giovedì 29 gennaio 2015

John Wick, il killer che con una matita ammazza tre uomini alla volta



Keanu Reeves in John Wick

Mariuccia Ciotta


Sui nostri schermi arriva il mistero John Wick, film d'azione estroversa interpretato da Keanu Reeves, l'attore che è presente in questi giorni al Sundance Film Festival 2015 con Knock Knock di Eli Roth (Hostel). 
Premesso l'effetto deja vu, filone revenge-movie, molta critica, anche americana, definisce il film “godibilissimo”, formalmente elegante, stilizzato nei cromatismi azzurro ghiaccio e ad alto potenziale adrenalinico.
il beagle trucidato
Non un capolavoro, dicono, ma un titolo che, come
The Iceman dell'israeliano Ariel Vromen, in uscita il 5 febbraio, si inquadra nel revival dei classici del genere. Opere dirette da autori come John Boorman (Point Blank), John Woo (The Killer) fino a Jean-Pierre Melville (Le cercle rouge), fonte di ispirazione dichiarata dei registi esordienti Chad Stahelski e David Leitch (non accreditato), entrambi stunt-actor, incontrati da Reeves sul set di Matrix.
Il mistero non riguarda il contenuto del film ma quello del cinema, addetti ai lavori e spettatori che hanno premiato John Wick con un incasso al box-office Usa di 43 e più milioni di dollari (è uscito il 24 ottobre 2014) a fronte dei 20 di budget.
Certo, c'è il divo sensuale dal volto hawaiano dei fratelli Wachowski (Matrix), di Gus Van Sant (Belli e dannati), di Bernardo Bertolucci (Il piccolo Buddha), di Kathryn Bigelow (Point Break), c'è il marmoreo Willem Dafoe, oltre a un cast rispettabile, e c'è anche il gusto della parodia per l'”eroe di ritorno”, in cerca di vendetta che, pensionato, dissotterra l'ascia di guerra... Ma. Le picconate inferte sul pavimento dal feroce sicario John Wick per recuperare i kalasnikov dormienti è più un omaggio involontario ai Looney Tunes che al Park Chan-wook di Old Boy
Motivo scatenante, la vendetta: una Mustang del '69 rubata e un cucciolo di beagle spalmato sul pavimento, crimini spavaldi commessi dal figlio viziato di un boss della mafia russa, Viggo Tarasov (Michael Nyqvist) istallata a Manhattan, che cercherà di evocare la mitologia del revenant apparso in controluce: “Non è tanto quel che hai fatto - urla il padre all'ignaro rampollo mentre lo riempe di botte - ma a chi l'hai fatto!”. A chi?
A John Wick, l'ex infernale assassino al soldo del malavitoso di Mosca, spietato e leggendario, capace di uccidere tre uomini con una matita. Ah, Takeshi Kitano, lui sì che ridicolizzava gli yakuza. Keanu Reeves, invece, con il suo sguardo tenero, si maschera imprudentemente da superkiller, abito scuro e cravatta, “pronto alla cassa da morto”, e chiama la sua controfigura (Stahelski, il Neo di Matrix) a dirigere un film che assomiglia a un provino per armi da fuoco, cascatori, crash test, esplosioni e ultimi tecno-trucchi mirabolanti.
Un parco giochi allestito dagli ex stuntmen che hanno chiamato lo sceneggiatore Derek Kolstad per imbastire una trama d'appoggio ai loro virtuosismi acrobatici. Gli stessi del buttafuori di Seattle Tommy Wick, anche lui dipendente di un boss mafioso, protagonista del precedente lavoro di Kolstad, The Package (2013) e che esce dalla pelle tatuata di Steve Austin, ex wrestler, per entrare in quella delicata di Keanu Reeves. Sempre Wick si chiama, ma la scrittura del pigro sceneggiatore non si addice al “replicante” John, in bilico tra crudeltà indicibili e l'espressione pensosa e addolorata del vedovo piangente sui filmini idilliaci dell'amata moglie morta prematuramente di malattia incurabile. E che gli ha lasciato, unico legame ultraterreno, il cagnetto Daisy.
Va bene farsi pestare a sangue dalla banda dei bulli mafiosi, va bene perdere l'auto vintage da 007, ma il cane no, neanche un killer estremo può sopportarlo. E quindi John Wick torna a fare il macellaio di esseri umani, questa volta, però, giustificato. E' dagli albori del cinema griffitthiano che chi dà calci ai cani è il più cattivo dei villain. John, prima di trovarlo, ne ammazzerà così a centinaia, di cattivi, in un modulo ripetitivo e soporifero, da automa a caccia dell'assassino del suo cucciolo. Che è il giovane debosciato viveur, biondino ovviamente, vergogna del padre di “alta levatura criminale”, condivisa con John Wick, complice devoto di stragi epocali. Carogna incontra carogna. La formula è la stessa di Pretty Woman, prostituta d'alto bordo e arrivista incontra ricco speculatore finanziario specializzato in armi da guerra. C'è poco da scegliere.
La più acerrima nemica di John Wick, l'attrice Adrianne Palicki
Sullo sfondo di una fascinosa New York notturna, il film ruota su se stesso e si inoltra nella macchietta del cinema d'azione di altri tempi con l'eroe vendicativo, tema “redenzione del peggiore”, senza mai un fotogramma stupefacente, dietro all'eco svaporata di Kill Bill! o di La sposa in nero.
Tragica caduta per il grande Keanu Reeves, reduce da un periodo depressivo, e che qualcuno (se stesso?) ha voluto rilanciare nella forma del macho alla Schwarzenegger, quando John Wick è semmai un gay-movie represso nell'abbondanza di corpi muscolosi e avvinghiati e ripetutamente perforati. Resta il successo al botteghino e il compiacimento critico per il blockbuster che accarezza l'inerzia creativa e percettiva, il cinema post-post-moderno. Un “alias” snaturato e impostore, come lo è il piccolo molosso bigio che il sicario grondante di sangue si prende nell'happy end al posto del compianto beagle.
La Mustang del desiderio



Anche su Raitre "Hannah Arendt" o le banalità sulla "Banalità del Male" di Margarethe von Trotta

Barbara Sukova è Hannah Arendt
Mariuccia Ciotta





Giovedì 29 gennaio su Rai 3 alle ore 21,05




La dimensione di un tempo interiore nelle stanze dell'appartamento così poco newyorkese di Hannah Arendt – austerità berlinese - ombre avvolgenti e sagomate da luce calda, il dentro e il fuori, il luogo del pensiero di sé e, lontano, oltre i vetri delle finestre, la scia d'acqua dell'Hudson, o chissà di quale fiume (il film è stato girato in Westfalia, Lussemburgo e Israele).

Immagini alternate di una coscienza che tenta sempre di scappare e che Margarethe von Trotta rende visibile nel travolgente film che porta il nome della filosofa tedesca.

Hanna Arendt


Barbara Sukova abbandonata sul divano, sigaretta accesa, pensa, mentre il telefono squilla, grido del caporedattore del New Yorker in attesa del reportage sul processo al nazista Adolf Eichmann (dovrà aspettare quasi due anni!), che Hannah ha seguito, inviata speciale a Gerusalemme tra le ironie dei giornalisti. Ma come una filosofa in sala stampa!

Già, più che articoli di cronaca giudiziaria, verrà fuori un trattato sul Male, un testo “oltraggioso”, ancora oggi travisato. E' di qualche giorno fa la dichiarazione, a Parigi, di Claude Lanzmann, direttore di Les Temps Modernes, cineasta, amico di Sartre, sostenitore del governo israeliano, “La Banalità del Male è una delle più gigantesche idiozie mai concepite”. 

Sukova-Hannah nella sala stampa del processo Eichmann
 


Von Trotta ci condurrà a scoprire il perché di tanto accanimento che da allora, 1961, data del processo Eichmann, a oggi colpisce Hannah Arendt, l'ebrea che “non ama il suo popolo”. Risposta: “Io amo solo i miei amici”, sentimento al di là dell'appartenenza e dell'identità perché “la politica non è occuparsi degli uomini ma occuparsi insieme agli altri delle cose del mondo”. E allora eccola Arendt a scrutare la faccia accartocciata di Eichmann nelle riprese già rimontate da Eyal Sivan, regista israeliano eretico, in Lo specialista (1999), storia per immagini della requisitoria contro il nazista, rapito da agenti del Mossad in Argentina, dove si era rifugiato dopo la fuga dall'Europa (imbarcato a Genova), con l'aiuto di molti tra i quali il papa Pio XII.



Von Trotta alterna i fotogrammi in bianco e nero del processo con la fiction (fotografia di Caroline Champetier) in un duetto campo contro-campo che sbalza la memoria e pone lo spettatore di fronte allo stesso interrogativo di Hannah.

Chi era Adolf Eichmann? 

Adolf Eichmann durante il processo
 

Un ometto mediocre, uno zelante burocrate, un inconsapevole o un demonio? Ed è qui che si innesta la banalità interpretativa della Banalità del Male, o meglio la strumentalità colpevole di molti nomi autorevoli.

Arendt non diminuì le responsabilità di Eichmann ma rivelò i meccanismi del “disumano” annidato in uomini “normali”, e presenti non solo nei regimi totalitari.

Quando il dialogo con la propria coscienza si interrompe, quando si smette di “pensare”, quando, come dice lo stesso Eichmann, si produce una “scissione consapevole” tra la realtà esterna - e, direbbe Henri Bergson, la durata, il tempo interiore - l'umanità si perde.

La “banalità” sta qui ed ora nei tanti che ubbidiscono, in tempi di pace, a un ordine sociale, politico, emozionale ingiusto e criminale che premia i sudditi devoti.

Eichmann era spinto dalla volontà di piacere alla Germania di Hitler, di conformarsi alle regole, di farsi pedina indispensabile al piano di sterminio. Senza mai alzare una mano contro gli ebrei, ma ottimizzando i viaggi in treno verso Auschwitz. 
 

Margarethe von Trotta
Hanna Arendt racconta questo nella suspense di un film concentrato dal movimento “lento non troppo”, dialoghi scintillanti e precipitazione nell'impasse di fronte alla macchina da scrivere, alle spirali di fumo, ai flash-back con l'amante Martin Heidegger, il maestro affascinato dall'“uomo divino”.

Scene di relazione complice con l'amica scrittrice Mary McCarthy (Janet McTeer) e amorosa con il secondo marito Heinrich Blucher (Axel Milberg), comunista, ebreo e filosofo, con cui fuggì a New York nel '41, dopo il lungo soggiorno a Parigi dove approda nel '33, l'anno di Hitler, per poi ritrovarsi nella Francia occupata e nel campo di detenzione di Gurs.

L'America? “un paradiso”. Insomma. Arendt dopo la pubblicazione dei suoi scritti sul New Yorker sarà espulsa dalla comunità ebraica, respinta da colleghi universitari, additata come arrogante e senza cuore per aver osato accusare i capi ebrei di gravi responsabilità nel corso della Shoah. Molti si sarebbero salvati se non fosse stato per loro, interfaccia dei nazisti, intenzionati a “minimizzare il danno”, come fece, per esempio, Benjamin Murmelstein, "capo" di Terenzin, il campo di “lusso” per ebrei benestanti voluto da Eichmann, un luogo di accoglienza dalla facciata armoniosa, belle case, lavoro, allegria filmati a beneficio dell'opinione pubblica mondiale. In realtà, Eichmann in accordo con Murmelstein stilava regolarmente le liste dei destinati ai campi di sterminio.

Lanzmann e Murmelstein nel '75 a Roma


E qui torniamo a Claude Lanzmann e al suo documentario L'ultimo degli ingiusti, apparso per un attimo nelle sale italiane dopo il passaggio a Cannes. Film “invisibile” come quello di Margarethe von Trotta, uscito nel giorno della memoria, il 27 gennaio, e rimasto in programmazione per due giorni soltanto, nonostante il grande successo internazionale, folla pressante alle porte del cinema Farnese di Roma, molti rimasti fuori. Un caso di imperdonabile censura più che mercantile intellettuale.



Un film importante L'ultimo degli ingiusti, ovvero Benjamin Murmelstein, intervistato da Lanzmann nel 1975 nella sua dimora romana, ritenuto responsabile di intelligenza con il nemico, isolato da una parte della comunità ebraica e all'epoca ritenuto indesiderabile da Israele.

Lanzmann dopo la settimana di colloquio con il capo del consiglio ebraico di Terezin, campo di concentramento cecoslovacco, ritenne opportuno chiudere a chiave il filmato dove emergevano chiaramente le responsabilità di Murmelstein, che si giudicò innocente in quanto costretto a scendere a patti con Eichmann. Ma nel 2012, il regista di Shoah (1985), riprese in mano il materiale girato e in un intervento conclusivo assolse Murmelstein dalle accuse di collaborazionismo.



Sta di fatto che il disprezzo per La banalità del Male dichiarato nei giorni scorsi da Lanzmann ha radici proprio lì, nel racconto di Hannah Arendt sul processo ad Adolf Eichmann, spogliato della figura di Demone, e ridotto a un “uomo che non sapeva pensare”.

L'idea del nazismo diabolico era fondamentale per lo stato neonato, contro l'ostilità pressante dei paesi arabi, e a favore dell' “unico baluardo contro il Male assoluto”, Israele, l'unico luogo sicuro per gli ebrei di tutto il mondo.

Ben Gurion, primo ministro, orchestrò il “processo al Mostro”, e mise in ombra i crimini contro l'umanità da parte di un uomo qualunque ubbidiente al Furher, il folle pianificatore di morte, sostenuto dai tanti, sottomessi, Eichmann.

Impensabili di conseguenza le accuse ai capi ebraici, impotenti di fronte all'”incarnazione del diavolo”. Quel “diavolo” di Eichmann, come si vede nel film di Sivan, avrà la sua condanna a morte (fu impiccato nel maggio del '62) solo quando scoprirà la sua coscienza negata. “Ho visto fontane di sangue” dirà davanti al giudice, e la sua faccia contorta in una maschera aliena si distenderà nel volto sofferente dell'uomo.

Eichmann sapeva, le SS sapevano, i tedeschi sapevano. Ma scelsero di congelarsi l'anima e di eseguire gli ordini.
Sukova-Arendt nella sua casa newyorkese



Von Trotta, che firma la sceneggiatura insieme a Pam Katz, illumina nel suo film il pensiero di Arendt, grandissima filosofa dei nostri tempi, passata nella divulgata storica come insensibile agli orrori del nazismo, intrappolata nel suo essere tedesco, e invece massima indagatrice delle perversioni umane, passate e presenti.

Hannah, nel film, si autocritica per una sola cosa, aver definito “radicale” il male. “Solo il bene è davvero radicale”.









mercoledì 28 gennaio 2015

L'ultimo degli ingiusti. Il caso Benjamin Murmelstein esce in dvd.

12,86 euro costa su amazon il dvd di L'ultimo degli ingiusti  Una lunga intervista effettuata a Roma nel 1975 ma tirata stranamente fuori dagli scaffali di Lanzmann appena in tempo per polemizzare a distanza con il film su Hannah Arendt di Margarethe von Trotta, dove si sostiene, concentrandosi soprattutto sul processo Eichamnn e sul reportage in cinque puntate dedicategli dalla filosofa ebrea tedesca sul New Yorker,  la tesi (tuttora scandalosa, in ambiente sionista e della destra ebraica) della 'banalità del male' (che Lanzmann considera una idiozia) e delle pesanti responsabilità dei capi della comunità ebraica che furono costretti a cooperare con le SS alla soluzione finale. 

Resta il fatto gravissimo, dal punto di vista culturale, che il magnifico film con Barbara Sukova su Hannah Arendt non è uscito regolarmente nelle nostre sale, pur avendo ottentuto grande successo critico e di pubblico nel principali paesi del mondo. La distribuzione parlò di disinteresse da parte delle sale. Ma insospettisce il fatto che nel film si ricorda la pesante complicità del Vaticano nella fuga e messa in sicurezza di Adolf Eichmann in Argentina, aiutato in quanto 'buon cattolico' da papa Pio XII, oltre che per non infastidire la versione ufficiale e il giudizio di stato della condanna a morte di Eichmann. E insospettisce un altro fatto: che la maggior parte delle sale d'essai in Italia sono le ex sale del circuito parrocchiale. Questo l'anno scorso. Oggi perfino un parlamento a maggioranza pd e laica, chissà perché, è costretto a eleggere un presidente della repubblica cattolica e a riesumare il nome di Casini. Italiani, e anche egiziani e israeliani, ancora uno sforzo per separare stato da chiesa.       



di Roberto Silvestri


Claude Lanzmann (a sinistra) e Benjamin Murmelstein
Cos'è un kapò, o un nero capo schiavista? Un complice delle atrocità dei bianchi razzisti. Ma, nella scala dei valori morali, si può collocare alla pari dei criminali assassini? Un po' sotto? Un po' sopra? Gershom Shalom direbbe: un po' più sotto. Tradisce il proprio fratello. Obbedisce, per aver salva la pelle, a ordini eticamente ingiusti, insensati. E aggiunge. Per la fondazione dello stato di Israele la condanna a morte di Eichmann fu un errore... Semmai per la fondazione dello stato di Israele più che un capro espiatorio esterno ci vorrebbe un capro espiatorio interno, per esempio Murmelstein, il dotto ebreo che cercò di salvare più ebrei (soprattutto ricchi) possibili. E, fino alla fine, sopravvivendo al campo di concentramento che aveva, certo subalternamente, accettato di gestire, garantì la correttezza della politica apartheid hitleriana e impedì ogni rivolta e sommossa.
Questo film vuole dimostrare, invece, l'innocenza di Murmelstein.
Claude Lanzmann, direttore di 'Les Temps Modernes', giornalista, ex partigiano, al fianco dell'Algeria insorta, documentarista di 88 anni, ha presentato, non in concorso, L'ultimo degli ingiusti, il suo settimo lavoro concentrato parallelamente sull'indagine storica dello sterminio degli ebrei e sulla nascita e difesa dello stato di Israele. Un bellissimo film che è stato riproposto a Torino nella sezione Tffdoc diretta da Davide Oberto e oggi viene presentato a Roma nel cinema d'essai Greenwich.
Tre ore e 38 minuti sono state dedicate questa volta dal cineasta di Clermond-Ferrand all'ultimo presidente del Jewish Council, il consiglio ebraico nel ghetto 'speciale', non di sterminio industriale, di Terezin (60 km a nord ovest di Praga), al capo dei kapò, all'ex rabbino di Vienna, e professore universitario Benjamin Murmelstein. Sottoposto a una violenza inaudita e inattaccabile - ci dice il film – reagì per minimizzare i danni. Non si può certo paragonare al cosiddetto gruppo ebraico dei 13 di Varsavia, guidati da Gancwajch che fu un vero informatore dei nazisti e traditore.
Lanzmann nella fortezza di Terezin

Il valore storico e umano del documento è far luce vera intanto sul 'caso Teresin', la “città regalata da Hitler agli ebrei di serie A” nel 1939, dopo l'invasione della Cecoslovacchia, demistificandone la propaganda che descriveva quella fortezza settecentesca (nelle news dell'epoca) come il 'ghetto modello', un campo di concentramento a 5 stelle, la facciata pulita che doveva dimostrare all'opinione pubblica internazionale la correttezza della politica apartheid del nazismo che dotava gli ospiti 'prominenti' (furono anche 50 mila, ma 20 mila furono da lì spediti alle camere a gas in una settimana) di ogni comfort materiale e spirituale.

Ma soprattutto dare la parola a un sopravvissuto speciale, a un'alta personalità della cultura ebraica a lungo collaboratore coatto di Alfred Eichmann durante il periodo 1934-1938 degli esodi legali e illegali di ebrei dalla Germania e dall'Austria (avrebbe fatto espatriare circa 120 mila ebrei, quelli in grado di pagare documenti di espatrio più che esosi, l'Imu con la stella gialla non era uno scherzo, anche attraverso il corridoio clandestino Francia-Spagna-Portogallo-Palestina). A un politico astuto e opportunista, comunque dotato di passaporto della Croce Rossa Internazionale, in grado dunque di lasciare il paese con la famiglia senza difficoltà fino al 1940, e che invece rimase al suo posto, spingendo anche inutilmente il terzo Reich verso una 'soluzione finale' incruenta, rivelatasi poi un miraggio: l'esodo neobiblico della comunità eskenazita in Madagascar.

 In tutti i ghetti ebrei, dall'ottobre del 1939 i nazisti avevano imposto la nomina di un consiglio formato da 12 membri, chiamando il capo, non senza denotazioni tribali, 'Judenalteste'. L'idea era quella di far autogestire il genocidio in proprio. Che compilassero loro le liste della morte, e coordinassero loro i viaggi nei treni merci, nodo centrale la famigerata stazione polacca di Nisko. Magari favorendo i più ricchi e i meno comunisti (prima di essere loro stessi assassinati).

Minimizzare il numero delle vittime. Questo, invece, antenato di McNamara, il lucido disegno di Murmelstein (“ero come un Sancho Panza della situazione, non volevo perdere il rapporto con la realtà”). E che si descrive come un buffone di Carnevale, quello schiavo dell'antica Roma che veniva eletto re per un giorno solo e, venerato beffardamente, veniva poi giustiziato la mattina dopo. Come un deriso Cristo, con la corona in testa...
Lanzmann e Murmelstein a Roma, 1975

Nel dicembre 1944, a guerra ormai persa per Hitler, Murmelstein fu nominato Judenalteste di Terezin, dopo che i suoi due predecessori, Edelstein e Epstein, costretti a coprire, e far eseguire da boia ebrei, condanne a morte per impiccagione arbitrarie (per usare un eufemismo), erano stati giustiziati o spediti a Auschwitz per presunta istigazione all'insubordinazione.

Fino alla fine della sua permanenza a Terezin, Murmelstein - che si vanta di avere dato prova di grande fermezza con i suoi subalterni (per salvarne il più possibile) pur dentro una situazione difficile da gestire anche internamente ('i martiri non si può proprio dire che siano tutti santi') - si dichiarerà convinto che i campi all'est, Birkenau in particolare, “certo dovevano essere peggiori del suo”, ma non si renderà mai conto che fossero l'inferno, campi scientifici di sterminio inaudito.

Strano, perché considera Eichmann, a differenza di Hannah Arendt, un mostro spietato, un diabolico essere, ignorante, inefficiente e corrotto. Non quel perfetto, zelante burocrate, simbolo stesso della 'banalità del Male' descritto da una intellettuale 'newyorkese' molto poco informata...
Lanzmann girò per una settimana nel 1975 (e non senza difficoltà, perché tutti i suoi attrezzi del mestiere gli erano stati rubati da una gang presumibilmente nazistoide) una lunga intervista al 'Maggiore degli Ebrei', sul bellissimo terrazzo della sua casa nel ghetto *, o passeggiando per il Foro di Roma, la città che aveva concesso l'asilo al sopravvissuto, autodefinitosi 'l'ultimo degli ingiusti' (parafrasando il libro di André Schwartz-Bart), un 'quasi giusto', anche se era stato imprigionato dopo la liberazione a Praga per un anno e mezzo e poi prosciolto da ogni accusa di collaborazionismo e tradimento.

Nel 1961 Murmelstein pubblicò in Italia “Terezin, il ghetto modello di Eichmann”, uno sconvolgente memoriale sulle atrocità contro i prigionieri, che si basava sui documenti inviati al pubblico ministero di Tel Aviv per il processo Eichmann, al quale non partecipò di persona. Anzi non si è mai recato in Israele.

L'intervista filmata, depositata subito a Washington, nel museo ebraico, e utilizzata a spezzoni e impropriamente più volte, quasi 40 anni dopo è stata montata (non sappiamo quanto e dove tagliata rispetto all'originale) e contestualizzata da Lanzmann con interventi esplicativi letti da lui stesso nei vari luoghi dell'azione: Nisko, Theresienstadt, la chiesa che conserva sulle sue pareti, quasi illeggibili, tutti i nomi delle vittime della madre di tutti gli stermini e i genocidi. E solo il cattivo gusto può definirlo nei termini religiosamente scorretti di 'olocausto' o 'shoa'.

* chiediamo scusa per l'inesattezza segnalataci dalla lettera pubbicata qui sotto del figlio di Benjamin Murmelstein, Wolf. L'intervista è stata fatta da Lanzmann sul terrazzo di un albergo romano. Wolf Murmelstein ha presentato al festival Torino (22-30 novembre 2013) il film diretto da Claudio Giovannesi (il regista di "Alì ha gli occhi azziurri"), "Wolf", coproduzione tra Italia e Repubblica Ceca, 60', che cerca di riabilitare l'immagine del padre e di spiegare meglio il complesso ruolo che ebbe a Terezin. Attraverso il dialogo tra Wolf e lo psicoanalista David Meghnagi, il film ricostruisce il rapporto di un figlio con la memoria del padre, tra accettazione, rifiuto e temetizzazione di una tragedia comune e familiare.

martedì 27 gennaio 2015

Turner di Mike Leigh. Perché il mio "punto di vista" non è un'opinione. Incontro al vertice sul tema della luce


Roberto Silvestri 

Inattuali, controccorente e incompresi dalla loro epoca Pasolini, Turner e Leopardi sono al centro dell'attenzione in questa vitale fase della ricerca cinematografica più approfondita. Abel Ferrara ha voluto far parlare addirittura in inglese il primo, visto che il nostro poeta fu l'indecifrabile profeta del sessantotto morente, anzi assassinato. E Martone ha estremizzato la sua diversità fisica, come fosse il gobbo di Notre Dame, per visualizzarne l'alterità interiore totale, neo antica, nel paesaggio contemporaneo di un'Italia incapace biologicamente di 'crescita'. Di paesaggi contemporanei si occupò, scavalcando la velocità della luce, l'occhio prensile del pittore inglese. E da allora le 'vedute' non sono stati più le stesse.  
Mike Leigh sul set
Mike Leigh, che vinse il festival di Cannes nel 1996 con Segreti e Bugie, incontra e racconta nel suo terzo film in costume, Mr. Turner, in originale, Turner in italiano e in Usa, la vita e le vicende pubbliche, artistiche e private del grande artista ottocentesco, precursore della rivoluzione impressionista. 
Successo critico strepitoso in patria, dopo il concorso sulla Croisette nel 2014, finalmente arriva nelle sale italiane questo film summa dell'eccellenza britannica che gli esperti di Cannes giudicarono evidentemente più innovativo, sorprendente e riuscito dell'altra escursione profonda nei chiaroscuri del romantisimo europeo del XIX secolo,  Il giovane favoloso di Martone. Il fatto è che Cannes ha un debito di riconoscenza verso un cineasta che ha sempre ben ripagato i cinque inviti in concorso. Turner ha vinto a Cannes il premio per il migliore attore (a Timothy Spall) e per il miglior contributo tecnico artistico (a direttore della fotografia Dick Pope). E  ha conquisto quattro nomination all'Oscar 2015: Dick Pope (fotografia), Jacqueline Durran (costumi), Gary Yershon (musiche originali) e Suzie Davies e Charlotte Watts (desing produttivo).
Troupe e cast a Cannes
Nonostante la sontuosa scenografica, la raffinatezza dei costumi e la filologia accurata nelle acconciature, però, Mr. Turner non è il tipico biopic d'alta rigatteria poggiata sull'ovvio narrativo. Si tratta invece, citando le parole stesse del cineasta, di “una distillazione drammatica”. Alchimia, non agiografia, né gelido rigore documentaristico. L'opposto di uno sceneggiato televisivo che modera, smussa e annacqua l'aneddoto. Anche se il suo autore proviene dal ricco vivaio della Bbc qui si sente l'urlo e il grugnito anacronistico del performer punk che è altro dal mondo in cui vive... 
Girato in digitale e in piena indipendenza produttiva, Mr.Turner è un film bello e discutibile. Una incursione, questa sì documentaristica, sulla vibrazione della pennellata è il suo cuore formale. E sul colore, ma dal punto di vista del processo ottico, non della piacevolezza cromatico. Cioé veniamo condotti dalla telecamera sulla soglia di percezione del colore. Un film tutto fiamme e acqua, sole e mare. Nel loro stato solido, liquido, gassoso. Dall'impasto ecco uscire il concetto di "luce problematica" che tanto appassionò lo sguardo turneriano. E che i bigotti arroganti e ignoranti dell'epoca considerarono orripilante “crosta da miope”. 
Leigh racconta, in due ore e mezza - ma passano veloci perché il film è dinamico come un Jackson Pollock in azione - gli ultimi 25 anni di vita del grande pittore romantico inglese (1775-1851), precursore dell'impressionismo, dell'astrattismo e dell'informale. Cioé di tutti quei tentativi di rendere percettibile il tempo arabescato della luce. 
Turner infatti, il compulsivo e onnifago “pittore della luce”, è artista cinematografico per eccellenza. Sia per le sue ricerche luministiche, da pioniere (sarà attratto irresistibilmente dal dagherrotipo e dalla scienza collegate al magnetismo dei colori). Sia per una biografia on the road e poco raccomandabile: due case (una segreta, a Margate, sul Tamigi); molti viaggi (il film inizia tra le nebbie olandesi); curiosità necrofile da fotoreporter; una moglie abbandonata e i figli e i nipoti trascurati; una governante più che devota; qualche visita, non solo professionale, nei bordelli; l'adorazione per i marinari e l'ossessione per il più marinaio di tutti, l'ammiraglio Orazio Nelson; la continua lotta contro il conformismo dell'ambiente artistico ufficiale; un padre adorato, suo assistente 'colorista', la cui morte lo getterà nella disperazione più nera; il trattamento sprezzante per i colleghi, soprattutto neo-gotici; alcuni esperimenti da antesignano della 'body art', come farsi legare all'albero maestro di una nave per analizzare una tempesta oceanica 'dal di dentro'; la passione fou per Mrs. Booth, locandiera sul mare, donna di una “bellezza intensa”, straordinaria, che allieterà i suoi ultimi anni di vita... 
Il direttore della fotografia, Dick Pope, ha lavorato sodo per restituirne spirito e look dell'epoca senza sembrare ridicolo e la sua soluzione principale, immergere tutto in uno spazio fiammingo geometrico, alla Vermeer, o nella “luce tenebrosa” di Goya, ci è sembrata, più che un motto di spirito, o una scelta estetizzante, un metodo fecondo per illuminare un personaggio del passato mettendolo in doppia prospettiva storica. Diceva il critico d'arte (e di quell'epoca) Ruskin che il “restauro” è un crimine, la “peggiore delle distruzioni perché accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto”. E così come una architettura in macerie ha più verità di una ricostruzione “come se fosse l'originale”, così la biografia cinematografica per non essere un falso artistico o un falso storico, non deve cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo. E dunque Leigh può sfogare tutta la sua indole espressionista senza disturbare il suo oggetto d'analisi.

La colonna sonora, poi, affidata alle sonorità più postdodecafoniche che minimaliste di Gary Yershom, ha il compito di spiegarci che, come la pittura è una poesia senza parole, così la musica è un cinema, un flusso spaziale dinamico, 'senza immagini'. Bisogna avere due occhi per apprezzare dunque il film, un “occhio solare” e un “occhio musicale”.
Mr. Turner è il terzo film in costume, dopo Popsy Turvy e Vera Drake, del cineasta settantunenne di Manchester, esplosivo durante il decennio nero di Thatcher per i suoi acidi impasti cromatici e concettuali antiliberisti, così come pieno di sarcasmo e furia è qui a fiancheggiare, quasi diventandone un sorta di esecutore testamentario o di alias, il più grande paesaggista inglese, interpretato con l'incisività burbera di un Charles Laughton perennemente bofonchiante, sputacchiante e meditabondo da Timothy Spall, abituale collega d'avventura e così affezionato a Leigh da aver studiato pittura per due anni e da portare, scritta negli occhi, la sua “impossibilità ad essere Turner”.


J.M.W. Turner, dalla vita privata eccentrica e nomade, membro dell'Accademia Regia ma odiato a corte e sbeffeggiato dal popolo per il metodo pittorico avulso (l'uso di coloranti e additivi non ortodossi, anzi culinari), lo stile avveniristico, le forme inquietanti e la luce 'irrealistica' delle sue vedute, adorato dalla critica più sensibile (John Ruskin, che forse è il punto debole del film, mi pare troppo schematicamente delineato) e impermeabile ad ogni seduzione di mercato (lasciò tutte le sue opere allo stato affinché tutti ne potessero godere, e gratis), fu l'implacabile e drastico nemico dell'iconografia vittoriana e critico del capitalismo, 'perverso' disumano e alienante, almeno come lo descriveva l'esperto Adam Smith in quegli anni: famelico di guerre di conquista, truffe salariali e schiavi (La Ricchezza delle Nazioni, libro V, cap. 1). 

Ma è soprattutto il suo quotidiano lavoro artistico, rappresentato come se fosse all'opera uno scienziato, tutt'altro che pazzo, o un carpentiere navale, a rendere questo film interessante quanto il Van Gogh di Minnelli o il Salvator Rosa di Blasetti. Ecco arrivare con il suo taccuino Tomothy Spall “col demonio che ogni mattina mi porta nello studio con tutte le speranze che per ora rimangono solamente tali”...in mezzo a un mondo di “money-making mob”, una plebe che fa soldi. E solo a quello aspira. Come avrebbe commentato, altezzoso, Ruskin.
Il progetto Mr. Turner ha ben venti anni ma la realizzazione è stata possibile soltanto quando Leigh è riuscito a raccogliere i 13.5 milioni di dollari sufficienti, anche se ha dovuto eliminare dalle riprese il viaggio a Venezia, dopo la morte della sua produttrice storica, Simon Channing Williams. Peccato sulla questione delle “soglie di visibilità” l'incursione lagunare sarebbe stata chiarificatrice. E avremmo compreso meglio la rivoluzione di Turner che spinge la pittura, seguendo il Trattato della luce di Goethe, a liberarsi dalla rappresentazione convenzionale delle forme dell' "esterno", studiando otticamente il bagliore (parallelamente a Caspar David Friedrich...), la torbidezza, la nebulosa atmosferica della nebbia, l'abisso dell'oscurità...

venerdì 23 gennaio 2015

Tu non sei Charlie? Io sì



Mariuccia Ciotta

Sì alla libertà d'espressione, sì al diritto di satira, ma... dopo l'ondata emotiva seguita al massacro parigino, è il tempo del “non”. “Io non sono Charlie”. Il contrordine dilaga sul web scritto con la matita rossa e con quella nera perché non si possono offendere i sentimenti religiosi e l'identità di un intero popolo, o perché oltre all'Islam la rivista francese mette alla berlina anche l'Occidente, il cristianesimo, in un calderone di irriverenze, cattivo gusto, abuso di parola e di vignetta. Da una parte, si accusa Charlie Hebdo di islamofobia, cosa che invece piace alle oriane fallaci di oggi, di aggressività machista (“meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora”, più o meno) e dall'altra si spara contro il foglio anachico-trotzkista, sessantottardo, nichilista, che più volte ha chiesto lo scioglimento del Front National.
Io non sono Charlie”. Ci sono limiti alla satira. Quali? Rispondono sui media intellettuali, storici, scrittori, artisti, politici. Nessuno, dice chi non vede differenze tra una vignetta e la Cappella Sistina, l'arte non ha limiti. Sì, invece, affermano altri, ed è la mancanza di rispetto per i “diversi”. 
 
A questo punto, Terminator, il cyborg venuto dal futuro, chiederebbe: “definire il concetto di satira”. E' semplice, la satira se la prende solo con il potere.
Ed è quel che ha fatto Charlie Hebdo. Il suo Maometto non è affatto la caricatura sprezzante del profeta, ma lo specchio di come l'hanno sfigurato gli islamisti, è il “loro” Maometto, nel nome del quale si tagliano teste, si giustiziano in piazza i tifosi bambini, si rapiscono e schiavizzano le bambine, si insanguina la scrivania di Wolinski e company, e si ammazzano gli ostaggi ebrei del negozio Kosher. Se tornasse Muhammad, recita un disegno apparso sul giornale, l'incappucciato dell'Isis lo sgozzerebbe al grido di “Infedele!”.
Che c'è da ridere ad offendere Allah? Ma sì, a colpire chi lo sventola per bruciare le chiese, i barbuti che si sono dati appuntamento nel “grande califfato”, gli uomini di ogni latitudine che odiano le donne e temono di perdere la supremazia materiale e immateriale. Non a caso, la furia fondamentalista (di ogni tipo) tocca l'apice di fronte alle immagini del sesso, quei didietro al vento sfoderati impudicamente. Che c'è da ridere se si fa “pornografia” con la Trinità? Ma sì, se in nome di Cristo si discriminano gli omosessuali. Stessa cosa vale per la vignetta con Ratzinger abbracciato a una guardia svizzera, “Enfin libre!”. 
 
Charlie Hebdo sa bene che a offendere i musulmani francesi e stranieri non sono i ritratti blasfemi apparsi sulla rivista, ma l'ingiustizia sociale, le guerre “democratiche” occidentali e quelle intestine, sciiti contro sunniti, per il controllo geo-politico, la strage di esseri umani. Ed è proprio Maometto a disperarsi: “E' duro essere amati da dei coglioni” dice il fumetto del profeta con le mani sugli occhi e sopra la scritta “Mahomet débordé par le integristes”.
Insomma, da cosa dovremmo prendere le distanze? Dalla retorica dello slogan che qualcuno adesso vorrebbe commercializzare? Ma “Je suis Charlie” non si tocca, grida Joachim Roncin, critico musicale, che lo ha coniato. Dalla commozione di massa per cui vale la pena distinguersi? Ci sono simboli potenti che aggregano l'umanità, e anche su questo non c'è niente da ridere e da ridire, né sulla manifestazione per le strade di Parigi né sugli ideali in frantumi Liberté, Egalité, Fraternité.
Non ci resta che piangere, Charlie, insieme a Maometto. 
Wolinski
 

lunedì 5 gennaio 2015

American Sniper, la guerra nel mirino di Clint Eastwood


Shoot! Clint Eastwood

Mariuccia Ciotta


L'occhio inquadra l'obiettivo, sceglie distanza, posizione e luce giusta... shoot. Solo che Chris Kyle non è un regista. E' un cecchino, il migliore. Dietro l'obiettivo, Clint Eastwood sovrappone l'effetto del ciak, la danza fantasmatica del cinema, con l'”action” che dà la morte. Si inserisce là dove sfuma l'assoluta certezza del texano, tiratore scelto del corpo speciale dei Seals, e lo demolisce dentro. Lo sgretolamento del giustiziere - sceriffo, ispettore, tenente - da parte di se stesso è il leit motiv del cineasta dai tempi di Dirty Harry che ritorna, sempre più declamato, in Le bandiere dei nostri padri, Lettere da Iwo Jima, Gran Torino, quando l'ex marine cinico e disilluso confessa l'assassinio di un soldato inerme, nemico in terra di Corea, senza che nessun superiore glielo avesse ordinato. Dall'allora quel ragazzo ritorna notte dopo notte a tormentarlo... e finisce nel corpo minuto di un bambino iracheno in American Sniper.
Bradley Cooper in American Sniper
Il film ha un primo impatto devastante, non si può volgere lo sguardo, siamo tutti Chris Kyle sul tetto di un edificio a Sadr City, costretti a decidere all'istante se premere il grilletto sul piccolo, carico di un ordigno esplosivo, o mandare all'inferno un'intera squadra di marines. Questa è la guerra, questo è il “my job” contro i terroristi delle Twin Towers, la valorosa spedizione per salvare dai “selvaggi” i compagni.
Il vero protagonista, autore dell'autobiografia best-seller da cui è tratto il film, non si è chiesto se la coppia Bush/Blair mentiva sulle armi di distruzione di massa. E’ andato a combattere per il “paese più bello del mondo” e ne ha fatti fuori 160 o forse 255 tra Falluja e Ramadi, tanti da meritarsi il titolo di Leggenda. Patriota, texano, macho, quasi identico all'attore che l'interpreta, Bradley Cooper, ma delicato nell'animo, voglioso di casa e d'amore, una moglie adorante e trepidante, due figli, trascurati per un ideale più alto, il bene collettivo. Lui è un “cane da pastore”, difende il gregge, né un lupo né un agnello, come gli ha insegnato un padre roccioso, fucile imbracciato e colpo in canna per stendere un cervo regale, alter ego dell'elefante di Cacciatore bianco, cuore nero.
Bradley Cooper
Eastwood taglia le immagini con lame affilate, scarta la dimensione emotiva, si cita nelle scene grottesche di addestramento, non cede al romanticismo. Di eroi non c'è traccia. Chris Kyle è un uomo privato dalla facoltà umana di scegliere - così è la guerra - e il film ne mostra le conseguenze. Per la seconda volta un bambino-soldato gli passa nel mirino, “non prendere il fucile, non prenderlo!” implora il cecchino. Soltanto il cinema può accontentarlo, e va in dolce dissolvenza.
American Sniper è una radiografia radicale dello sport ammazza-uomini - attualmente preferito alla via diplomatica - che il regista accosta con gusto beffardo alla disciplina del tiro a segno: il rivale di Kyle è un sensuale, bellissimo siriano in trasferta, ex campione olimpionico. Al disinnescatore di mine, quindi dalla parte dei vivi, di The Hurt Locker, film Oscar di Kathryn Bigelow, Clint preferisce il killer nascosto tra le fenditure dei muri, essenza estrema della morte in agguato, lo stesso personaggio che in Gli spietati colpiva dall'alto di una roccia un cow-boy ferito e invocante un sorso d'acqua. L'angoscia gelida dell'uccidere, la malattia mentale che penetra nella parte nascosta dai muscoli d'acciaio, il disfacimento dell'umano, tutto sintetizzato nell’immagine ossessiva degli occhiali scuri che Kyle non abbandona mai, marca Wiley X, product placement del classicismo tragico di Nick mano fredda e dello “spietato senza occhi” interpretato da Morgan Woodward.
Chris Kyle, il cecchino
Il cecchino impegnato nella “missione per conto di dio”, e in particolare nell’eliminazione di uno djadista di tarantiniana efficacia, “il macellaio” (che sembra uscito da Driller Killer di Abel Ferrara) sentirà smuovere dentro di sé qualcosa che assomiglia alle deformità psico-fisiche dei reduci, di cui, tornato dopo quattro “turni” dall'Iraq, si prenderà cura, anche lui catatonico, immerso in un delirio di visioni e rimbombi, assente dal giardino fiorito del Texas dove frigge il barbecue familiare.
Fine di ogni pulsione vitale, nemmeno la lotta contro il “male” darà più la carica al “Diavolo di Ramadi” che voleva fare il cow-boy da rodeo, e che vaga ancora nella nebbia dei campi di battaglia. Una coltre di polvere offusca lo schermo, rinuncia all'atto di vedere, messa fuori fuoco definitiva. E come nella tragedia greca non c'è risposta, non c'è soluzione, tutto resta in sospeso, se non l'idea che ognuno è responsabile delle proprie azioni, tema caro a Eastwood l'individualista. 
 

American Sniper lascia inquietudine, scandalo e disorientamento per questo suo innocente assassino, il “narratore” disturbante che non concede vie d'uscita. Chris Kyle aveva scelto di combattere la morte con la morte, e finirà ucciso, a coronamento simbolico, proprio in un poligono di tiro da uno come lui, un reduce affetto da disturbo post-traumatico.
Eastwood lo accompagna nella processione funebre, lungo l'interstate 35, tra Midlothian, la cittadina di Kyle, e il cimitero militare di Austin, lungo 250 km di folla assiepata e silenziosa, un'immagine desolante che ricorda le bandierine meste sventolate al ritorno degli eroi fasulli dell'invasione di Grenada in Gunny.
Clint Eastwood cita la scena finale di Gran Torino