martedì 29 luglio 2014

Vittorio Rivosecchi, un "americano" alla corte di re Artu'

Roberto Silvestri

Vittorio Rivosecchi e sua cugina Nilde Rivosecchi
E' morto a 63 anni Vittorio Rivosecchi. Era un amico e uno studioso, soprattutto, di cultura medievale. Uno dei fondatori e animatori per anni della casa editrice specializzara Viella. Eppure Vittorio Rivosecchi veniva dal liceo classico Augusto di Roma, dalle lotte nelle scuole nelle fabbriche e nella societa' intera degli anni sessanta. E poi si era occupato di cinema e non solo, nel gruppo di esperti ventenni allievi di Alberto Abruzzese e Beniamino Placido che Renato Nicolini aveva saputo valorizzare in quell'effervescente decennio.

Ma Vittorio come era arrivato a Hildgarda, a Boncompagno da Signa, ai "retori maestri" e ai "Fedeli d'amore" danteschi? Certo, e' sempre stato il piu' eccentrico del nostro gruppo. Il Clifton Webb dell'Appio Tuscolano. Uno stile "britannico" poco consono alle periferie grevi romane. Tre sue cugine bellissime, milanesi, d'altra parte erano sempre molto attese a capodanno. Anche perche' Vittorio organizzava feste 'barocche' e in costume in una vecchia villa di famiglia, nei mesi precedenti alla vendita, che era anche un vero set cinema per il nostro gruppo, di superottisti neomilitanti. Piu' di tendenza afghana (linea nero) che spartakista. Piu' lsd che cccp. E poi sua zia era una produttrice di cinema, addirittura il braccio destro di Bruno Bozzetto per anni. E si era trasferita negli States, dove la cugina Nilde aveva studiato alla New York University di Scorsese e Arkush... Come annichilimento del provincialismo non era niente male, quell'amicizia. Ci ha regalato poi tanto di quel senso dell'umorismo e di quella capacita' di identificare i tromboni all'istante, Vittorio, che per il nuclo politico di quel liceo alcuni sentieri sarebbero stati proprio impraticabili. Fanatismo e bigottismo, per esempio, li lasciammo ai "servili del popolo", figuriamoci le ipotesi di lotta armata: si liquefacevano ad ogni suo sguardo aguzzo e sardonico. Ma torniamo al "mezzo del cammin".  

Nel 1979 a Roma, Palazzo dell'Esposizione, ebbe un enorme successo la mostra "La citta' del cinema - Produzione e lavoro nel cinema italiano 1930-1970". A corredo un librone, edito da Napoleone, di 700 pagine, contenente saggi, analisi dei trenta anni di cinema trascorsi e soprattutto delle lunghe interviste ai cineasti che non sono, come comunemente si crede, i registi, gli autori, ma i creativi tutti, direttori della fotografia, montatori, produttori, capi macchinisti., scenografi, costumisti, musicisti... Il cinema e' arte di gruppo, mai dimenticarlo.

Era gia', in nuce, quella mostra, la prefigurazione di quello che oggi il ministro Franceschini auspica, un grande museo del cinema da affiancare agli studi cinematografici di via Tuscolana, rivitalizzati e competitivi. Solo che ci hanno messo 35 anni a capirlo (chi era effimero, Nicolini o i suoi agguerriti e critici?). Andare indietro significa marciare, piu' spediti, in avanti.Senza studiare le "beghine" medievali come capire qualcosa di femminismo, d'altra parte.

Vittorio Rivosecchi (e la cugina Nilde) a Milano
Proprio da Cinecitta', allora a pezzi rispetto agli altri studi prestigiosi del mondo che avevano saputo rimodernarsi, provenivano i "capolavori" esibiti. Pezzi di scenogrefie felliniane e non solo; costumi allestiti negli atelier Tirelli - che se si fossero tutelati un po' meglio come Zeffirelli chiedeva a gran voce avrebbero conteso agli inglesi il mercato dei filmoni storici in costume - manifesti d'epoca; fotografie di scena, giornali per fan, il merchandising, i flani e la pubblicita', videotapes e laser disc con le sequenze piu' celebri e quelle piu' ingiustamente dimenticate, girate dai "diversamente grandi". Dai genii del cinema commerciale, specialisti in western, horror, fantascienza, avventuroso, esotico, fantasy mitologico come Mario Bava, Vittorio Cottafavi, Lucio Fulci, Riccardo Freda....Quella generazione che Hollywood in crisi aveva studiato per poter diventare new Hollywood insorgente e per lanciare in tutto il mondo Spielberg e Lucas. E quella generazione di piccoli inventori pazzi che tutt'ora rappresenta il retroterra culturale, sofisticato e anarchico, di Quentin Tarantino e Eli Roth, Roberto Rodriguez e Guillermo del Toro, Landis e Joe Dante.

Reperti vari e mirabilmente montati in un labirinto di sentiero espositivo che risarcivano quella parte oscurata (allora) di creativita' nazionale. Grande scandalo, pero', mettere insieme Fatigati con Antonioni. Ma Carmelo Bene ci invitava sempre, dal palco, alle piu' sensate interferenze tra epoche e epoche'. Perche', senza conflitto, niente sviluppo, neanche artistico.

Vittorio Rivosecchi con la cugina Silvia
Erano stati i quattro moschettieri dell'assessore Nicolini, giovani ricercatori neanche trentenni, Bruno Restuccio, Massimiliano Fasoli, Giancarlo Guastini e Vittorio Rivosecchi, a realizzare la mostra e il libro (purtroppo molto fu tagliato da quelle interviste, un editore furbo dovrebbe chiede di pubblicare la versione integrale di quel lavoro pionieristico) che doveva "partorire" cio' che l'estate romana e Massenzio in particolare "generava". Modernita', scenari utopistici di cambiamento in meglio per tutti i consumatori, progetti architettonici per "altri cinema a venire" da realizzare, non piegarsi alla ineluttabilita' di quelle multisale e quei multiplex che ci aspettavano al varco inzeppandoci soprattutto di pop corn. Una modernita' basata su una riconsiderazione collettiva e critica del nostro patrimonio immaginario passato. Vittorio di suo agggiungeva un "discorso sapienziale" alla Boncompagno, una retorica che si proponeva non come sapere settoriale, sia pure di altissima dignita', ma come il sapere stesso, una sapienza dalle risonanze bbliche e post bibliche.

Il cinema italiano stava entrando in un letargo che continua tuttora. Quello era il segnale della riscossa possibile. Quando usci', pochi mesi piu' tardi, il "Fofi Faldini" sembrava gia' un libro sugli zombies. Un c'era una volta il cinema italiano....l'avventura era finita.

Bisognava ricominciare non da tre, ma dal terzo secolo dopo Cristo. I nicoliniani avevano ripreso tecniche e concezioni teoriche dal barocco romano. Non si parlava di "presa di Montecitorio" come della presa del palazzo di inverno? Ma cos'era Montecitorio? Un magnifico palazzo "interrotto" di Bernini/Fontana, che non riuscirono mai a unificare la piazza antistante con piazza Colonna, il papa non voleva...Gli artisti si scontrano con il potere spaziale della chiesa e non sempre la spuntano.  Ma chi era il papa di fine 600? Una specie di Bergoglio. Amava i poveri (edifico' per loro perfino San Michele) lotto' contro il nepotismo con impeto da movimento 5 stelle. E a Montecitorio fece ospitare  i poveri, non le signore, da casting di Greed, che si vantano urlando di "essere tutte puttane". Lo aveva edificato il pugliese Innocenzo XII, l'ultimo Papa con la barba, che era stato il nemico dei quietisti e della chiesa francese autonoma. Perche' autonoma? Perche' la chiesa gallicana voleva essere autonoma come quella anglicana. E non considerava il Papa il numero uno infallibile, ma solo il sinodo dei vescovi il vertice teologico.....E lotto' contro le "mistiche secolarizzate", come Hadewijch o Hildegarda. Insomma Vittorio ci insegno' non solo che era ora di finirla con le cose che ci raccontavano a scuola e che scrivevano i giornali e coi film che mostravano al Nuovo Olympia. Ma che la lunga marcia dentro le istituzioni, per essere vincente, doveva essere accompagnata anche da quella dentro i secoli, meglio se "bui". Bisognava proprio tornare indietro.

giovedì 17 luglio 2014

Per Paola Meo, bellissima comunista del XX e XXI secolo





di Roberto Silvestri 

Ricordo Paola Meo proprio cosi', come nella foto che sua figlia, la cineasta Anna Negri, ha postato oggi su Facebook informandoci della sua morte, e che li' ho rubato, ed e' qui sotto.


Era una delle bellissime 'teste politiche' di Potere Operaio, il gruppo piu' glamour e futurista del 1968 e di fin troppo lucida intelligenza teorica (dunque quello che sara' piu' perseguitato e punito anche al di la' dei suoi meriti).  Era la figlia di un famoso architetto veneziano che su commissione del patriarcato (Giovanni Roncalli) e amica di Cesare De Michelis, l'anima della casa editrice Marsilio. La rividi piu' di dieci anni dopo in via Tomacelli, sede allora del quotidiano il manifesto, altrettanto bella, tesa, dolce e combattiva, quando veniva a trovare Rossanda (e i pochi compagni del giornale che parteciparano con passione a quella campagna civile, non tutti) per combattere per la liberazione del marito e contro il teorema Calogera che voleva Toni Negri capo iper-clandestino delle clandestine Brigate Rosse. Ci riusci' a vincere. Nonostante il Parito Radicale che aveva costretto Negri a fuggire in Francia....Quel teorema, vera tragedia, aveva spedito per oltre 5 anni militanti innocenti in galera, causato fughe, esili e ingiustizie varie, ma ebbe la genialita' di anticipare, vera farse, la scena di un intero parlamento italiano, senato compreso, che voto' prima l'arresto del "grande capo segreto" delle Br, e poi, a maggioranza, ma anni dopo, che "dovevasi considerare la minorenne Ruby davvero la nipote di Mubarak...". Ecco il duplice giorno che decreto' la vera morte del senato. Non si trattava di un consesso di veri esperti anziani di cui ci si puo' fidare ciecamente?  

Ma torniamo al 68. Un giorno di tanti anni fa arrivarono in massa lei, Paola Meo, Toni Negri e 'quelli di Padova' alla facolta' di lettere e filosofia, all'Universita' La Sapienza, ad affiancare e spalleggiare (nello scontro abituale e spesso rude con i veterocomunisti, i terzomondisti e gli emme-elle, i maoisti, di purezza e durezza 'rococo' '), quel giorno senza carri armati dentro, i post-trontiani di Roma, Lepri, Virno, Paolozzi, Piperno, Scalzone e Castellano, potoppini ancora alleati, in quel frangente, credo, con il Manifesto gruppo politico...

Toni Negri, il professore, che ispirava sostanzialmente il settimanale Potere Operaio (un giornale magnifico, anche graficamente, che ogni tanto veniva sequestrato per reati d'opinione e il cui direttore Tolin, fu addirittura incarcerato, sempre per reati d'opinione) era al fianco di Paola Meo.

Da Padova ci arrivavano molte cose belle in quei mesi d'inizio anni 70. Prima di tutto i film di Cinema Zero, il cineclub che scovava copie di introvabili film americani degli anni 30 e 40 che Piero Tortolina, il nostro compianto Langlois, collezionava con amore e competenza e diffondeva nei clun cinema del paese, dal Filmstudio di Roma al Movie club di Torino (ma che Mazzacurati figlio, anche lui giovane potoppino padovano, combatteva da sinistra, finche' riusci' a strappargli il controllo del cinema e a imporre un tremendo e plumbeo gusto autorial-europeista-militante, da morettiano o da La Repubblica ante litteram).

Ma anche una collana di testi antagonisti formidabili (sui wobblies, o di K.H. Roth, o di Krahl....) che Feltrinelli di allora, e anche un po' di anni dopo la morte sul traliccio, tutt'oggi poco chiara, di Gian Giacomo, aveva appaltato alla facolta' di economia e scienze politiche padovane e pubblicava (prima che la vedova Feltrinelli li mandasse al macero). Libri scelti e curati da Toni Negri, Ferruccio Gambino, Luciano Ferrari Bravo, Bruno Ramirez, Paolo Carpignano, Gisela Bock...
Per non parlare delle prime tesi di agguerrite femministe emule di Selma James, come Lisi Del Re, Maria Rosa Della Costa, etc....

Negri, il compagno di allora di Paola, era quel giorno in maniche di camicia arrotolate, da professore giovanissimo, perennemente in tensione psicofisica, come se venti cervelli si coordinassero in una sola mente, proprio l'immagine che le istantanee di Tano D'Amico hanno poi immortalato per sempre durante i 'processi del 7 aprile' - la vergogna leader per la borghesia giuridica del nostro paese - con una montagna di appunti in braccio per dei seminari, degli 'attivi' politici della massima urgenza e una assemblea, presumibilmente di fuoco.Tutto in una giornata. Tutto in una notte. E Paola al di suo fianco. Che pareva un po' la coordinatrice vera dell'intervento 'nordista'. Sembrava lei la rete che teneva in pugno l'organizzazione, sempre sul punto di crollare per colpa di una esagerata auto-ammirazione. Come i tedeschi dopo aver vinto - non tanto limpidamente - la quarta coppa del mondo dei calcio...

Un intervento che - non mi ricordo bene la questione - doveva essere urgente. Magari una campagna di rettifica interna - contro le posizioni estremiste di Lanfranco Pace? - o magari una manifestazione da organizzare immediatamente per fermare i bombardamenti clandestini quinquennali di Nixon in Cambogia (li abbiamo fermati, quella generazione in fondo vinse qualcuna delle sue battaglie). Sicuramente il momento era drammatico. Ricordo che in quel momento mi e' parso piu' chiaro quello che i prof di facolta' piu' amati, Gianquinto (logica), Brandi (storia dell'arte), Asor Rosa e Abruzzese (letteratura italiana) e Emilio Garroni (estetica) mi andavano raccontando. Che il bello e' qualcosa che riusce a mettere in moto tutte le nostre facolta', anche quella di indignarsi. E non cio' che ingolfa un meccanismo. Troppa bellezza, a volte, inquieta. 
La bellezza fa paura, allora come oggi,e la bellezza teorica non ne parliamo. Le ragazze, sempre padovane, del salario al lavoro domestico gia' avevano acceso le micce. Un'altra fase post sessantottina e post settantottina stava iniziando. Paola non avrebbe bisogno di fare troppi salti mortali avvitati, come quelli di Toni Negri, per interpretare la fase. bastera' rileggere il libro autobiografico di Anna Negri per conoscerla piu' profondamente. Credo che per le giovani generazioni sia un obbligo.  

















mercoledì 16 luglio 2014

Maria Sole Tognazzi in America. Esce anche a Portland e a Buffalo Viaggio sola, ovvero A Five Stars Life, una vita a 5 stelle

Maria Sole Tognazzi



di Roberto Silvestri


 

Margherita Buy, premio David di Donatello 2013 come migliore attrice italiana protagonista grazie a Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, apparve improvvisamente, vera folgorazione, sul grande schermo (alla Mostra di Venezia di qualche lustro fa) nel dramma La seconda notte, giovanissima presenza beckettiana in cerca impossibile di un equilibrio fisico e psichico (non formale, ma sostanziale), che, nel film dello scopritore, il regista Nino Bizzarri, diventava l'oggetto d'affezione di una persona che, proprio come lei, era un'effimero cliente d'albergo.
Ci disse a gesti e sguardi opachi, in quel film, con l'esperienza vispa di una acerba donna poco più che adolescente, che il mondo stava cambiando (in peggio) e che bisognava attrezzarsi alla difesa, chiudersi un po' a riccio, teorizzare timori e tremori perenni, modificando la fluidità spontanea dei nostri corpi, mettendoli di sbieco, in perenne stato d'allarme e di sospetto (sintomatica in La seconda notte, una sua scena davanti allo specchio, versione tragica di una sequenza dadà di Max Linder) e al di qua e al di là dell'identità di specie e genere che il femminismo aveva appena, e irreversibilmente, riaffermato, con la forza.
 
Fabrizia Sacchi e Giammarco Tognazzi in Viaggio sola
E consigliandoci perfino, uscendo dallo schermo già come giovane diva, comportamenti impropri e adocchiamenti volgari: non fu poi lei, assieme al suo compagno di allora, Sergio Rubini, a omaggiare, unica coppia conformista, il presidente Cossiga quando tutto il cinema italiano lo aveva giustamente criticato e isolato? Cos'era quella imbizzarrita 'mossa del cavallo'? Introversione radiante? Distrazione egemone? Polemica anticipata contro il manierismo dell'anti politica? Una cosa così. Una coetanea, Valeria Golino, non a caso stava già preparando le valigie per la California...


Margherita Buy la raggiunge oggi, qualche anno dopo l'epoca di Pee Wee, perché sta arrivato in America, in 19 sale, e non solo a New York (The Paris) e Los Angeles (al Royal), ma nei cinema commerciali intelligenti di ben 11 stati, da Washington a Buffalo, da Miami a Santa Barbara, da Detroit a Minneapolis, da Portland a Pasadena, proprio Viaggio sola, uno dei pochi film italiani acquistati da distributori Usa quest'anno. Il film uscira' dal 18 luglio 2014 e si intitola in inglese A Five Star Life, Una vita a 5 stelle. 
 
La programmazione di questo film negli Stati Uniti conferma l'attenzione critica e di pubblico ccrescente per il nostro cinema del XXI secolo, e soprattutto per le giovani registe italiane. Roberta Torre è stata invitata al Sundance recentemente. Miele, di Valeria Golino, è stato presentato dalla Cineteca America all'Egyptian Theater di Los Angeles in occasione di un omaggio, nel novembre del 2013, al cinema italiano, affiancato a La Dolce Vita di Fellini e a A Five Stars Life. Ad Alice Rorhwacher e al suo Le Meraviglie, le migliori riviste specializzate stanno dedicando acuti affondi critici, dopo il trionfo di Cannes (a cominciare a Cineaste). Asia Argento qui è quasi una di casa. Quel che affascina i nostri colleghi e il pubblico d'oltre oceano è che le nostre filmakers, idee originali a parte, riescono a maneggiare, e speziare meglio, la sostanza visuale delle loro opere. In fondo anche Sorrentino ha colpito molto di più gli angloamericani dei francesi e degli stessi italiani per la stessa ragione. Conoscono di più, e apprezzano in modo più sofisticato degli europei il lavoro sull'immagine in movimento, la sua sostanza fotografica, spaziale, luministica. Illuminante, in questo, la grande fotografa (anche del cinema) Elisabetta Catalano, quando mi spiegava che secondo lei La grande Bellezza ha restituito, e a colori, non tanto il fellinismo come tocco d'autore inimitabile, quanto le più belle scene girate in bianco e nero dai grandi cineasti italiani degli anni 50-60, realisti, grotteschi, ascetici o lisergici contemporaneamente, da Rosi a Lattuada, da Antonioni a Maselli, da Ferreri a Pasolini, da Olmi a Fellini. E' questo ha fatto impazzire l'Academy e la Foreign Press, ma californiana, dei Golden Globes, molto più colta dell'Europa sulla sostanza visiva (e non letteraria) di una immagine. Non si spiegherebbe altrimenti neanche l'entusiasmo americano per Visconti ristudiato da Io sono l'amore di Luca Guadagnino o per Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, dove si ricomincia da Anghelopoulos, due film che in Italia sono passati quasi inosservati o mal criticati. 

Viaggio sola, il nuovo film di questa nostra antidiva è andato molto bene anche commercialmente in Italia. Margherita Buy è Irene e duetta (anche nelle suite) con Andrea, che nella trama è un ex diventato amico del cuore, ed è una vecchia conoscenza, Stefano Accorsi, qui maniaco del biodinamico e distributore di cibi di qualità (tanto per ironizzare su Ozpetek?). Questo film è, stranamente, proprio un film sui grand hotel, quei sontuosi templi delle jacuzzi, del Martini cocktail agitato e non shakerato, della sauna, della piscina panoramica e dell'intimità negata, come scoprirà diventando l'amica casuale di una antropologa tedesca dall' eccitazione sessuale" imperante.

controllo delle lenzuola...
C'è un altro 'movimento 5 stelle' che appartiene a happy few, e non a uno solo. Di questo si occupa questo raffinato film, per il 17% di produzione Rai (che, non avendo il naso per gli affari, finanziano solo opere di qualità, ma per non insuperbirsi troppo, le finanziano con un nonnulla), dai cento piaceri (il soggiorno è da nababbi) e dolori (il conto alla fine, da emiri arabi) anche obliqui. I vestiti di Irene sono di Armani. Quasi quasi si ascolta un concerto di musica dodecafonica. E Alban Berg non abita a Cinecittà (in realtà non si sente, ma il montaggio 'atonale' di Walter Fasano ne dà un'idea). Si ammira come Irene tratta le nipotine, insegnandogli l'educazione, fatica da Ercole. E si gode dell'incontro/scontro, in automobile. Zeppo di perfidie sorellesche, tra Irene-Margherita Buy, la distratta intellettuale, e Silvia-Fabrizia Sacchi, che qui della distratta dà una versione popolare di charme pop: una mamma che si dimenticata tutto, e, sempre, le chiavi di casa e della macchina, ma che prosciugata dalle figlie, si è dimenticata anche del proprio corpo, dei vestiti sexy e delle scarpe coi tacchi di 15cm, abbandonando il marito musicista (il fratello della regista, Gianmarco Tognazzi) al bromuro digitale eterno di Internet. Niente sesso nei film, per il 17% di produzione Rai. Ma un bel po' di 'stronza!', tra donne, si può dire.
 
Margherita Buy è comunque quasi sempre via da Roma, e visita uno dopo l'altro, aeroporto-taxy-hotel, i migliori '5 stelle' della terra, ne valuta pulizia, arte, cucina, campo da golf, perfezione di gestione, timing e qualità dei servizi, attenzione o disattenzione esagerata verso i clienti, per decretare, tramite complicati algoritmi, formulari, quiz e osservazioni dirette, il mantenimento o la perdita del marchio di superqualità. E' il suo lavoro. E' una sorta di vestale della guida Michelin. Questi 'non luoghi' spersonalizzanti, odiosamente o sciccosamente di classe, sbriciolano la sua vita e la cosa le garba. Gli sceneggiatori avrebbero potuto divertirsi un po' di più... Libertà assoluta, nessun legame che la paralizzi o la condizioni. Qualche flirt fugace, che a volte funziona (si presume) e a volte no (come si vede a Marrakesh). Margherita Buy è una non casalinga inquieta. Algidi i suoi spazi domestici romani, e forse proprio per questo fu impossibile la relazione con Accorsi, che nei sottintesi è in cerca di coppia stabile e di figli (li avrà). L'uomo non è più come una volta.
Il film, dunque, e neppure obliquamente, è un omaggio proprio a questa attrice il cui corpo domina, a stento - ma più di un comico alla Jerry Lewis o alla Jacques Tati - l'illogicità dei consumi, la fatica del recettore diventato produttore (Magherita Buy compila, per lo spettatore, un promemoria: che anche nei cinema si valuti il film attentamente...nei dettagli), delle relazioni interprersonali e delle emozioni private dei tempi postmoderni, ed è indocile a ogni copione che non voglia partire dai suoi movimenti e comportamenti slabbrati, eccentrici, posterotici e sempre dalla parte del contorto. Perché semplici, naturali, razionali. Cose che fanno paura.
 
Maria Sole Yognazzi
Buy ne attraversa una decina, di super hotel, da Parigi a Fasano di Brindisi, dalla Toscana alla Sicilia, da Berlino a Shanghai...Ricorda un po' Billy Wilder, inebriato dal Ritz e da Audrie Hepburn nella ville Lumiere e fino ad Avanti! e a Buddy and Buddy... storie satiriche che privilegiavano sempre il super lusso e raccontavano, con arguzia al vetriolo, quel che Wilder ormai conosceva meglio, visto che vi passava gran parte dei suoi ultimi anni, tra festival e giurie, inviti a retrospettive o omaggi in tutto il mondo. Passano tutti negli hotel, c'è la folla concentrata, i vincitori e i vinti, i just in time e i fuori tempo. Bel mareriale per un regista.
Maria Sole Tognazzi, che mette in scena senza farsi prendere dal vizietto dello stile da esibire, ed è cosceneggiatrice con l'esperta Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, è molto più giovane di Wilder. La sua conoscenza dei 5 stelle e dei resort, che sono un po' l'esperanto spaziale di ricchi e manager con yacht superiore a 17 metri, star e vip, sembra più intima, intensa e altrimenti autobiografica. Si vede che li conosce alla perfezione, quei luoghi 'secrettati', e non solo per essere la figlia di Ugo. Ne calibra intimamente difetti e grandezze. Questo dà al film una sostanza conoscitiva speciale e intima.

Su come sono glamour, su come sono inaccessibili. Su come sono anche freddi, anonimi, senza vita, asettici questi spazi damascati, fioriti e diversamente profumati. Mi piace, infine, che questo sia un film improprio, avulso, paria, né commedia italiana né dramma sentimentale. Un film che imbarazza il critico perché fa critica (del cinema limitrofo esistente di sistema o antisistemico, notare quel finale con svolta 'quasi alla Diritti', e non poco parodistico) senza compromessi e ammanicamenti; poi perché è un film didattico, in senso rosselliniano: ma invece di parlarti dell'età del ferro o di spiegarci Socrate, ti da una serie di dritte su come comportarsi con il barman dell'Excelsior, utilizzando un espediente alla ministro Urbani (il “product placement”: come utilizzare gli sponsor dentro il film senza farsene possibilmente accorgere) per esibirne virtù e limiti, orrori e piaceri. Ormai, dopo averlo visto, gli italiani di tutte le classi sociali finalmente entreranno nelle hall degli alberghi e metteranno in soggezione chiunque, non solo i bellboy.



domenica 6 luglio 2014

Antologia. Stephen Harvey su Paul Mazursky

Il regista, sceneggiatore e produttore Paul Mazursky
di Stephen Harvey *

Forse il film piu' emblematico dei primi anni 70, almeno nel senso che riesce a cogliere l 'atmosfera che pervadeva la Hollywood del tempo, e' stato Alex in Wonderland di Paul Mazursky. Questo film, cosi' ostentatamente "personale" parla di un giovane regista che affonda nelle secche della "New Hollywood" .

Donald Sutherland in Alex in Wonderland
Reduce dal passeggero successo del suo primo lavoro, il protagonista interpretato da Donald Sutherland non sa decidersi ad affrontare il soggetto del suo nuovo film. In mezzo a inconcludenti riunioni di produzione con il suo produttore, il nostro eroe si perde in fantasie felliniane su un film che probabilmente non si fara' mai.

In un certo senso Alex in Wonderland risulta essere una riflessione sull'epoca molto piu' accurata di quanto Mazursky si rendesse conto mentre lo realizzava: come il suo immaginario soggetto, il film si muove nella vana ricerca di un sicuro filo narrativo, spermentando lungo la strada una eclettica varieta' di stili. Eppure molto, troppo tipicamente, al momento della sua uscita, Alex in Wonderland fu lodato dalla maggioranza dei critici e accolto con indifferenza dal pubblico.

Il poster del film
* dal saggio "Il nuovo pubblico tra gli anni 60 e 70" in Hollywood 1969-1979 Immagini Piacere Dominio. Libro a cura della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro 1979 (Editore Marsilio)



VERSO I CINEMA SEGRETI. E VIVA JOHN BADHAM

Una domanda a Paul Mazursky, nel 1979.....


Ma ci sara' ancora un pubblico per il cinema nel futuro?

La gente va ancora al cinema, ma non sarei sorpreso se tra 10 o 15 anni venisse sostituito anche nelle case piu' povere una uno schermo casalingo. La tecnologia va molto veloce. E' arrivata quasi prima di quanto prevedesse George Orwell di 1984. Ma io sono ottimista riguardo alle qualita' umane dell'individuo. Alla fine vinceranno. Fose ci saranno cinema segreti, ma ci saranno.

Paul Mazursky
Il cinema aveva un po' il ruolo di pubblico confessore, e oggi gli e' stato tolto da questi capi di sette pseudo religiose che vanno tanto di moda. Aveva preso il posto del buffone di corte, del clown e della commedia delll'arte e gli e' stato tolto a sua volta dalla televisione. Credo che dovremmo tornare un po' alla tradizione di puro entertainment che aveva il cinema una volta. In questo senso per me Saturday Night Fever e' un buon film.

Il conflitto tra l'aspetto creativo e l'aspetto economico e' una delle attrattive maggiori di questo lavoro. Come lo e' la sfida rappresentata dal pubblico. Puoi fare tutte le previsioni che vuoi, investire tanti milioni, ingaggiare i migliori attori, avere il regista del momento, poi il pubblico si annoia. Se c'e' un bel film ma la gente dice che e' noioso, e' impossibile costringerla ad andarlo a vedere. Cosi' come e' impossibile impedirglielo se c'e' un film orrendo che tutti dicono che e' divertente! Dal mio punto di vista Harry e Tonto, la storia di un uomo anziano e di un gatto, avrebbe dovuto fare molti soldi. A New York 18 critici su 20 ne  hanno parlato bene. Ma dopo due settimane e' stato tolto dalla circolazione. Il pubblico e' imprevedibile....

venerdì 4 luglio 2014

O Troma o morte. Lloyd Kaufman, il Barnie Sanders del cinema mondiale


di Roberto Silvestri

La violenza, l'umorismo e la brillantezza dark dei fumetti per adulti, riprodotta dal vivo e a basso costo. Pura pulp fiction quella realizzata e prodotta, dal 1968 ad oggi, dal quasi settantenne cineasta newyorkese Stanley Lloyd Kaufman jr.. in circa 800 svitate satire coloratissime (nessuna arrivata in Italia, festival a parte).
In questi mesi Troma, la societa' fondata con Michael Hertz, festeggia 40 anni di film eccentrici, irriverenti, liberi, divertenti, indipendenti, indigesti e splatter. Nelle opere horror e fantasy della Troma non mancano mai gambe spaccate e spezzate che volano, fuochi d'artificio di budella, scomposizioni corporali piu' che cubiste. O dialoghi sessualmente e politicamente piu' che espliciti. E neppure un'automobile che fa le capriole e va a pezzi. Anzi quella scena, complicata dall'intrusione di un clown in bici e' talmente adorata dai fan da essere diventata il tormentone di ogni film, anche se non c'entra nulla con il contesto dell'azione.
Come regalo ai fan per i 40 anni, Troma ha aperto la library all'accesso libero in streaming: si possono ammirare cosi' Troma's War, i quattro Toxic Avenger, l'eco-giustiziere piu' pacifista della storia, Poultrygeist: Night of the Chicken Dead; Class of Nuke' hem High, Return to Nuke'hem High (definito da Kauffman: “la mia Cappella Sistina”), Surf Nazi must die, Terror firmer e tanti altri classici trush adorati e stracitati da Tarantino. Ma la festa piu' gradita e' stato l'omaggio del Museo d'Arte Moderna di New York, nel gennaio scorso. Il piu' autonomo e scomodo regista d'America si e' cosi' vendicato della stampa autorevole che lo ignora e del dottor Heffner, il censore, boss della Mpaa, che definendo i suoi film “puzzolenti” marchia perennemente con la “R” le satire splatter che Kaufman produce, scrive, monta, dirige (e promuove). Scippa cosi' i Troma al suo pubblico d'elezione, gli adolescenti. “Mi piacerebbe che il dott. Heffner bruciasse all'inferno – confessa Kaufman al Village Voice - per la sua arrogante faccia tosta”. Ma i film Troma fanno davvero paura. Sono anarchici e scandalosi, animalisti, anti razzisti, anti sessisti, anti nuclearisti...E di graffiante cattivo gusto, come si intuisce dai titoli: The Good, the Bad and the Subhumanoid, A Nymphoid Barbarian in Dinosaur Hell, Bikini Swamp Girl Massacre o Tromeo and Juliet... Indaffaratissimo anche come attore (ha appena interpretato un ubriaco, due volte il presidente Usa, Hitler, e, a Londra con Gunn, un prigioniero nel Kiln...) in produzioni no budget di amici (“Non prendo una lira, non come ai bei tempi di Avildsen, di Joe, Rocky e Il pornocchio"), Kauffman e' sposato con Pat Swinney, ex presidente dell'associazione mondiale delle film commission e per 30 anni di quella newyorchese. Conflitto di interessi? No. I Troma movies sono tutti girati in New Jersey. Kaufman fisicamente sembra Mel Brooks, ma e' più asciutto e salutista (vegetariano praticante, per sfuggire all'avvelenamento da junk food destino di chi, negli States, non ha una lira e rischia un futuro genetico da obeso-plastico). I suoi bersagli preferiti sono la destra fanatica dei tea party e i democratici 'in limousine', Al Gore, i due Clinton e Jesse Jackson. Inoltre il pietismo ipocrita. Nei suoi film i diversamente abili, presenza fissa, entrano in campo, lottano, sono cattivi e massacrati di botte. Proprio come tutti gli altri. Svezzato a classici hollywoodiani (Renoir compreso) e comics book, i suoi registi d'affezione sono Takashi e Deodato, grandi amici Michael Moore, Fred Camper e Stan Lee, il genio della Marvel con cui scrisse Night of the Witch, mai diventato film. Altro sogno autoriale sempre in societa' con Stan Lee, e infranto pure quello, fu il copione di The man who talked to God, che Alain Resnais non volle mai dirigere.


Troma che vuol dire?
Non significa niente. E' solo la piu' brutta parola che ci venne in mente nel 1974 quando, per lanciare la commedia da college, Squeeze Play, serviva un marchio. Ma oggi se si dice film Troma tutti sanno cos'e'. Se si dice film Universal, invece...”. La crisi ha tagliato i dipendenti da 25 a 12, ma il motto resta: “fare i film che vogliamo, anche se perdiamo soldi”. Tutti i Troma si ambientano nell'inquinatissima Tromaville (dove anche i polli si mutano in zombie) di cui Kaufman e' il sindaco. Il Tromadance, festival off, e' a giugno, in New Jersey. Fino al 2015 l'approdo Troma a Cannes era d'obbligo e la parata di mostri Troma un must. Nel 2016 lloyd Kaufman ha tagliato il viaggio promozionale. Un segno davvero preoccupante. Per Cannes.

mercoledì 2 luglio 2014

Paul Mazurski, ovvero come fare fuori la controcultura

Mazursky in Wonderland. E’ morto il regista di “Stop a Greenwich Village”


di Roberto Silvestri

Era cosi’ legato alla controcultura, all’era dell’Acquario che - si mitizzava - avrebbe capovolto il mondo, allo scontro tra i sessi mutanti, al cinema d’arte europeo  e al ventennio ruggente  e pop dei sessanta/ottanta che Paul Bartel nel 1989, lo volle nel cast della commedia al vetriolo “Scene di lotta di classe a Beverly Hills”.
Un capolavoro che chiuse quell’epoca di speranze e fermenti ed e’ stato il manifesto piu’ feroce mai realizzato sull’incarognimento dei tempi e sull’America devastata dal decennio Reagn-Bush padre. Non a caso Paul Mazursky interpretava il marito di Jacqueline Bisset, ma in forma di fantasma che, un maialetto al guinzaglio, perseguitava quella donna che si era arresa all’avidita’ e a tutto il resto del catechismo criminale dei contro valori borghesi.  
Il regista, attore, sceneggiatore e produttore Paul Mazursky - un collega di Eli Wallach ai corsi di Lee Strasberg all’Actors Studio - morto lunedi’ scorso a 84 anni a Los Angeles , portabandiera negli anni settanta di quel cinema americano fortemente contaminato dal cinema d’autore europeo, negli ultimi  venti anni era “scomparso” dai set e dalle cronache, a parte qualche retrospettiva eccentrica che si organizzava qua e la’ nel mondo.
Nato nel 1930 a Brooklyn da una famiglia ebrea russa, figlio di un tipografo di giornali, attore televisivo, dal 1959 in California, sceneggiatore del Danny Kaye Show, dopo il folgorante successo ottenuto con cinque o sei film, non era proprio riuscito ad adeguarsi al mutare dei tempi, almeno dopo Moscow on Hudson del 1984, che aveva la pretesa di rovesciare Ninotchka, raccontando la storia di un sassofonista sovietico (Robin Williams) che dopo aver scelto la liberta’, si fa vincere dalla nostalgia per la patria perduta, anche se tutti erano convinti in quegli anni che si trattasse dell’Impero del male.
Insomma, un po’ come Henry Jaglom, John Jost, Alan Pakula, Hal Ashby, Peter Bogdanovich o John Avildsen, Mazursky proprio non voleva scendere a patti con i nuovi padroni del giocattolo, banchieri anzi impiegati di grandi conglomerati del tutto ignoranti delle faccende dell’arte,  interessati solo ai blockbuster e alla techno-visione col pop corn incorporato perche’ volevano dire bei profitti. Dopo due o tre flop, Storie d’amore e infedelta’, 1991, e Buona fortuna, Mister Stone (1993) cosi, Mazursky fu dichiarato ‘paria’ da Hollywood. Se la direttrice di Ciak Piera De Tassis in questi anni avesse messo una sua foto in copertina, in una botta di nostalgia per Stop a Greenwych Village, l’avrebbero licenziata in tronco. Rischio’ il posto, figuriamoci, perfino per aver osato dedicare un numero a Clint Eastwood, un primo piano troppo vecchio per essere in idolo dei teenager….Solo de Oliveira a 106 anni, e in Portogallo, viene omaggiato come una leggenda vivente.
Pur non avendo raggiunto la celebrita’ dei suoi compagni d’avventura della “new Hollywood”, come Francis Coppola, Woody Allen, Martin Scorsese o Robert Altman, Paul Mazursky, nonostante le 5 candidature agli Oscar,  il suo senso dell’umorismo newyorker, la sua intelligenza di matrice yiddish, la sua finezza extraparlamentare, le argute facezie di cui disseminava commedie fantasiose e libertarie, e anche molto autobiografiche, un po’ come se fosse il Fellini di Brooklyn, non si volle mai sganciare dagli anni 70 e dall’utopia di un cinema coraggioso e sfrontato, capace di fare i conti con la vita che urla (non solo di gioia) e di graffiare a fondo la realta’ senza passare per la metafora, il mito, il canone rigido e i super eroi dal retrogusto acido, che era stata invece la strada scelta dagli affiliati piu’ giovani della new Hollywood, Lucas, Spielberg, Zemeckis, Badham, Carpenter e Milius. Loro, i cormaniani, presuntuosamente, volevano egemonizzare Hollywood. Ci provarono, e perdettero. Mazursky se ne teneva un po’ alla larga. Welles era il suo modello, piuttosto. Mazursky inoltre era un po’ troppo newyorkese eretico per preoccuparsi della carriera e del successo. Non propri come quell’estremista di Robert Kramer, che se ne ando’ in esilio in Europa. Ma il suo esodo lo porto’ in  California. Un po’ come aveva fatto Cassavetes. Uno dei manifesti della new Hollywood fu cosi’ la sua opera prima, subito candata all’Oscar, Bob & Carol Ted & Alice (1969), due coppie borghesi annoiate si scambiano i partner, ma la cosa non e’ proprio liberatoria. Girato addosso a due idoli del momento, Elliot Gould e Robert Culp, piu’ l’eterna Natalie Wood e Dyan Cannon, faceva certo la satira sottile della rivoluzione sessuale, ma non istigava al puritanesimo ne’ alla repressione dei sensi e gli scambisti da palestra di oggi dovrebbero dargli un’occhiata, per annoiarsi un po’ meno. Mazursky lo giro’ come opera prima dopo aver scritto per Peter Seller I love you, Alice Toklas. In quegli anni faceva coppia comica fissa, sulla scena e sulla scrivania, con Larry Tucker. E l’esordio li catapulto’ subito al quinto posto nella classifica di incassi. Stava avvenendo una mutazione antropologica nel pubblico americano. Oppure tutto il pubblico “normale” di prima non c’era piu’ perche’ era andato a sparare in Vietnam e per lo piu’ era morto? Oggi un film cosi’ difficilmente te lo farebbero fare.  Il successo del “quartetto di Los Angeles” permise a Mazursky di realizzare due film intimi, girati in prima persona singolare maschile e piuttosto originali, Alex in Wonderland,1970, con Donald Sutherland, un giovane canadese, altro divo del momento, ed Ellen Burstyn (la bionda indispensabile, come l’afghano nero, per fare epoca) che era proprio un fantasy fuori di testa, alla Fellini 8 e ½, per tutta la vita il suo unico vero idolo, il suo oggetto d’affezione totale. Massimo Troisi proprio dopo avere visto quel visto deve aver deciso che l’opera seconda era meglio non farla, o comunque era meglio intitolarla Ricomincio da tre.  Del 1973 e’ Una pazza storia d’amore, e di rimatrimonio come negli anni trenta,  con George Segal che, infedele compulsivo, cerca di strappare la ex moglie al un musicista rock (Kris Kristofferson) buono bello e drogato, e ci riesce, mettendola incinta, pur giocando fuori casa (a Venice, Los Angeles). Due fiaschi. Per fortuna si riprende con Harry and Tonto (1974), con Art Carney che vincera’ la statuetta aurea per il miglior attore dell’anno (strappandola a Dustin Hoffman, Jack Nicholson e Al Pacino) anche se il suo ruolo, un professore di 72 in pensione, e’ costretto a fare l’easy rider per gli States, dal west al Midwest, dal New Jersey alla prigione, che divide con un nativo, con solo il suo gatto per amico e compagno d’avventure. “Se la vita e’ un fiume, un uomo deve combattere o affoghera’ ”, era il suo motto. E, l’epitaffio finale, che dedichera’ al gatto Tonto: “La vita e’ confusa, ma ho fatto del mio meglio per venirne a capo”. Il primo amore, la prima canna e i primi fallimenti di lavoro e sentimentali di un aspirante attore avvengono dalle parti di Bleeker Street, al West Village di Manhattan, proprio come era successo al giovane Mazurszky appena diplomato al Brooklyn College. Siamo in pieno Next Stop to Greenwych Village del 1976 che anticipa un altro grande elogio alla grande Mela e alla sua eroina, “la donna tutta sola”, l’americana indipendente che gia’ e’ Hillary Clinton. Bernardo Bertolucci e non solo lui sara’ folgorato da Jill Clayburgh, mamma di una ragazzina adolescente che rinuncia all’Upper Side dei ricchi e si butta senza paracadute, ma in piena indipendenza, a Soho, a rischiare, perche’ vivere spericolatamente e’ piu’ bello che annoiarsi con i soliti giochini ipocriti coniugali. Un Unmarried woman e’ del 1977 e Clayburgh vince il premio di Cannes per la sua performance raffinatissima e sexy. Il geniale critico di Chicago Roger Ebert scrivera’ che e’ uno dei film piu’ divertenti, commuoventi e veri che abbia mai visto. Oltre a Fellini un altro dio del pantheon di Mazursky e’ Francois Truffaut. E nel 1980 ecco che gli dedica Phil and Willie  (“Io, Willy e Phil”) il suo Jules et Jim. Ancora New York, le canne con libanese e il marocchino, il mito dell’India spiritualmente bella, e ancora la ricerca, non lineare, della propria identita’. Un professore ebreo di inglese che vorrebbe essere bravo come Bill Evans e un fotografo italoamericano che vorrebbe essere un intellettuale a la page almeno come Susan Sontag fanno amicizia vedendo in un cineclub Jules et Jim  e poi incontrano una ragazza del Kentucky (Margot Kidder) che vorrebbe comportarsi da bellezza metropolitana e intanto diventa la loro provinciale Jeanne Moreau. Insomma nessuno e’ a proprio agio in questo mondo, l’umorismo da’ quanche consolazione, ma la disperazione e’ dietro l’angolo. Anche perche’ il cinema europeo, per Mazurszky si’ che e’ bello, anche quando e’ trombone e pretenzioso, mentre quello americano e’ sempre proprio una noia. Una considerazione che non gli perdoneranno mai in patria. Nonostante qualche altro successo come Su e giu’ per Beverly Hills   che, tra Renoir di Boudu salvato dalle acque e Pasolini di Teorema, mette caos nell’ordine della ricchezza losangelina, introducendo un barbone (Nick Nolte) in una lussuosa villa dei quartieri alti e sbriciolando l’identita’ del padrone di casa (Richard Dreyfuss) che si vedra’ portar via tutto, anche l’amore della moglie e della figlia (le musiche sono dell’ex Police Andy Summers),  saranno maltrattati o ignorati i suoi ultimi lavori: Nemici, una storia d’amore (1989) tratto da un romanzo di Isaac Bashevis Singer del 1966, con Ron Silver, intellettuale ebreo fuggito al nazismo, che a New York vive una doppia e complicata storia d’amore che diventa addirittura triangolare quando riappare la moglie (Anjelica Huston) che lui credeva assassinate in un campo di sterminio (il film strappera’ comunque due nomination all’oscar per le attrici, la Olin e la Huston). In Storie d’amore e infedelta’ (1991)  Woody Allen e Bette Midler il giorno dell’anniversario di matrimonio, tireranno fuori tutte le loro reciproche malefatte e tradimenti e le loro corde vocali e gestuali, prima di riconciliarsi, ma nonostante le performance attoriali squisite siamo pigionieri di un copione senza sorprese e tensione mentre in Buona fortuna, Mr. Stone (1993) che, nonostante il titolo, fu malaugurante, torna all’autobiografia. Danny Aiello, tra Dyan Cannon e Sherley Winter, e’ il regista indebitato e in declino che cerca di risollevarsi con un film demenziale (Il cetriolino) lascia la Francia e torna negli States ma viene perseguitato da tutti, ex mogli, figli, produttori, amanti, attricette e giornalisti che cercano di dissanguarlo.
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martedì 1 luglio 2014

Mondiali di calcio in Brasile. Una mutazione genetica. Il soccer primo sport mediatico d'America

Roberto Silvestri
Los Angeles



Il calcio nel nord America sta superando, come affare pubblicitario e mediatico, dati alla mano, il basket e il baseball. E si avvia a diventare il primo sport televisivo in assoluto.... Forse gli Stati Uniti, tredicesimi nella classifica Fifa, tra poco piu' di un'ora non ce la faranno con il Belgio, undicesimi nella classifica Fifa, favoritissimo dopo un girone di qualificazione stradominato. Ma anche se sabato prossimo la coriacea equipe di Jurgen Klinsmann non affrontera' l'Argentina di Messi, nei quarti di finale dei mondiali brasiliani che esprimeranno le accoppiate dell'8 e 9 giugno (Germania, Brasile, Olanda e...), il calcio nordamericano maschile avra' gia' vissuto, sui campi e fuori, il suo momento magico.
Jurgen Klinsmann
I dati di ascolto televisivi hanno superato quelli della finale Nba e delle World Series. 25 milioni di spettatori si sono collegati con Espn, Univision (il canale in lingua spagnola) e le varie applicazione internet per seguire il match Usa-Portogallo. Un recordo che, dati della Nielsen, e' stato superati dall'incontro Germania-Usa e sara' stracciato tra poco. Non ha superato 15,5 milioni di telespettatori la finale del campionato di basket e 15 milioni le world series di baseball. Cifre impressionanti, anche se i mondiali si svolgono solo ogni 4 anni. L'America ha ritrovato, comunque, la febbre perduta per il futebol.

Clint Dempsey 
Certo, merito della popolazione latina in grande crescita. Rappresenta oggi il 17% del totale, erano il 10% 20 anni fa. Dato ancora piu' importante il movimento calcistico giovanile. Tre milioni di praticanti oggi, 100 mila nel 1970. Inoltre un'ora sola di differenza di fuso orario con Rio de Janeiro ha facilitato la visione delle partite a New York, rispetto alle sei ore di differenze con il Sudafrica e alle 11 con la Corea del sud, nel 2002. Infine. Oggi il 77% degli utenti televisivi posseggono schermi ad  alta definizione. Erano un terzo in meno 5 anni fa.

Alexi Lalas, oggi
Bisogna aggiungere che le riprese delle partite non hanno mai patito quelle mitragliate di spot pubblicitari che approfittano sadicamente della struttara frammentata degli altri sport. Neanche uno spot. E questo deve aver avuto un effetto shock e subliminalmente piacevole per gli spettatori, soprattutto per quelli poco abituati al calcio. 

Da 20 anni rinata, la Major Soccer League ha conosciuto un lento ma crescente aumento di popolarita'. Tanto che alle nove di mattina perfino Italia-Uruguay era seguita al Fox and Hounds bar di Studio City da una trentina di spettatori, neanche 'etnici', secondo il Los Angeles Times.  Molto informate e in stile anglosassone le telecronache (certo piu' pittoresche quelle latine, ma altrettanto tecniche). Rispetto alla nostra Rai e a Sky e' molto piu' limitato l'uso del repley e un po' esagerato lo spazio concesso alle riprese in sky-cam con le sue deformazioni spaziali spettacolari e suggestive ma poco rigorose. I programmi di commento alle partite sono molto ben fatti, e tra gli esperti sono stati chiamati campioni come Michael Ballack e Alexi Lalas (capelli ormai tagliati), acuti, colti e spiritosi.
Insomma e' passato cosi' completamente, e finalmente, quel fastidioso complesso di inferiorita' della nazionale maschile (composta di nomadi e girovaghi, come molte altre equipe) rispetto al calcio femminile. E' stato, grazie a Rio 2014, come tornare ai mitici anni venta e trenta del secolo scorso e della Usfa, quando - prima che la grande Depressione e certe gravi incomprensioni con la Fifa, e relative espulsioni temporanee, sfasciassero tutto - il calcio americano era tra i piu' grandi del mondo e popolare quanto baseball, football, basket e hockey su ghiaccio.
Furono terzi gli statunitensi ai primi campionati mondiali di calcio del 1930, in Uruguay. E in quella occasione gli Usa batterono guarda caso proprio il Belgio per 3-0, nella prima partita in assoluto dei mondiali. E poco dopo il Babe Ruth del soccer, Bert Patenaude, segno' la prima tripletta in un mundial, quella con la quale regolo' il Paraguay. Bei tempi. Poi, per 40 anni, il buio... Ma oggi in California non c'e' caffe', pub, bar e perfino piazza che non abbia allestito i suoi mega schermi per seguire gli incontri, per quanto si svolgano alle 9 e alle 13 di mattina. Cosi' a New York. Ma anche nel profondo middle. 

Nonostante la bella stagione dei Dodgers, qui tutti parlano solo di soccer. Le pagine sportive dei giornali e dei telegiornali hanno dedicato al morso di Suarez o all'elimiazione del Messico piu' servizi che alla Williams fatta fuori a Wimbledon. Omar Gonzales, dei Galaxy, e' forse addirittura piu' amato oggi, di Adrian Gonzales, il numero 23 dei Dodgers. 

Inoltre.  200 mila sono stati i biglietti acquistati dai tifosi americani, una cifra che supera di gran lunga quella di qualunque altro esercito di spettatori nazionali europei, asiatici e perfino sudamericani, disposti a pagare da 3000 a 6000 dollari per essere presenti in Brasile alla Coppa del mondo. Certo, gli yankees e i rednecks hanno molti piu' dollaroni degli altri. Ma molti torneranno a casa anche se gli Usa passeranno ai quarti. La crisi morde ancora. E anche i pochi giorni di ferie... 

A giudicare dalle cronache sportive i brasiliani poi hanno anche superato l'istintiva, atavica e piu' che giustificata, diffidenza nei confronti degli amerikani. Circondata, a Manaus, a Natal, a Recife, dal calore indemoniato e pittoresco di decine di migliaia di tifosi camuffati da Wonder Woman, Captain America, cow-boys o lottatori di wresting (“era il sogno della mia vita intonare l'inno nazionale assieme a un intero stadio, e che cio' sia accaduto in Brasile, e' ancora piu' estasiante” ha commentato Michael Bradley, dopo il match con il Ghana, ancora con un groppo alla gola) la nazionale di calcio e' coresponsabile di un altro record, che fa affermare, con cognizione di causa, a Klinsman, l'allenatore tedesco degli Usa, che ormai “possiamo battere chiunque”.   

E' il record dei twitter nordamericani. i rigori dopo i supplementari di Cile-Brasile hanno scatenato una attivita' sui social media superiore a quella del febbraio scorso alla fine del Superbowl, 389 mila twitter. Mentre quando i Denver broncos hanno vinto il Superbowl il traffico twitter ha solo toccato le 382 mila unita'. Pero' l'intero Superbowl ha scatenato 24,9 milioni di twitter, contro i 16,4, record finora dei mondiali, toccato sabato scorso.