generale mondiale

E la scena della morte di Diane Kruger in Ingloriuos Basterds, confesserà Quentin Tarantino a Marco Giusti, è la citazione del finale di Requiem per un agente segreto (1966), quando Stewart Granger uccide Daniela Bianchi. Non a caso nei titoli di coda non manca il ringraziamento al nostro maestro del cinema d’azione venuto dalla critica per la mirabile sequenza di questo zerozerosette capovolto. In Francia il film lo potete rintracciare sulle bancarelle con il titolo Un Certain Mr. Bongo… 

Persino un cineasta olandese, Martin Koolhoven, nel 2005 si confesserà suo discepolo, sottolineandolo nei credits di una commedia sentimentale, Het schnitzelparadijs. Charles Bronson, Telly Savalas, Lee Van Clift, Kabir Bedhi, Philippe Leroy, John Ireland, Donald O’Brien, Keir Dullea, Maurice Ronet, Micheline Presle… quanti gli attori e le star mondiali che hanno lavorato con lui.  

Molto indicativo già il suo pseudonimo.
Simon Sterling, americano, come si usava allora a Cinecittà. Nome raffinato, transculturale, più che sessantottino. Contiene, quell’alias, tutte le lettere del suo nome, oltretutto, e le prime tre del cognome. E poi, ben applicato alla triade dei suoi western atipici e radicali realizzati tra il 1966 e il 1968, La resa dei conti, Faccia a faccia e Corri, uomo, corri, è il punto di congiunzione tra Michel Simon, l’attore francese più oltranzista e decomposto dell’epoca classica, e (per assonanza) Rod Serling, lo scrittore e produttore tv di Ithaca (New York State) che avrebbe anticipato tutto il cinema del futuro, e anche la filosofia a venire. Ai confini della realtà” (cioè Twilight Zone) non è forse l’equivalente pop del celebre passo di Gilles Deleuze “si scrive sempre nella zona di confine tra ciò che si conosce e ciò che non si sa ancora”?

I prediletti film francesi del realismo sociale anni trenta, antidoto immaginario dei giovani turchi allevati al cinema durante il fascismo (la generazione frondista di Pietrangeli, De Santis, Visconti, Monicelli, Puccini, Mida…) già avevano insegnato ad aprire e mai a chiudere gli spazi pulsionali e ludici. Erano la bussola “sovversiva” per esplorare, da ottimisti e da pessimisti contemporaneamente, le zone più oscure della storia e dell’inconscio collettivo. Bastava, da antichista com’era Simon Sterling, ricucirla ad antiche tradizioni pagane, greche e romane, repubblicane e imperiali. Ed ecco l’erotismo, esplicito e nascosto, declinato a 360 gradi, dei peplum scritti per Campogalliani, Parolini, Paolella e Nick Nostro (Ursus, Ercole, Maciste, Goliah, i gladiatori) e l’umorismo estremo che misura l’oscillazioni del potere simbolico tra i sessi (il suo sketch in L’amore difficile si intitola Le donne ed è scritto da Ercole Patti); il sistema motorio snodabile e osceno, liberato da standard, tabù e format (il rock dei musicarelli, I teddy boys della canzone, per esempio), scaturigine della imminente rivolta totale; e la violenza, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala, al centro degli 007 (il dittico a budget zero, dell’agente segreto 3S3 non sempre eroico, con Giorgio Ardisson, musiche di Umiliani), dei suoi celebrati western e del ciclo d’avventure esotiche di Sandokan, adeguata a quella, incontenibile, dei tre mondo insorgenti contro qualcosa di diverso e di ancora più mostruoso - Spectre come globalizzazione - del bipolarismo est-ovest…

Colto, mai sapienziale, perché maneggiava da esperto la cultura di massa nelle sue mille diramazioni, anche parodistiche, senza darsi tante arie, trasgressivo (e modesto), Sergio Sollima, con l’accento sulla o, è stato uno dei tre grandi Sergio del cinema italiano, assieme a Corbucci e Leone. C’è il cinema d’autore e c’è il cinema di genere. E tutti ad azzuffarsi, come sei snob, come sei basic…Ma poi c’è qualcosa di travolgente, il grande cinema, come dice Alberto Abruzzese pensando al ciclo Bond, al Batman di Tim Burton, a King Kong, a Billy Wilder, l’Ululato di Joe Dante, o a Orson Welles... Che è esperienza non letteraria, non filosofica, non “liceale”, ma viscerale, da baraccone mutante ovidiano, da trasmutazioni sensorie. E anche noi abbiamo avuto la nostra grande cine-triplete anti-umanista. 

Tomas Milian
Sergio Sollima non era speciale perché veniva, come Umberto Lenzi, dal Centro Sperimentale (allora di alto livello), di cui racconterà nel televisivo I ragazzi di celluloide (1981-1984) riti e mito; o perché nel 1947 l’esordiente Luigi Squarzina diresse un suo dramma teatrale, L’uomo e il fucile, con Rossella Falk e Tino Buazzelli, vincendo il primo premio al festival mondiale della gioventù di Praga.  O per Ercole Patti e per il sodalizio con Franco Solinas (a cominciare da Persiane chiuse) e per quello con Suso Cecchi D’Amico (lo psicothriller Il diavolo nel cervello) e Ennio Morricone… 

Certo ce ne accorgiamo sempre tardi, soprattutto oggi che è morto, a 94 anni (classe 1921) nella sua casa romana. Ma la sua personalità e le sue opere erano inusualmente potenti e diversamente telluriche. Senza inutili esibizionismi. E’ vero che Lotta Continua si invaghì subito di Cuchillo Sanchez e dei suoi coltelli anti-imperialisti, equivalenza tra il peone Tomas Milian e il guerrigliero Che Guevara (Corri uomo corri, in Francia Saludos Hombre!). Finalmente un western dal punto di vista di Zorro, con i cowboys brutti, sporchi e cattivi, vigliacchi e violentatori di bambine, e tagliatori di scalpi come erano davvero. Ma quella generazione di cineasti, che abbiamo amato ma non sfruttato e studiato abbastanza (e alludiamo anche alla linea rossa e rossonera del nostro cinema, Matarazzo, Vivarelli, Questi, Fulci, Bava, Freda…e l’epopea con Paolella e Lenzi nella Romana Film di Fortunato Misiano….) è come se ci avesse tramandato (certo da decifrare e distillare dalle loro immagini) della guerra, del fascismo e dell’antifascismo, informazioni ed emozioni occultate, rabbia e voglia di rivoluzione e orizzonti ludici e collettivi umiliati dalla retorica resistenziale e dalla guerra fredda prima e dalla “convivenza pacifica” poi. 

Insomma vedevamo in quei loro “grandi film” molto di più del comunismo come programma minimo che il Pci e i suoi apparati burocratici e culturali, da Alicata a Renzi, neanche desideravano mettere in scena, figuriamoci realizzare. E il resto del quadro politico-culturale era ancora più miserabile. La lotta di classe c’è in La resa dei conti. Non a caso il soggetto è di Franco Solinas. Il tradimento degli intellettuali borghesi passati dalla parte della classe sfruttata ha un che di retrogusto pasoliniano in Faccia a faccia, che per molti è il suo capolavoro.  Ed è Milian il proletario vero, l'anarchico messicano Beauregard, mentre è l’odiato Gian Maria Volonté a incorporare quanto di malato c’è nei professorini della rivoluzione, che facilmente si trasformano in massacratori fanatici (William Berger in quel film fa invece il gramsciano, simbolo di un’altra legge e di un’altra giustizia).  Si poteva fare anche in Italia un cinema di grande respiro e popolarità, capace di guardare dentro i mali del paese con l’acutezza e l’amarezza di chi ha un rapporto vivo con la cultura. E si poteva esportare questo cinema. Questo ci ha insegnato Sollima. 

Lee Van Clift nel ruolo di Colorado Corbet in La Resa dei Conti (1966), cosceneggiatore Franco Solinas, Sergio Donati e Fernando Morandi

L'amico Sergio Leone (che introdusse Sergio Sollima al produttore Alberto Grimaldi), Sollima, che impose a tutti, anche all’attore cubano, Tomas Milian e i suoi vezzi da Actors Studio come attore di western vissero l'ultimo grande momento del cinema italiano come industria a tutto tondo. Poi, come se fosse arrivato un ordine dall'alto, tutto si è fermato. La forbice si è di nuovo allungata. Film d'arte da una parte, film di genere televisivo locale dall'altra. L'Italia diventava un'ennesima preda di Hollywood. Che nel frattempo aveva ben studiato, inghiottito e metabolizzato il grande cinema italiano di Fulci, Bava, Sollima, Freda, Cottafavi, rifondandosi.

Faccia a faccia
Sergio Sollima lascia due figli, Samantha e Stefano, che ha esordito con un corto folgorante, omaggio sfegatato a Martin Scorsese e poi con «Romanzo criminale» e «Gomorra» è stato il reinventore del seriale televisivo all’italiana non istituzionale.