sabato 22 maggio 2021

Mazara-Madhia: incontri ravvicinati di un certo tipo. Una rassegna di film sull'immigrazione






















Stasera, sabato 22 maggio, alle ore 21 ora italiana, chiusura della manifestazione cinematografica "Dalla Piccola Sicilia de La Goulette alla Casbah di Mazara del Vallo che ha prewsentato un programma di corti, documentari e film di finzione sull'emigrazione italiana in Tunisia e viceversa. Interverrano Abdelkarim Hannachi e Jamel Louini sulla storia dei due quartieri iconici della presenza italianain Tunisia. Introduce Gabriele Montalbano, dell'Università di Bologna. Per collegari http;//www.cinemaaumusee.org

 di Roberto Silvestri


 Cento anni fa gli italiani residenti in Tunisia, protettorato francese fino alla indipendenza del 20 marzo 1956, erano quasi 100 mila, poco più degli stessi francesi colonizzatori, ed erano sparsi in tutte le città (Biserta, Sfax, Sousse…) e regioni del paese. Erano arrivati già alla metà dell’800, in disaccordo con il Risorgimento tradito dai sabaudi che non aveva attuato la Riforma agraria promessa e diviso la terra tra i braccianti, ma iniziava a proteggere la mafia, per il momento baluardo armato del latifondo e dei grandi armatori, fingendo di sgominar briganti. 

Oggi sono rimasti in poche migliaia e solo 900 discendenti dalle famiglie di antica emigrazione. A parte Djerba, dove la comunità italiana si era praticamente arabizzata dal secolo precedente, durante il ventennio fascista non pochi connazionali richiesero (prima del ‘56) la naturalizzazione francese, nonostante l’ostruzionismo e lo scandalo del regime, ansioso di far proseliti razzisti e sempre minacciosamente pronto ad allargare i suoi confini coloniali al di là della frontiera libica (intanto Graziani aggrediva coi gas l’Etiopia e faceva scempio dei cristiani di rito avulso). 

Cultura araba, tradizioni (non solo religiose) italiane, lingua ed educazione democratica francese, costituirono invece una fertile trinità identitaria che, al di fuori dei clichés, facevano dell’islam tunisino un ambiente mediterraneo unico, dove per decenni fu più avanzato che altrove il rapporto tra reciproca tolleranza, rispetto delle differenze, esuberanza, humour e sensualità quotidiana. 

Elsa De Giorgi, agiata e raffinata borghese italiana, da decenni cittadina di Tunisi, ritrae splendidamente questo ricco flusso transculturale in Chichkhan - Gioiello di Famiglia di Mahmoud Ben Mahmoud e Fadel Jaaibi (1991), un lungometraggio sul lento sgretolarsi di quelle antiche armonie culturali. Una statua all’ingresso del suq di Tunisi ne attribuisce molto del merito anche agli insegnamenti anti letteralisti, “femministi” e preilluministi di Ibn Khaldun, il massimo storico, filosofo e “sociologo” maghrebino del XIV secolo (definito il Machiavelli o il Vico o l’Engels dell’altra riva). Se vogliamo proprio trovare radici culturali europee non grette e autopromozionali è lì che dobbiamo indirizzare lo sguardo. Della separazione tra Stato e Chiesa e tra i poteri, esecutivo, legislativo e giudiziario, onde proteggersi da regimi dispotici e dal Califfato, come ci spiega Abdallah Laroui in Islam e modernità, Ibn Khaldoun già scriveva prima di Robespierre in piena civiltà andalusa. Khomeini, Libano, Sarajevo, guerra del Golfo, le bugie criminali contro l’Iraq, torri gemelle, Al Qaeda, Isis, guerra civile in Libia e Siria hanno imbrattato quel “miracoloso equilibrio teorico”, ci hanno drogato di nazionalismo e suprematismo religioso (o europeismo coi paraocchi), hanno nuociuto gravemente alle rivoluzioni araba per la libertà e per la democrazia del 2010 e scodellato in tutto il mondo califfi “democratici” diversamente odiosi. 

Lo leggiamo negli occhi profetici degli intellettuali e scrittori maghrebini Karim Annachi, Assia Djebar e Tahar Ben Jalloun che hanno scelto di vivere in occidente, sconvolti dall’ondata fanatica e fondamentalista di un irriconoscibile Islam venuto dal deserto saudita, in Ritorni di Giovanna Taviani (Italia-Francia, 2006). La differenza, schiacciante, tra coloni francesi e immigrati italiani era ovviamente nella proprietà e nella qualità della terra tunisina, in mani francesi dieci volte di più. Si trattava infatti di una emigrazione italiana povera, proveniente soprattutto dal trapanese, quasi una enclave araba sopravvissuta nel tempo, secolare passaggio privilegiato nord/sud indifferente ai muri istituzionali e ideologici. Almeno fino alla normativa Bossi/Fini del 2002 che disciplina l’immigrazione in senso restrittivo per lucrare, in tutta Europa, su un esercito industriale e agricolo di riserva flessibile, impaurito e a basso costo come risposta alla globalizzazione. 




E’ impressionante, nel bellissimo documentario di esordio di Stefano Savona, non a caso intitolato Un confine di Specchi (2002), non capire più, a un certo punto, se si è a Mazara del Vallo, nella cui casbah terremotata nell’81 vivono non proprio a loro agio 3000 lavoratori e lavoratrici tunisini, o a Madhia, 200 km più a sud, da dove sono arrivati dagli anni 60 del secolo scorso e convivono ancora decine di italiani coi loro amici tunisini che parlano italiano, tifano anche per la nostra nazionale di calcio e per Raffaella Carrà. Sulla vistosa coppola tricolore di Hassin, un abile pescatore di Mazara, che morirà nel naufragio del suo peschereccio, e che inutilmente aveva cercato lavoro e casa a San Benedetto del Tronto, altro porto “tunisino”, leggiamo l’affettuosa e un po’ ironica scritta “Sicilians are Spectacular”. 

A proposito di globalizzazione, nel profetico cortometraggio di Tarek Ben Abdallah e Gianfranco Pannone, Kelibia-Mazara (1998), l’attore Fethi Haddaoui intepreta il ruolo di un capo-macchina tunisino che vive in Sicilia (e parla un magnifico e divertente pidgin araboitaliano) e lavora nell’industria della pesca obbligato a rientrare nell’adoratissima Tunisia stipendiato però dalla stesso armatore italiano un milione di lire invece dei due milioni che intasca in Italia. Se no verrà licenziato. Semplice, no? 

I nostri poverissimi emigranti non vennero considerati per decenni dai tunisini “invasori che mettevano a repentaglio i sacri confini della patria”. Un ministro degli interni di più umana sensibilità ha aperto le frontiere di Tunisi a oltre un milione di profughi libici, ospiti da anni di un paese (più ricco dell’Italia quanto a sensibilità) senza scatenare alcuna escandescenza sciovinista mediatica. I nostri emigranti erano contadini, minatori, artigiani e pescatori, soprattutto siciliani, lavoratori da secoli legati a una cultura dirimpettaia (anche del mare, anche culinaria) comune, non troppo tutelati nel ventennio dalla retorica nazional-fascista, e costretti dalla crisi economica e dal trattato di Versailles (punitivo per i pescatori italiani) a chiedere aiuto all’Africa del nord per sopravvivere. 

Ma erano numerosi anche i profughi politici, intellettuali e militanti che stampavano lì giornali liberal-democratici, comunisti, socialisti e anarchici, da noi proibiti, come l’Italiano di Tunisi, Voce nuova (organo della Lega italiana per i diritti dell’uomo), il Giornale diretto da Giovanni Amendola nel 1939, o il più moderato e borghese La Libertà, animavano le organizzazioni sindacali locali ed erano collegati e protetti (non mancarono minacce, azioni squadriste e omicidi) dal Partito Socialista di Tunisia e dal quotidiano Tunis-Socialiste, il solo organo di stampa locale permesso che condannava il fascismo italiano senza ambiguità. Contro i comunisti tunisini e i nazionalistiindipendentisti del partito Destour, poi Neo Destour, si scatenavano infatti regolarmente dure repressioni, culminate nel 1925 e nel 1934 in processi, carcere e espulsione dei maggiori dirigenti storici. 

Il futuro sindaco di Napoli, Maurizio Valenzi, che racconta la sua vita militante in Italiani dell'Altra Riva di Mahmoud Ben Mahmoud e Mohamed Challouf (1992), fin dal 1934, era tra i leader del perseguitato partito comunista tunisino, che ebbe addirittura un italiano alla segretaria, Michele Rossi (la linea dura del “resident generale” Marcel Peyrouton aveva decapitato la leadership locale) e organizzò anche le dure manifestazioni di protesta contro le visite ufficiali (e provocatorie) del gerarca voltante Italo Balbo, nemico n.1 di Porco Rosso, come ci ha raccontato il cartoonist giapponese Hidao Miyazaki, o l’arrivo nel 1937 delle navi scuola Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo, cariche di marinai squadristi che assassinarono il 20 settembre il ventitreenne Giuseppe Nicelli, segretario della Lega italiana per i diritti dell’uomo. 

A Tunisi la comunità italiana viveva di fronte alla spiaggia di La Goulette, la prima stazione dove si ferma il trenino TGM che dal centro della città porta a La Marsa e antico porto che ha conosciuto le lotte tra flotta spagnola e pirati barbareschi. La madre di Francis Ford Coppola, per esempio, era nata a La Goulette, quartiere popolare e multietnico, grondante ristoranti all’aperto, Torre di Babele cosmopolita dove tutti i figli di Abramo, musulmani, ebrei e cattolici (rispettivamente divisi in corsi, francesi ‘pied noirs’ pescatori siciliani e maltesi) vivevano in accordo, partecipando alle feste religiose di tutti (affollatissima la processione cattolicissima di Santa Felicita Perpetua) senza alcun pregiudizio (fino alla Guerra dei sei giorni del giugno 1967, ovviamente). Peccato che il figlio Francis Ford, a differenza di Lucas a Tataouine e Spielberg a Sidi Bouhlel hanno girato Guerre Stellari e I predatori dell’Arca Perduta, addestrando aiuti regista e altri creativi di qualità come Nouri Bouzid, non ne abbia fatto ancora set autobiografico privilegiato. 

Il regista e scrittore e critico Ferid Boughedir ha raccontato, senza alcuna idealizzazione, quella convivenza, che comunque oggi ci appare miracolosa, nella sua deliziosa commedia teenager femminista Un’estate alla Gouletta (1996). Ingiustizie ce n’erano, e ce ne sono nelle società mediterranee tradizionali, soprattutto riguardo alla condizione “apartheid” della donna che deve percorrere più ardui percorsi per “decolonizzarsi dai decolonizzati”. In quelle stesse strade abitava, da tre generazioni la famiglia Cardinale. Alla figlia Claudia, Miss Tunisia 1956, scoperta da Moustapha Fersi e dal “cattivo maestro” René Vautier in un corto sullo sfruttamento intollerabile dei pescatori poveri (Gli anelli d’oro) e poi lanciata nel 1958 da Jacques Baratier come attrice in I giorni dell’amore, un lungometraggio con Omar Sharif, poi super star di potenza mondiale, era stato consigliato dalla professoressa di non dire mai di essere italiana per non essere pesantemente offesa e di modificare il suo nome, a inizio carriera, nel più francese Claude Cardinal, perché nel mondo arabo si odiavano platealmente gli italiani per il loro passato fascista e l’alleanza con i nazisti. 

Ce lo racconta l’attrice nel bel ritratto del 1993, in 26 minuti, di Mahmoud Ben Mahmoud e Mohmed Challouf Claudia Cardinale, la più bella italiana di Tunisi : “L’Oriente!| Lì sono le mie radici e quelle della mia famiglia, che veniva da Trapani, e la Goulette, dove mio nonno aveva creato una compagnia che costruiva navi da pesca”. Nel 1937 il Duce, in visita ufficiale a Tripoli per consacrare al fascismo le terre d’Oltremare, aveva mostrato ambizioni espansioniste sempre più rapaci, spingendo la Francia, per placarlo, a firmare il trattato Laval-Mussolini. Era la carta bianca per pianificare l’aggressione etiope. 

Durante la guerra la comunità italiana venne rinchiusa dai francesi nei campi di concentramento. La gran parte della comunità italo-tunisina si era aggregata alle unità militari contro gli Alleati, dal 1942, fino alla cacciata dell’Asse nel maggio 1943. De Gaulle chiuse scuole e giornali italiani. Negli anni cinquanta gli italo-tunisini risentirono della guerra d'indipendenza dei tunisini e iniziarono un’emigrazione in massa di ritorno verso il paese del presunto “boom economico”. I rapporti economici, politici, culturali, istituzionali e “d’affetto” tra le due sponde migliorarono a poco a poco, merito anche del neorealismo e di Roberto Rossellini che, tra il 1969 e il 1972 girò in Tunisia Gli Atti degli Apostoli e Agostino d’Ippona, e addestrò i cineasti della “nuova onda araba” all’insubordinazione estetica e artistica. Kaouther Ben Hania e il suo L’uomo costretto a vendere la sua pelle è la conferma di una qualità che viene da lontano; dell’attenzione interessata dell’Eni per l’estrazione di idrocarburi nelle aree desertiche del sud e nell’offshore mediterraneo di fronte a Hammamet; dei rapporti strettissimi, in epoca craxiana dei rispettivi partiti socialisti, entrambi aderenti all’Internazionale; dell’Università per stranieri di Perugia che ha contribuito fino agli anni 90 a formare quadri d’eccellenza; della cooperazione in campo universitario, letterario, archeologico, musicale e cinematografico, frutto di accordi bilaterali. Fino alla tragedia del museo Bardo che ha spezzato l’intenso flusso turistico Nord-Sud e della quotidiana, orribile, insostenibile strage del Mediterraneo, a causa delle politiche migratorie europee, disumane e inadeguate, condannate nel marzo scorso dalla commissaria per i diritti umani al Consiglio d'Europa. “Morti che potrebbero essere facilmente evitati, sottolinea Dunja Mijatovic, se esistesse la volontà politica di riformare profondamente il trattato di Dublino a proposito di redistribuzione dei rifugiati nei vari paesi della Ue e se si moltiplicassero i corridoi umanitari. Fino al recente sequestro a Sousse di centinaia di container di rifiuti illegalmente spediti dall’Italia, che ha fatto scoppiare uno scandalo ambientale senza precedenti e ha svelato un traffico miliardario e criminale tra le due sponde. Altro che italiani brava gente.