martedì 26 gennaio 2016

Il colore dell'Oscar. Sulle polemiche tra comunità nera e Academy Awards










di mariuccia ciotta 

Melting pot.....


L'auto-riforma annunciata dell'Academy of Motion Picture, in risposta alle  polemiche intorno all'Oscar passato in candeggina, non ha placato  Hollywood che  teme la cerimonia di consegna il 28 febbraio al Dolby Theatre, nonostante la presenza sul palco del comico black Chris Rock. Contestazioni e diserzioni di grandi star  sono ancora nell'aria, e il boicottaggio continua, secondo le dichiarazione di Spike Lee, promotore della campagna virale #OscarsSoWhite, che pur apprezzando l'iniziativa di   Cheryl Boone Isaacs, presidente  dell'Academy, ha annunciato che quella sera “Andrò alla partita dei Knicks".  

Spike Lee tifoso dei Knicks

Tre anni sono passati dall'insediamento di Isaacs, donna african-american ma negli ultimi due anni zero nominati di colore “non bianco” e nulla è cambiato nella composizione di genere dei 6000 membri, il 94% maschi caucasici, età media 63.  Troppo lontano il 2020, quando donne e minoranze etniche dovrebbero raddoppiare, secondo la riforma, che per ora ha solo stabilito l'ingresso di tre nuovi membri  nel consiglio direttivo.
E a parte lo scetticismo sui movimenti lenti dell'istituzione che assegna la statuetta d'oro, la città del cinema è percorsa da una controffensiva silenziosa, ispirata alle infelici dichiarazioni di Charlotte Rampling, candidata come migliore attrice, per cui “evidentemente i neri non si meritavano la nomination”. E poi che “vinca chi se lo merita”. 



E qui il sistema per riequilibrare l'Academy diventa insidioso perché nessuno vuol “vincere” grazie al motivo per cui  è stato escluso in passato, il sesso o l'etnia. Eppure il mondo del cinema americano sa che dovrà pur  rimediare agli effetti discriminatori che hanno prodotto (e producono) “indebiti vantaggi per i bianchi”, e non solo a Hollywood. In gioco c'è una nuova forma di Affermative action ( inaugurata da John F. Jennedy nel 1961), l'”azione positiva” che mira a ristabilire principi di equità etnica, sessuale e sociale, e ha il suo precedente storico nella Reconstruction Era,  quando dopo la guerra civile americana, per un breve periodo (1865-1877) i neri del Sud  godettero di pari diritti e di piena libertà.

Chery Boone Isaacs, presidente dell'Accademia
Insomma, non sarà facile per  Cheryl Boone Isaacs rispondere alle sollecitazioni di Spike Lee “fa' la cosa giusta”.
Le anticipazioni, però, sembrano promettere bene. Evitata la pratica controversa delle “quote”,  la riforma propone di far decadere il diritto di voto dopo dieci edizioni  agli associati non più attivi, così da rinnovare il “parco” dei votanti, che di conseguenza inviteranno altri nuovi soggetti (basta la raccomandazioni di due membri). E se il diritto d'ingresso e di voto a vita resta esclusivo per  nominati e vincitori dell'Oscar, la rimozione dei “baroni” permetterà un'inversione di tendenza, uno sguardo più “ibrido”, anche ai capo-settori (regia, fotografia, sceneggiatura., etc) autorizzati a chiamare chi si è distinto in  film di successo, commerciale o di critica.
Il punto è che non solo i neri e le donne subiscono l'egemonia bianca e maschile, ma il cinema tutto fuori dall'ordine politico-estetico, i film non mainstream. Limite e decadenza dell'Oscar e di Hollywood. Tanto che la “minoranza”  appare proprio quella che siede sugli scranni dell'Academy e premia solo i sapori conosciuti, come nei talent-show.  


La situazione dal 2012 non è migliorata troppo....
Il regista di Creed, a destra di Stallone, Ryan Coogler
i grandi dimenticati.......






domenica 24 gennaio 2016

Gabrielle Lucantonio intervista Bernardino Zapponi. Ricordo di una amica


Gabrielle Lucantonio, in Francia. A 13 anni (foto della cugina Antonia Lucantonio)

 

 

Oggi sarebbe stato il compleanno di Gabrielle Lucantonio, studiosa italo-francese, di cinema, organizzatrice di manifestazioni antisistemiche e di rassegne radicali, saggista squisita, ma prematuralmente scomparsa, giovanissima, il 26 febbraio 2013, a 46 anni, per colpa di una meningite batterica. 

Nata ad Argenteul, in Francia, Gabrielle Lucantonio è stata  corrispondente in Italia di "L'Ecran fantastique". Con Francis Vanoye ha curato il volume su "Profession reporter de Michelangelo Antonioni" (Parigi 1993) e con Antoine de Baecque "la Petite anthologie dei Cahiers du cinéma" in nove volumi (Parigi 2001). Ha scritto "La Politique des auteurs" (Roma, 1999), il libro-interviste "Il cinema horror in Italia" (Roma, 2001) e curato per Rarovideo molti cofanetti-dvd tra i quali quelli su Lars von Trier (Roma, 1998) e Dario Argento (2001). Ha collaborato al libro collettivo "L'eccesso della visione - Il cinema di Dario Argento" (Torino, 2003) ed è stata autrice di "Profondo rock" 2007, studio sulla musica per film di Claudio Simonetti prima e dopo i Goblin. Negli ultimi tempi (fan sfegatata di Freddie Mercury) si era infatti specializzata nello studio del rapporto tra cinema e musica. Ma Gabrielle era soprattutto un'amica e una compagna di lotte. Ha collaborato per anni sia al "manifesto-quotidiano comunista" e al settimanale Alias sia al Sulmonacinema Film Festival, coinvolgendo ospiti importanti come André S. Labarthe, e organizzando laboratori di musica per il cinema con Enrico Simonetti, Fabio Frizzi, Paolo Buonvino e tanti altri... Arrivò a Sulmona anche il fratello Elio, cineasta, portandoci un suo bellissimo lavoro su David Lynch.

Mi piace ricordarla, soprattutto in questi giorni di dolore anche per la scomparsa di Ettore Scola,  pubblicando un'intervista a Bernardino Zapponi (1927-2000). Si tratta dell'unico articolo che mi ha mandato in redazione ma che non è mai uscito sul manifesto. Avevo chesto a Marco Giusti di accompagnarlo, per rendere il tutto più interessante, con uno scritto critico su Bernardino Zapponi, ma Marco non ha mai avuto il tempo di scriverlo...Peccato, una delle mie prime recensioni sul manifesto era stata proprio quella di "Anima persa", diretto nel 1976 da Risi su sceneggiatura di Zapponi...

Avevo conosciuto Bernardino Zapponi proprio andando in automobile con lui a l'Aquila dove Gabrielle (che conobbi in quella occasione) mi aveva invitato a una serata speciale dedicata a Dario Argento e al co-sceneggiatore Zapponi, per presentare "Profondo rosso".
Gabrielle Lucantonio, la prima a destra (foto di Antonia Lucantonio)
Zapponi era una persona affabile, colta e squisita, soprattutto modestissima, tanto che passò tutto il tempo a parlare soprattutto della figlia, che viveva in America e stava diventando una cantante di jazz di notevole livello. Invece di raccontarsi. Come umorista del Marc'Aurelio. Scrittore e romanziere visionario, autore di teatro e di televisione, amico di Scola e Terzoli,  sceneggiature di oltre 50 film per Soldati, Dino Risi, Sordi, Salce, Monicelli, Steno, Sergio Corbucci, Giovanni Fago, Bolognini, Comencini, Scola, Del Monte, Brass, Oldoini, Cavara, Angeli, De Bosio, Liliana Betti, Juan Luis Bunuel, Pasquale Festa Campanile, Di Francisca... e per sette film, dal 1967,  di Federico Fellini, a cominciare dall'episodio Toby Dammit,  per "Tre passi nel delirio", fino a "La città delle donne",  passando per Black notes di un regista, Satyricon, Roma,  Casanova (fu candidato all'Oscar), I clown. La Caserta Film Commission, in suo onore, ha istituito un premio nazionale per i migliori registi di cortometraggi italiani. (r.s.)

 

 

 

 

            INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI

di Gabrielle Lucantonio


Cito Bela Balazs: "La sceneggiatura descrive immagini e registra dialoghi che debbono ancora essere realizzati, in questo è simile al dramma, il quale a sua volta, ci rimanda alla rappresentazione teatrale. Ciò nonostante, il dramma è considerato una forma d'arte letteraria di fondamentale importanza." La sceneggiatura è un genere letterario? Di uguale importanza rispetto al dramma, o magari è un genere più povero?

Sono due cose completamente diverse. Il dramma si può stampare, leggere, declamare. E' basato sulla parola, e l'azione visiva non conta niente. Ogni volta, c'è l'interpretazione di un regista, degli attori, che scelgono una visuale, ma è secondario, perché Amleto è bello anche a leggerlo cosi. Non ha bisogno di una regia. L'opera d'arte è già completa, Amleto è già un’opera d’arte. La sceneggiatura, invece, non è niente, non è un'opera d'arte, se non c'è il film. Ci sono delle sceneggiature che sono particolarmente belle, suggestive. Non si possono scindere dal film: il cinema è immagine, pittura e letteratura insieme che si fondono nel momento della regia.
Il vero autore di un film è il regista: la sceneggiatura può essere bellissima, ma se il regista non la rende, il film è mancato.

Lei proviene dal Marc'Aurelio, dall'avanspettacolo, che difficoltà ha incontrato nell'affrontare il tipo particolare di scrittura che è la sceneggiatura?
Scrivevo dei racconti in modo visivo, che suggerivano molto le immagini. La sceneggiatura mi è più congeniale: nel momento di scrivere, di creare, di inventare delle storie, si proietta un film nella propria testa e lo si descrive come lo si vede. Naturalmente, il film che poi seguirà non è mai quello che si è immaginato. Tuttavia se ci fosse questo conflitto, lo sceneggiatore sarebbe infelice e frustrato.
Il film è sempre diverso, nel bene e nel male. A volta la sceneggiatura migliora, quando ci sono dei registi in gamba, degli autori geniali, ma può anche essere distrutta dal regista, quando sono mediocri e anche pessimi. Ci sono dei film di cui ho firmato la sceneggiatura che non ho nemmeno visto, non mi interessavano. Lo sceneggiatore è un lavoro particolare, ambiguo. Non si sa bene che ruolo abbia: indubbiamente è molto importante, perché suggerisce. Il film nasce bene quando c'è una collaborazione stretta tra regista e sceneggiatore. Nei film che ho fatto con Fellini eravamo molto d’intesa, molto stretti. Non abbiamo mai avuto la minima incomprensione.

Intellettuali, scrittori (penso a Giovanni Verga, a William Faulkner, a Raymond Chandler...) hanno avuto difficoltà a capire cosa fosse la scrittura visiva, e come si scrivevano le sceneggiature. Perché un romanziere ha difficoltà a scrivere per il cinema?
Raymond Chandler si è trovato in difficoltà quando ha scritto i film con Hawks. Succede perché non c’è un’intesa, hanno una personalità molto prepotente, perché sono scrittori. E’ difficile che abbiano l’adattabilità, la duttilità dello sceneggiatore. Dovrebbero capire il mezzo: il cinema è qualcosa di completamente diverso dalla scrittura.  Ma spesso non ci riescono. Tuttavia, molte novelle di Verga si prestano benissimo per il cinema. Mastro don Gesualdo sarebbe un film stupendo, ancora da realizzare. La Terra trema di Visconti non aveva niente a che fare con quel testo.

Le regole di base della sceneggiatura, la sua retorica, si sono formate vampirizzando altri generi (il dramma, la narrativa, il racconto), ed altre teorie (La Poetica di Aristotele, per esempio). La sceneggiatura è più racconto, più arte della rappresentazione, o più scrittura visiva?
E’ una cosa particolare. La sceneggiatura deve essere una narrazione con una suspense ed un'attesa, deve creare subito una presa sul pubblico. Il pubblico deve essere attratto, deve sapere che sta assistendo ad un fatto che si sta svolgendo,  e non deve essere mai abbandonato. Tutto quanto deve essere funzionale a quello che vogliamo raccontare.
Per raccontare una storia bisogna avere le idee molto chiare. Può essere anche una storia vaga, però deve essere chiara. In un film di qualche anno fa, Cléo de cinq à sept di Agnès Varda, c’è una ragazza che ha fatto delle analisi, perché teme di aver il cancro. Lei aspetta di aver il responso di queste analisi, dalle cinque alle sette, e cammina per Parigi. Lei vede tutto nuovo, dal punto di vista di una persona che forse morirà. Questo è una partenza formidabile. Si capisce da queste premesse, che lei ha accettato tutto. Si ferma a guardare una giostra ed è un momento straziante…. Quando alla fine le dicono che ha il cancro, però si potrà curare, è quasi un finale ottimistico. Ho scelto la storia più semplice. C’è però in questo film una suspense incredibile, c’è un’attesa, che c’è sempre stata nella tragedia classica, nella tragedia elisabettiana.
Si raccontano fatti che devono scuotere, fare pensare, riflettere, agitare i sentimenti dello spettatore, metterlo di fronte a se stesso, ad un esame di coscienza. Bisogna raccontare in modo pregnante, stringato, senza nessuna deviazione. Ci sono scene che sembrano deviazione, ma non lo sono. Inoltre, si deve tenere sempre presente il punto d'arrivo, perché alla fine c'è la conclusione, la soluzione del mistero.
E’ una cosa a parte il cinema, non è che si possono tenere presente molte teorie.  Il creatore è quello che crea la tecnica,  ognuno se la inventa a modo suo.

Bernardino Zapponi
Cito Franco Solinas: “Nel mio caso personale, sono sempre partito dal tema, da un'idea narrativa. Per esempio, non sono partito dal concetto di raccontare qualcosa sulla battaglia d'Algeri, ma da un tema che allora sembrava importante, e che era l'apparizione sulla scena del Terzo Mondo. Partito da questo tema, mi sono guardato attorno per stabilire quale fosse la situazione storica che mi permettesse di realizzarlo."
Da che cosa le piace partire: dal tema, dalla situazione, dai personaggi, o da un'altra cosa?
Shakespeare aveva una compagnia teatrale, con degli attori. Aveva un'idea concreta del pubblico: bisognava che la gente andasse a vedere lo spettacolo, pagasse, si divertisse in modo da tornarci per tenere in piedi la compagnia. Sono tutte esigenze da cui derivavano certe scelte: perfino i dialoghi erano modificati da questa necessità. In Amleto durante il duello finale, la madre, parlando d’Amleto che sta duellando, dice: "Non lo fate, egli si affanna, perché è grasso..." Questa battuta l'ha inserita perché l'attore che interpretava Amleto era grasso.  Shakespeare era uno dei nostri, non faceva teoria, faceva spettacolo. Nel cinema, dobbiamo tenere conto di mille cose: la produzione, gli attori che sono a disposizione, il regista che c'è, quale sono le sue esigenze, qual è il genere che non funziona... Dentro tutto questo, uno può inserire una propria ispirazione, una propria idea.  Cosi nascono i film migliori. Non esiste un autore che scrive una sceneggiatura tutta quanto da solo, e poi la fa realizzare. Mi è capitato di fare un film su una mia idea, Piso pisello di Peter Del Monte. La storia era piaciuta al produttore Clementelli che mi aveva fatto scrivere il trattamento, poi lo ha portato a dei registi, tra i quali Peter Del Monte, al quale l'idea è piaciuta, e abbiamo lavorato insieme alla sceneggiatura.

Nei film americani odierni il ritmo diventa "frenetico", e i momenti di pausa sempre più rari. Cosa pensa di questo tipo d’evoluzione?
 Dipende dal tipo di film. Un western è tutto azione, ma l'azione può anche essere nascosta, sottotono. Per esempio, i film di Rohmer, sono azione anche quelli, benché parlino soltanto. Apparentemente non succede niente. Ci sono dei momenti che sembrano vuoti, ma servono anche questi. Per esempio, è stato rimproverato a Hitchcock, negli Uccelli, una scena in un bar, dove c'è un ornitologo. Perché non l'ha tagliata? Perché c'era bisogno di un momento di pausa, in cui si riflettesse su quello che stava succedendo. Ho scritto con Dario Argento, Profondo rosso, dove abbiamo messo anche delle scene comiche, perché bisognava fare scaricare la tensione del pubblico in una risata.  Piace al pubblico l'evasione, farsi una bella risata: per evitare che rida a sproposito, nei momenti di thrilling, ci dicevamo, facciamolo ridere adesso, così poi aumenterà l’attenzione.

Per lei, il paesaggio, lo spazio, gli ambienti, gli oggetti costituiscono un elemento fondamentale del racconto, o sono soltanto accessori?
In certi casi, il paesaggio può essere essenziale. Durante la notte, è successo di tutto. Di mattina, c'è il sole, il protagonista si affaccia alla finestra e vede davanti a se, il mare calmo, e così riacquista il senso della realtà. Se ci fa comodo il paesaggio, può essere uno stato d'animo.
I film americani sono molto basati sul paesaggio, anche i film neorealistici erano fatti tutto di paesaggio, di macerie, di case diroccate, di strade polverose…
Il paesaggio deve essere sempre funzionale al racconto che stiamo facendo: in Tutti a casa di Luigi Comencini, per esempio, il paesaggio era tutto polveroso, c’erano dei camion… Si raccontava le storie di reduci, di gente  in fuga, di disertori, in un’Italia dissestata. Bisogna, quindi mostrare l'Italia dissestata: i treni che non partono, le corriere che sono sfacciate. Gli ambienti creano un'atmosfera. Per esempio, in M di Fritz Lang, conta molto il clima claustrofobico dei commissariati, pieni di sigari, di gente che fumava… L’espressionismo mostrava quel tipo di mondo: fumoso, poliziesco, sgradevole. Ma il cinema è sempre espressionista, non c’è mai Raffaello, c’è Caravaggio.

Le sceneggiature della Modernità, cioè quelle d’Antonioni, di Wenders, etc, mettono in risalto elementi trascurati finora. Nelle sceneggiature classiche, abbiamo degli eventi-nuclei (i tempi forti) e tra loro degli eventi satelliti (i tempi deboli), che servono a fare riposare lo spettatore. Nelle sceneggiature della Modernità accade quasi il contrario: gli eventi-nuclei, o sono omessi del tutto (la sparizione di Anna nell'Avventura) o accadono fuori campo (l'hold-up nell'Argent di Bresson), o addirittura non ci sono per niente (L'Anno scorso a Marienbad di Resnais). Cosa pensa di questo modo di scrivere le sceneggiature? Lo sente più congeniale a se, o preferisce la sceneggiatura classica?     
Questa distinzione non mi sembra giusta. Nei film classico non  è vero che tutto è espresso, che tutto è detto. Il cinema deve fare intuire, deve lasciare il mistero, deve girare intorno alle cose. I film espliciti sono quelli volgari, che mancano di mezzi toni. Le scene efficaci sono a volte proprio quelle dove tutto è da indovinare. In Da morire, quel film molto bello con Nicole Kidman, si raccontano delle efferatezze con una grandissima discrezione. Si lasciano intuire, la macchina sfiora. C’è una scena dove un personaggio dice: “Vieni qui ti devo fare vedere una cosa.” Escono di campo. Vediamo soltanto un lago. Il personaggio dice poi, al telefono: “Tutto fatto. L’ho buttata nell’acqua.” Questo è un esempio di Modernità, altro che Antonioni. 

Bernardino Zapponi
I film di Antonioni non le piacciono?
Antonioni non mi ha mai entusiasmato. L’Avventura però mi è piaciuta. Blow up era una bella idea. Preferisco Bresson: è il più casto di tutti, utilizza solo le immagine essenziali, addirittura tutto si svolge in fuori campo.In Lancillotto e Ginevra, ci sono dei tornei dove si vede soltanto la punta della lancia, una nuvoletta di polvere, lo zoccolo di un cavallo. L’essenziale è il risultato: tutto ciò non significa nulla, se il film è brutto questi discorsi non servono.

Ha notato un’evoluzione, da quando ha cominciato a scrivere sceneggiature?
Prima il cinema italiano era molto forte, molto di moda, piaceva, e quindi si stava in una zona favorevole. Adesso è cambiato. Si è perso il gusto della sceneggiatura, delle cose costruite, elaborate, fatta bene, che iniziano, si sviluppano e si concludono in un certo modo. Di solito i nostri film partono bene e poi si smarriscono. Il film di Giuseppe Tornatore L’uomo delle stelle aveva una bellissima idea, però buttata via. Lui ha fatto un finale forzato e non si capisce perché la ragazza debba diventare matta. Si è smarrito il senso dell’officina, della disciplina.

Scheda bio-filmografica: Bernardino Zapponi è nato e morto a Roma (1927-2000). Dopo essere stato cronista, ha lavorato in giornali umoristici come L'Orlando e Marc'Aurelio, quindi alla radio e alla televisione. Ha fondato, e diretto la rivista Il delatore della quale sono usciti solo nove numeri.

E' il più eclettico degli sceneggiatori italiani: può passare dal thriller (Profondo rosso, Dario Argento (1975) alla Commedia all'italiana (Polvere di stelle, Alberto Sordi (1973), Il Marchese del Grillo, Mario Monicelli (1981)), dall'erotismo (Paprika (1992)) al film d'autore. E', infatti, nelle sue collaborazioni con Federico Fellini (Tre passi nel delirio (1968), Satyricon (1969), I clowns (1970), Roma (1972), Casanova (1976), La città delle donne (1980)) e Dino Risi (La moglie del prete (1970), Mordi e fuggi (1973), Telefoni bianchi (1976), Caro papà (1979), Anima persa (1976),  Fantasma d'amore (1982), Giovani e belli (1996)) che ha realizzato le sceneggiature più interessanti.

sabato 23 gennaio 2016

Festa per il compleanno del caro amico Eugenio Barba. Un grande film di Jacopo Quadri e Davide Barletti





Roberto Silvestri

Non aprite quella porta: c'è del marcio in Danimarca? No, apriamola. Nessun pericolo. Ecco un viaggio cinematografico alternativo nel teatro radicale, che ci porta proprio dentro la Danimarca calvinista, capitale inquieta delle immagini interiori, da Carl Dreyer a Lars Von Trier, per trovare chi, tra essere e avere, non ha mai avuto dubbi. Ha scelto essere. Essere agente di soqquadro. Si può essere anche senza avere molto. Basta essere aperti al molto. Basta saper imparare ad imparare. Soprattutto dagli espulsi da tutte le Accademie. Da tutti coloro che preferiscono far teatro di ricerca integrale e biodinamica, a costo di non esordire mai.
Un viaggio, quasi un pellegrinaggio, dunque, fatto non per motivi turistici superficiali, ma per motivi altamente ludici nel cosdietto "terzo teatro". Il primo teatro è quello ufficiale, degli stabili e delle Accademie; il secondo è quello off, off off, che vuole diventare teatro ufficiale (magari nell'inconscio); il terzo è quello antropologico, che si fa non su ma con. Non per ma da, da... ù
Ma c'è il rischio di arrivare, facendo questo pellegrinaggio in Danimarca e di essere rispediti al mittente, come sta succedendo in questi giorni ai profughi siriani che arrivano al confine? Non proprio, ma... 
Almeno non per gli autori di questo film che ha Roma è uscito (sebbene in un due sale speciali, Apollo 11 e Kino) e altrove speriamo bene. E che rispetto alla prima veneziana (alle Giornate degli Autori di Venezia) è stato leggermente modificato e perfezionato nei dettagli minuti.
Il montatore e qui regista Jacopo Quadri e il cineasta indipendente, autonomo, off e salentino Davide Barletti, entrambi passaporto Ue, sono infatti andati a trovare il quasi ottantenne Eugenio Barba in occasione del cinquantenario di vita dell'Odin Teatret. Che è coeva delle ricerche di altra scena altri corpi altra drammaturgia altro rapporto con il pubblico altri testi altri costumi altre scene che lo accomuna al Living Theatre, al maestro di Barba, il polacco Jerzy Grotowski, a Luca Ronconi, a Meredith Monk, Carmelo Bene, a Barrault, Dario Fo, Beckett, Lecoq... appunto al teatro capovolto di 50 anni fa. 
L'Odin, macchina transartistica e transnazionale, è una istituzione anti istituzionale (anzi dal 1984 è stata ufficialmente riconosciuta da Copenhagen come "istituzione autonoma", ed è finanziata dagli stati norvegese e danese e dalle comunità locali, chissà se anche dalla Apulia Film Comission) della neo-avanguardia scenica, che è stato festeggiata una ventina di mesi fa (in estate) da circa 500 tra artisti, attori coreografi, musicisti, danzatori, pittori, scultori, fantasisti, filmmakers, critici, studiosi, vicini di casa, costruttori di palloni gonfiabili, di marionette burattini, e anche amici venuti da ogni parte del mondo (a loro spese e qualcuno non senza rischi, appunto) per realizzare uno di quegli scambi artistici (se io balinese canto e danzo tu keniano canti e danzi e tu danese pure, e tu brasiliano anche, così siamo pari) che hanno reso celebre la “teoria del baratto” messa a punto dal gruppo del drammaturgo e antropologo salentino (Gallipoli) che più detesta il mercato, le merci, lo spettacoli commerciale e il capitalismo, ma non gli aquiloni, i pupazzoni e i giochi di ogni tipo. 
Prima sorpresa, però. Il film non spiega molto accuratamente, come fosse un documentario della Bbc, che non vuole essere, i 50 anni di Barba-Odin, sue origini e conseguenze, chi sono i suoi collaboratori da sempre, il cerchio magico formato da Julia Varley, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen e Roberta Carreri si intuiscono, ma restano sullo sfondo, come ha fatto Barba a mescolare Piscator e Artaud, Brecht e Hjemslev, Bali e Eisenstein... ma regala solo brevi tocchi qui e là, foto, battute, ricordi, dichiarazioni di intenti, dialoghi fugaci... ma se chi vede appunta bene con la mente ricostruisce il panorama generale dell'impresa e dei suoi protagonisti, il collettivo di Odino (per la ricostruzione dettagliata delle cose si rimanda ai saggi Ubu Libri che Franco Quadri, padre di Jacopo, scrisse nel pieno dell'esplosiva insorgenza drammaturgica di Barba). Seconda sorpresa. La Danimarca reagisce bene a questo sovversivo dionisiaco del corpo e della mente liberati. Tersa sorpresa,   inaspettata. Scopriamo che Barba è ancora fisicamente molto in forma, muscolarmente sembra integro, il teatro fa bene alla salute, almeno da come maneggia la gigantesca troupe e i libri contabili proprio il nipote di"Elia Belvedere", il geniale factotum nordamericano degli anni 50 trumaniani eroe di spassosissimi film con Clifton Webb e serie tv. Ma nessuno si aspettava che maneggiasse così bene anche la sega elettrica per tagliare alberi (che, come Jodorowski non sembra amare troppo) come in un  horror splatter di Tobe Hooper si segano vergini teenager (uomini e donna) in fuga nella notte.  Teorizzatore ante litteram della contaminazione culturale (i pulcinella che fanno mangiare gli spaghetti alle danzatrici indonesiane snodabili è uno spettacolo nello spettacolo) Il paese dove gli alberi volano – Eugenio Barba e i giorni dell'Odin racconta proprio la fase organizzativa della grande festa all'aperto dell'estate 2014, con acrobati, pupazzi, danzatori classici, bande musicali, lottatori di capoeira, ragazzi venuti dalla Nairobi, artisti di ogni tipo, piccoli e grandi, diretti come se Barba fosse quel super direttore di orchestre jazz infinite, Butch Morris. Un regista dai tentacoli giganteschi, di comunicativa immediata, grande charme, precisione di fraseggio e dal corpo miracolosamente giovanile. Holstebro, la piccola cittadina danese dove l'Odin risiede da 48 anni, dopo i due iniziali a Oslo, reagisce con pudore e presenza calorosa alla grande festa. Sono tante per noi. Ma non per tutte. “Dove sono le persone? Qui sembra che non ci sia nessuno. Anche se è tutto magicamente pulitissimo” affermano gli ospiti keniani, i ragazzini delle periferie povere di Nairobi che sono dei ballerini pazzeschi e non mai sono stati in Occidente. Vuol dire che non vedono ricchezza nel nord, in Europa, nell'occidente. Ma povertà. La ricchezza è scambio umano continuo e ripetuto. La ricchezza è nell'Africa? Il divertimento solo lì? L'importante è essere, non avere. 
Scrive Barba: "Vivo in una strana fortezza isolata, che è una fortezza fatta di vento, che non ha mura. Le sue mura sono relazioni umane, sono gli attori, i collaboratori che vengono da diverse parti del mondo, alcuni perché hanno sentito parlare di noi, altri perché si trovavano per caso in Danimarca, sbattuti li dal vento della Storia. Questa fortezza si trova in una piccola città di nome Holstebro." Non è proprio fatta di vento, sembra una bellissima fattoria costruita muro su muro dal suo gruppo. Vi ricordate quando si diceva ia sessantottini che non sapevano essere che distruttivi e mai costruttivi? Ebbene, con l'aiuto del vento c'è chi ha reso il 68 costruttivissimo.

Ti guardo Venezuela e non mi piaci proprio. Hai un brutto passato da nascondere. Il film di Lorenzo Vigas Desde allò, Ti guardo






Roberto Silvestri 

"Tenete d'occhio Luis Silva, è un talento naturale, senza studi alle spalle. Ma diventerà un grande attore internazionale"... Ce lo assicura il cineasta di Mérida Lorenzo Vigas quando a Hollywood Party ha presentato giorni fa il suo primo lungometraggio. Desde allà, letteralmente, vuol dire "da lontano", traducendo dal catalano. Ti guardo, è invece il titolo molto più carnoso scelto dai distributori italiani per questo dramma venezuelano dal tono di tragedia greca (la coproduzione è con Messico e Cile) scritto (con Guillermo Arriaga, il messicano che lanciò Inarritu) e diretto da Vigas, che è un ex biologo regalato per sempre al cinema. E' ancora nelle sale, dunque non lasciatevelo scappare.  
Leone d'oro alla Mostra di Venezia 2015, premio per la sceneggiatura e per il migliore attore protagonista a Salonicco, Ti guardo ha confermato l'intuizione profetica (pre-festival) del direttore di Venezia Alberto Barbera. Siamo nell'epoca dominata dal pokerissimo di assi Alejando Gutierrez Inarritu-Lisandro Alonso-Antonio Cuaron-Gullermo Del Toro-Pablo Larrain, e dunque è l'America Latina ispanica la terra di riferimento principale del cinema inventivo, d'arte e commercio, d'oggi. 
Si congela l'intensità sciamanica e poetica di Jodorowski, si mette in epoché Raul Ruiz, cioè si mettono tra parentesi le sue metafore barocche, si aggiunge una goccia di Franco Rubartelli, uno dei nomi di punta della breve storia cinematografica (e pubblicitaria) del Venezuela che proprio sul culto dei corpi e sul minimalismo di fraseggio ha fatto carriera (ricordate Veruskha inteso come film?)  e si raffreddano i sentimenti perché facciano ancora più effetto emozionale.... e avremo il tipico film sudamericano di oggi. Politico obliquamente,  erotico trasversalmente, narrativo distrattamente, formalista involontariamente, ma intenzionalmente.    
Alfredo Castro (a destra) e Luis Silva
Ti guardo è un film per soli uomini, monoerotico, soprattutto autoerotico, e un po' misogino, ma ha preso in contropiede il consumatore medio festivaliero (è stato uno dei pochi Leone d'oro accolti con scetticismo generale. Senza Cuaron presidente della giuria non avrebbe mai vinto, si è detto). Eppure è un film che ha un pedigree illustre. Perché il narratore è un po', per esprimerci grossolanamente, erede palese della sobiertà e asciuttezza di Pablo Larrain, il più secco e glaciale radiografo del Cile di Pinochet (dalle origini basche). Anche se l'operatore e direttore della fotografia di questo film, e di tutti quelli di Larrain, Sergio Armstrong, ha certamente ristudiato se stesso in Tony Manero, per dare quanta più disumanità grigiastra possibile, ombre inquiete e decolorazione gelida alla metropoli tentacolare e sotto incubo. Il protagonistia, poi, l'attore feticcio di Larrain delocalizzato nella Caracas di oggi, possiede quella microscopita capacità di cambiare espressione senza muovere un muscolo che lo rende venezuelano medio di oggi, schiacciato tra i fan sguaiati e un po' sanculotti (era ora) del presidente Maduro da una parte e un parlamento di destra feroce dall'altra. Circospetto aspetta la fine..... File dal panettiere. Crisi economica. Il petrolio che sta ai minimi per punire i chaveziani, Maduro sembra che regga ma il popolo no, soffre, si arrangia, ruba quel che può. Perfino specchietti retrovisori. Intanto i ricchi ridono. Ovvio che il film osserva altro. Supera la storia. supera la cronaca,  supera la società e si piazza dentro i corpi, dentro la psiche. Fa psicopatologia di massa del fascismo. Che, come si sa dall'epoca di Wilhelm Reich, compie disastri anche quando la tensione è più socialisteggiante che nazionalista e guerrafondiaia, vedi la Urss di Stalin, dal 1930 in poi....

Luis Silva e Alfredo Castro (a destra)

Armando (l'attore cileno Alfredo Castro, che ha lavorato anche con Daniele Ciprì), odontotecnico benestante, molestato pesantemente dal padre da piccolo, immaginiamo traumaticamente e ripetutamente, visto che a un tratto commenta: “lo odio lo vorrei morto”, vive solo e non si è mai sposato. Adesca giovinetti per denudarli e mastrurbarsi, ma senza mai avere contatti sessuali men che mentali. Una sorta di critica pacifista al padre? Di messa in scena tragico sarcastica del fatto traumatico infantile? Finché non trova un ragazzo violento, un macho affascinante che più lo deruba e lo ferisce, più lo tenta. Elder (Luis Silva), capo teppa, inizia a frequentarlo sempre più spesso, dapprima per interesse, poi per curiosità, poi per .... Lascia la sua ragazza mulatta, si fa pessima fama nel suo ambiente maschilista, che lo scarica, viene perfino cacciato di casa dalla madre che ha saputo da un pettegolezzo che quell'opportunistica relazione (a Elder servono i soldi per trasformare un ferrovecchio in automobile) si è trasformato in amicizia a tutto tondo, poi in amore, vero e folle, addirittura carnale, era ora. Ma fino a conseguenze devastanti. Armando scoprirà che quel che insegue in Elder, nelle sue zone dark e inconfessabili, è proprio la crudeltà criminale del padre. A questo punto rifiuta la sua soggettività desiderante. Torna nell'incubo. Un happy end che non è happy per nulla. Atroce.
Luis Silva 

Se permettete parliamo di Scola braccio destro di Veltroni




Sul manifesto del 22 gennaio 2016 leggiamo, ripubblichiamo e commentiamo un toccante intervento-ricordo dell'ex ministro della Sanità del governo di sinistra francese, amico di Ettore Scola. Prendiamo spunto da questo scritto e dal ruolo che ebbe Scola, cineasta ma anche militante attivo del Pci (poi dei Ds e del Pd) nella definizione di un sistema radiotelevisivo più articolato e democratico, per  discutere della politica culturale del Pci in questo settore, dalla discesa in campo di Berlusconi alla fine del monopolio pubblico all'apertura delle pay tv, in rapporto ai nuovi scenari del mercato audiovisivo globale. 


di Jack Ralite *

Sei del mattino. Accendo la televisione. Alle prime immagini scoppio in lacrime. Ettore Scola, il grande, l’immenso regista italiano del quale ho avuto la gioia di essere amico è morto. Il suo cinema è indimenticabile. Capolavori come C’eravamo tanto amati e Una giornata particolare hanno nutrito il pensiero critico. Negli anni hanno eroso le certezze della società italiana. Sono stati una zattera di sopravvivenza politica. Ettore era membro del Partito Comunista italiano.
Ci siamo incontrati per la prima volta a Parigi, nel 1981, all’ospedale Saint-Antoine dove era stato ricoverato per un problema cardiaco. All’epoca ero ministro della sanità, ero andato a trovarlo; da allora non abbiamo mai smesso di vederci. Quando è uscito dall’ospedale ci siamo ritrovati a mezzogiorno per una salutare passeggiata nei Giardini di Lussemburgo.
Una volta guarito, Ettore è tornato a Roma per girare a Cinecittà Ballando Ballando. Mi ha invitato sul set e insieme abbiamo partecipato a un programma della televisione francese senza il conduttore, che era Yves Mourosi e aveva perso l’aereo da Parigi.
Ci siamo rivisti al Festival di Cannes, a Strasburgo, in Grecia. Era un amico degli Stati Generali della Cultura e ha combattuto molto per l’eccezione culturale e la pluralità del cinema europeo. È stato lui a far firmare la Dichiarazione dei Diritti della Cultura (tradotta in 14 lingue) da molti cineasti e artisti italiani come Fellini, Rosi, Marcello Mastroianni.
Ricordo una trasmissione alla radio di Jean-Claude Braly su uno dei suoi film. Nel corso del programma sono arrivati due ospiti a sorpresa, Mastroianni e Ugo Tognazzi, trasformandola in una scampagnata di risate. Alla fine Scola mi dice del suo dispiacere. Era stato invitato per il dessert a un pranzo di intellettuali francesi e stranieri organizzato da François Mitterand e detestava l’idea di abbandonare i suoi amici. «Andiamoci tutti e quattro» gli ho detto. Così siamo arrivati al Train Bleu, alla Gare de Lyon, dove il Presidente ci ha accolti molto amichevolmente. Era un piacere per lui conversare con i tre artisti italiani e con uno dei suoi quattro moschettieri comunisti, come mi chiamava.
Ricordo spesso una telefonata di Ettore:«Jack, vengo domani a Parigi a trovarti». Ci siamo dati appuntamento al suo albergo, vicino al Senato. Lui è andato subito al punto: «Jack sto per iniziare un nuovo film, Maccheroni, insieme a Marcello. Vorrei che tu interpretassi il secondo personaggio». Abbiamo discusso per tre ore: lui insisteva, io non osavo e non ho cambiato idea. Lui era molto dispiaciuto. Dopo ho visto che mi ha sostituito con uno molto più bravo di me, Jack Lemmon.
Ci vedevamo sempre quando veniva a Parigi invitato dall’allora sindaco, Bertrand Delanoë, di recente per l’inaugurazione del cinema Le Louxour a Barbés. Mi ha detto:«Allora come stai? Sai che ti ho sempre considerato come un vero attore?». Il film che presentava, e che è diventato il suo ultimo film, era su Fellini.
L’ultima volta che ci siamo incontrati è stato a Roma, a casa di Luciana Castellina, un’altra grande militante comunista italiana del primo gruppo de «Il manifesto», con la quale ho lavorato a lungo ai Rencontres Cinématographiques de Beaune dove ci siamo distinti tutti e due. È insieme a lei che abbiamo vittoriosamente lottato contro l’Ami (Accordo multilaterale sugli investimenti) che ora si sta ripresentando nel dibattito internazionale.
Luciana aveva organizzato un piccolo pranzo con Ettore. Nel pomeriggio io e lui abbiamo assistito alla consegna della Legione d’onore da François Mitterand, ministro della cultura in Francia, a Luciana.
La cena è stata un ritrovarsi tra amici pieno di allegria e di calore. Oggi penso molto a lui, ho talmente amato quest’uomo e il suo cinema, una vera opera di «democrazia insorgente» direbbe Miguel Abensour.

 * Ex ministro della sanità (1981), sindaco onorario di Aubervilliers, animatore-fondatore degli Stati 







Roberto Silvestri



il ricordo, piuttosto interessante, oltre che doppiamente commuovente, pubblicato dal manifesto è  scritto da un ex ministro della sanità francese, amico di Luciana Castellina oltre che del grande regista di C'eravamo tanto amati, Una giornata particolare e Ballando Ballando.Si esalta però in questo ricordo soprattutto l'aspetto meno interessante e più discutibile di Scola, affascinante narratore di storie con la penna del cinema, capace di dosare sempre in modo impeccabile umorismo e commozione, tanto da riuscire sempre in zona Cesarini a ribaltare la commedia in nube esplosiva di emozioni  (un segreto che Checco Zalone deve avergli rubato da fan acuto), ma militante politico molto meno brillante nel battersi (come ministro ombra prima e poi come responsabile cinema e consulente di Veltroni ministro dei beni culturali), da intellettuale (lo chiamano ancora organico? consapevole? illustre?), contro i monopoli e le ingiustizie televisive e cinematografiche, globali e nazionali.
Per esempio a livello televisivo Scola (che la televisione ha sempre considerato periolosa, un "oggetto colonizzatore" il che è lecito ma ne fa un improbabile specialista di audiovisivi contemporanei) lotta per limitare il peso della pubblicità nella trasmissione di film all'interno delle tv generaliste. Giusto. E vince pure. Ma se contemporaneamente lo slogan "non si ferma un'emozione" serve soprattutto (ad altri) per far passare al ribasso la pay tv (Canal Plus, prima e oggi Mediaset Premium e Sky) non troppo controllata come dovrebbe essere qualunque servizio pubblico (per esempio a livello di rispetto delle differenze culturali: quanti film africani o mediorientali o israeliani o thailandesi trasmette all'anno Sky?), senza tassarla troppo, dividendo così il pubblico in prima classe, senza pubblicità dentro il film né Marzullo fuori dal film (pay); seconda classe (tra il primo e il secondo tempo, e a metà del primo e del secondo tempo), tv generalisti; e terza classe (sei costretto a vedere film interessanti sulla tv pubblica che si vede male quasi ovunque nel paese, e solo alle 3 e alle 4 di notte), la cosa ci piace molto molto meno. Raitre. Ma non eravamo per l'estinzione delle classi? Oppure restava in Scola un residuo da possidente di Trevìco?
E poi Scola, alto dirigente Anac, sindacato autori cinematografici. Non registi, ma quelli che si autoeleggono (nel caso di Scola il reference system comunque garantisce) autori. Dunque Scola-Anac si occupa anche di politica cinematografica nazionale. E non riesce neanche a migliorare la legge Corona del 1964, con quel sistema di finanziamenti pubblici che non vanno (come negli Usa) alla preproduction e alla post production, ai laboratori e alla ricerca, allo sperimentalismo e alla educazione transartistica dei giovani, ma direttamente ai film. Perché? Questo sistema iniquo non rende autonomo il settore, ma lo incatena al governo e al parlamento, smanioso di finanziamenti a pioggia che andranno ripartiti, grazie alle scelte di commissioni ad hoc nominate dai partiti, ad autori di sinistra doc (per fortuna di più e più bravi) e ad autori di centro e di destra doc (per fortuna pochissimi e disinteressanti), ma tutti sempre più lontani dalle esigenze cangianti dei desideri schermici e del consumo più creativo.Tanto sono come statali, hanno il posto assicurato. Alla faccia delle grandi lotte contro gli sprechi, il clientelismo e le corporazioni.
Inoltre a livello internazionale, di trattative Gatt per il libero scambio, l'articolo ci dice che Scola si batte per tutelare l'eccezione culturale e per il rispetto delle differenze. Il cinema è merce diversa, giusto? L'arte non è trattabile e contrattabile come le arance. Belle parole, concetto sacrosanto, l'Europa fa bene a proteggere il proprio cinema, con soldi pubblici se necessario, in fondo anche gli Usa lo fanno (meglio e più di nascosto) e dunque non rompano. Ma questi concetti sacrosanti andrebbero "applicati creativamente alla situazione specifica" (come si diceva un tempo nelle sezioni Pci, per inchiodare i settari stalinisti, bordighisti, operaisti, economicisti, trotzkisti, individualisti, capitolardi, anarcoidi, nichilisti e soprattutto estremisti di sinistra, come il manifesto, che poi fu espulso, anche Luciana Castellina, mentre Scola a giudicare da alcune scene di suoi film faceva salti di gioia). L'Italia non ci riesce a liberarsi dalla tutela di Washington. Non può. Mica è Alliende Mister Berliguer e succedanei. Intanto gli Usa non permettono al paese post fascista, sconfitto nella seconda guerra mondiale (qualche diktat imperialista e glielo concediamo, no? SARCASMO) di autofinanziarsi utilizzando parte del costo del biglietto di ingresso nei cinema (anche dei film hollywoodiani) per sostenere economicamente il settore (che dovrà dunque sempre elemosinare in sede di finanziaria per non morire, lottando per agguantar briciole). Andreotti prima e Veltroni-Scola dopo non sono riusciti a convincere Hollywood a lasciare la presa. Forse non volevano neppure. Un cinema non controllato dai politici non sarà per caso troppo libero e pericoloso? Magari estremista e un po' trotzkista? I finanziamenti gestiti da un centro autonomo potrebbero perfino andare ai Frammartino, ai Contento, ai Ferraro, alle Ianigro, ai Misuraca di domani invece che ai "grandi registi" di oggi (che sono anche peggiori di Virzì, Maselli, Scola....). Ai creativi da cuccioli e non ad autori talmente autorevoli che in realtà non dovrebbero avere problemi a farsi finanziare un film da quei privati intraprendenti che tanto sono amati dai post Pci. Con il tax credit Fellini e Andreotti avrebbero realizzato tutti i suoi progetti. Perché non glieli hanno voluto farglieli fare? Era più semplice zittire gli artisti perturbanti senza ricorrere ai metodi usati con Pasolini. Un po' parodiato, non elegantemente, in Brutti sporchi e cattivi. Tutti ricorderanno certamente le sprezzanti e spiritosissime battute di Scola, poi diventate slogan virziani, contro l'esterofilia, i film noiosi, i film ombelicali, i film "dello sguardo", le cose che piacciono a Filmcritica e a Cinema & Film, come se i suoi film fossero invece dispositivi ludici di immensa potenza alla Guerre Stellari ("non sono uno che filma la propria immaginazione, i propri sogni, le proprie fesserie, e fumisterie" dichiarà. Invece Lucas, facendolo, ha inventato mondi, non ha copiato il mondo, affinché restasse sempre lo stesso e sempre, ugualmente, deprecabile e sarcasticabile). L'Italia dunque non può fare quello che fa la Francia e perfino la Colombia. Contrariamente alla Francia che gestisce ormai da decenni il mercato mondiale del d'essai (quel 10% del big business è tutto suo, se lo è conquistato a forza di finanziare i migliori cineasti radicali del mondo e le loro fumisterie, di competenza, intelligenza, storia economico-politica, rapporti commerciali con Le Monde, stratificati, Cannes e Cnc, Centro nazionale di cinema gestito da burocrati che non spariscono ogni cambio di governo, ma che sanno fare il loro lavoro, non come i nostri Mister Rocca di turno). E Hollywood ha tutta la convenienza di lasciar fare perché vivacizza il mercato e gli lubrifica i blockbuster). E' un paese che a differenza dell'Italia conosce e sa capitalizzare le altre culture e esaltare le cinematografie altre, il World Cinema (sono critici e produttori francesi i maggiori ammiratori dei cineasti italiani, a cominciare da Scola e Moretti, da Comencini e Monicelli, da Gianikian e Ricci Lucchi a Frammartino) - e per "altre" intendo non solo Belgio e Danimarca, ma anche africa, medio e estremo oriente, oceania e america latina, oltre che gli indipendenti veri di tutto il mondo anche nordamericani). La Francia li tutela sia nell'informazione (vogliamo parlare dei tg?) sia nel cinema sia nella televisione pubblica. Dunque il braccio destro di veltroni, trasformando il nostro paese in una subcolonia di Hollywood e della francia, chiudeva al mondo extra- occidentale. Se per tutelare le opere europee noi imponiamo a hollywood una quota di ingresso al mercato, facciamo il 49% questo significava in Italia espellere completamente ciò che non fosse americano, italiano e un po' francese. Alla faccia della cultura, della diversità e del rispetto. 

mercoledì 20 gennaio 2016

Il figlio di Saul



Roberto Silvestri

Il film d’esordio dell’ ungherese Laszlo Nemes, 38 anni,  Son of Saul, Il figlio di Saul, in questi giorni nelle nostre sale distribuito da Teodora, era l'unica “opera prima” del concorso di Cannes numero 68 e ha vinto sorprendentemente il gran premio della giuria. E’ tra i favoriti della notte degli Oscar 2016. Il set e l'argomento del film (diretto dall'allievo prediletto di Bela Tarr) è Auschwitz nell' ottobre del 1944. I russi stanno per arrivare e per liberare i prigionieri ebrei (e anche comunisti, dissidenti, rom e omosessuali) sopravvissuti alle camere a gas, agli stenti e al superlavoro. La “soluzione finale” richiede un surplus di efficienza e velocità burocratica. Il Fuhrer forza la macchina dello sterminio ai ritmi altissimi di cui parlerà Adolf Eichman, con una certa soddisfazione professionale, al processo in Israele (avvenuto troppi anni dopo, grazie a un virtuosistico rapimento in Argentina) prima di essere impiccato. Il nervosismo dlele SS rende attuabile la resistenza interna e si prepara un’insurrezione nel Lager... Alto il quoziente di difficoltà per un cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma soprattutto dell'est Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato dopo guerra, talmente tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore, dai capolavori di Jakubisko e Wajda, Resnais e Munk, Grifi e Marker, Pontecorvo e Lanzmann fino a Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un necessario spostamento di sguardo o salto di ingegno per non essere controproducenti, retorici o ripetitivi e per non colpire a vuoto un immaginario che non sopporta il gioco facile con i sentimenti forti e netti. Ed ecco l'originalità dell'operazione di Nemes (coadiuvato alla sceneggiatura da Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz è quello di un prigioniero ebreo, Saul Auslander, ungherese, membro del Sonderkommando, squadra speciale isolata e apparentemente “privilegiata”, perché destinate a essere giustiziate dopo, solo poco prima dei kapò e dei “Murmelstein” (da notare che al Biografilm Festival 2015 è stato presentato il nuovo lavoro di Giovanni Cioni, Del Ritorno sulle memorie di Silvano Lippi, vittima del perfido gioco dei nazi e sbattuto nel Sonderkommando, di Mathausen, questa volta).
Saul (Géza Röhrig) è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce rossa ben visibile sul retro della giacca, non è scarnificato come gli altri, mangia qualche patata in più, può giare con meno controlli e può far traffici agevolmente, perché deve fare lavori molto faticosi: è obbligato a trasportare i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e non tutti sono inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali (trafugando quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire dai cadaveri nudi i locali sporchi di sangue e avvelenati, a spalare e gettare al fiume la montagna di cenere dopo ogni cremazione dei corpi… 
Tra “i gasati” dal Ziklon B, un giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora vivo, che crede di riconoscere come suo figlio. Un medico delle SS lo giustizia, soffocandolo con fastidio. Ma Saul riesce a sottrarre il corpo alla cremazione e si impegna a trovare un rabbino, a rischio di morire, pur di dare a quel corpo una sepoltura ebraica dignitosa, sottoterra, con tanto di Kaddish declamato. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. Come un sintomo di follia vendicatrice. La rivolta scoppia davvero, ma... Non è tanto importante il racconto degli avvenimenti posteriori (anche il film sembra disinteressarsene). Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di Nemes. Un estremo micronaturalismo provoca un effetto astratto, secondo la lezione di Pina Baush o di Peter Stein, perché Nemes utilizza implacabilmente e claustrofobicamente il primo piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista è spesso inseguito in piano sequenza, ad altezza di nuca semovente)  lasciando sfocati gli sfondi più insostenibili. L’effetto è potente, un po’ alla Raffaello Sanzio. Vediamo la violenza nella sua astrazione pura come messa in scena di un dolore concettuale, più inquietante. Notevole. Lo stesso effetto di perdita totale dell'identità provocato dalla situazione di un prigioniero nel lager nazi. Ancora di più sull’orlo della follia, se privilegiato anche solo un po’. Spossessati del corpo e del nome, numeri deambulanti, i prigionieri sono pura resistenza vitale, potrebbero diventare altro, qualunque cosa, trasformarsi perfino in “rabbino” pur di sopravvivere una mezzora di più all’esecuzione, e lo stesso sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a distanza, obliquamente, fuori fuoco o in flou perché non si devono, non si possono “vedere” più) o metamorfizzare gli spazi e i corpi, come accade al cadavere di quel ragazzo trasfigurato in altro (probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, probabilmente se lo ha avuto non è quello, ma la prospettiva di un David in più, da consacrare, è l'unica che forse permette di ipotizzare una via di fuga dalla shoa, almeno fantasmatica). Questo gioco formale tra naturalismo e sacralità e quello sostanziale tra realtà storica e immaginazione psicotica, molto ben controllato, è quel che fa il film differente e interessante e di Nemes un sicuro talento capace di deformare la nostra segnaletica rassicurante. Nonostante un finale che perde la tensione “teatrale e documentaristica assieme” tenuta fin dall'inizio, sciogliendosi nell’azione liberatoria da film di genere, nella narrazione standard fatta di scenari più prevedibili e meno ossessivi: il piano segreto, lo scontro nel lager, la fuga nei boschi dei prigionieri, l’inseguimento coi cani drogati e la capanna dove più che altro è la macchina da presa a riposarsi per un attimo. Di cui. Prima del finale indecente e atroce che conosciamo. 

lunedì 11 gennaio 2016

Ennio Morricone, dal Golden Globe all'Oscar. La "musica applicata" nel ventennio d'oro del cinema italiano




Questa notte Ennio Morricone ha vinto il suo quarto Golden Globe per la partitura di Gli odiosi otto di Quentin Tarantino in uscita nei primi giorni di febbraio in Italia, mentre il cd è uscito il 14 dicembre scorso. Tiuscirà ad agguantare questa volta l'Oscar 2016,  che ha sfiorato 5 volte (ma ricompensato con l'assegnazione nel 2007 dell'oscar alla carriera?). Ennio Morricone nonostante la sua età sta preparando tournee in tutto il mondo ed è stato omaggiato nel dicembre scorso anche dal XX Roma Film Festival, presieduto da Adriano Pintaldi, interamente dedicato al compositore romano a cui è stato consegnato  il premio alla carriera 2015.






                                                                                                                         a Gabrielle Lucantonio




di Roberto Silvestri

Premessa.
Non sono un musicologo, ma come critico cinematografico militante per 35 anni anni in un quotidiano comunista libertario e di formazione “nouvelle vague”, tendenza Ungari-Morandini-Abruzzese, ho sempre cercato di scrivere deformando tecnicismi, frasi fatte e ritornelli abusati e di ascoltare soprattutto musica altra.
E ho appoggiato senza riserve le “nuove consonanze”, anche tra immagini. Non solo occupandomi internamente di chi le ha deformate e portate a temperatura critica, quelle immagini, come gli sperimentatori dell’underground radicale anni 60 (anche in Italia, e credo che per capire il mio paese interiormente, intimamente siano molto più importanti i film e i video poetici di Alfredo Leonardi, Alberto Grifi, Tonino De Bernardi, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, piuttosto che quelli abitualmente consacrati ed esportati.

A proposito di musicisti della neo avanguardia italiana (così istintivamente odiati e ignorati dalla generazione successiva). Ricordo che Sylvano Bussotti, a cavallo tra fine anni sessanta e inizio anni settanta, ha realizzato alcuni gioiosi cortometraggi sperimentali neoclassici e protogay, come il pagano Rara, che molto deve alle incursioni sui miti greci di Gregory Markopoulos. E che il compositore e teorico Vittorio Gelmetti, allievo di Edgar Varese, uno dei precursori della musica concreta ed elettronica in Italia, fin dal 1958, ha scritto sconvolgenti partiture applicate al cinema d’autore per Michelangelo Antonioni (Deserto Rosso, 1964); Tinto Brass (Nero su Bianco, 1966); i fratelli Taviani (Sotto il segno dello Scorpione, 1969) e Pasquale Misuraca (Angelus Novus, 1987); e applicate anche al cinema politico di genere per Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, 1970, sulla Mafia; 100 giorni a Palermo, 1985 sull’omicidio di mafia del generale Dalla Chiesa) o Ansano Giannarelli (Sierra Maestra, 1969) e per molti filmaker underground o fuori schema come Carmelo Bene, Alfredo Leonardi, Adamo Vergine, Luigi Di Gianni, Carlo di Carlo, Gianni Toti, Roberto Scavolini, Edoardo Bruno….

E che una celebre canzonetta, tormentone dell’estate 1962, di Edoardo Vianello, Abbronzatissima  (1963) iniziava con un “salto mortale” di due note, che molto doveva alla contemporanea rivoluzione postdodecafonica di Luigi Nono rintracciabile, identica, nell’azione scenica in due parti su testo di Angelo Maria Ripellino  Intolleranza (1960). Pratiche basse e pratiche alte…

Lo zero equivale al dieci e lode. Ho (abbiamo sul manifesto) polemizzato, a questo proposito, con l’insensibilità, il disprezzo e la sufficienza con la quale la cultura accademica o i colleghi più vicini all’establishment dominante separavano le pratiche artistiche “alte” e sublimi da quelle basse e terragne, e rinchiuso in un ghetto (e nel dimenticatoio storico) il nostro cinema popolare e i suoi artigiani, musicisti compresi (E non solo il nostro cinema popolare ma anche i film popolarissimi di Hollywood…).

Un gruppo piuttosto coeso di agit prop composto da raffinati uomini di cultura (qualcuno il master lo ha preso all’Università della strada) e virtuosi della macchina da presa, della scrittura, del montaggio, della composizione musicale, della scienza scenica e costumistica, che fu sempre disprezzato, combattuto e supercensurato dal monolitico potere conservatore della Dc e dagli elementi conservatori dell’ opposizione, blocco che ha governato ininterrottamente il paese tra il 1948 e il 1978 (portandolo sull’orlo della guerra civile nel decennio 60-70, pur di mantenere la sua collocazione filo-occidentale e la subordinazione totale agli interessi Usa) e forse tutt’oggi. Un mucchio selvaggio di cineasti (non solo registi, mi raccomando) che sostanzialmente usava scandalosamente, attraverso il linguaggio metaforico dell’arte, raccontare le contraddizioni profonde del paese, spingere, indirettamente, all’indignazione e alla lotta, cioè alla dignità personale e al lavoro ben fatto, e combattere i valori reazionari dominanti (l’oscurantismo cattolico, per esempio, il clientelismo, il servilismo, il conformismo…). Ma che, a differenza dei grandi cineasti italiani di quei decenni, neorealisti e post neorealisti, come Fellini, Visconti, Antonioni, Zeffirelli, Germi, Lattuada… aveva appreso dalla lezione di Rossellini a disprezzare l’enfasi dell’autorialità, la santità delle gerarchie, l’ossessione del capolavoro assoluto da appendere al muro, delle forme sublimi e perfino del linguaggio innovativo a tutti i costi (sono i contenuti innovativi, per questo siamo formalisti). Perché era la vita che andava cambiata, grazie all’arte che si occupa di arte. E l’esplorazione era più interessante del film “a cinque stelle” secondo le valutazioni dei mass media. A noi interessava il sovrumano e il subumano.  Zero equivale a dieci.         

Dai melodrammi anni 50 di Raffaello Matarazzo agli horror di Riccardo Freda e Mario Bava, ai drammi metropolitcani ultra violenti e ai musicarelli di Lucio Fulci, alle space opera di Antonio Margheriti, alle commedie contro di Antonio Pietrangeli, ai cappa e spada di Vittorio Cottafavi, ai poliziotteschi di Umberto Lenzi e Fernando Di Leo… Terrorizzati per i succhi sovversivi sprigionati da questi prodotti di genere ma di alta qualità artigianale, che comunicavano direttamente, “full frontal” con i senza potere, gli adolescenti, le casalinghe inquiete, le platee operaie delle periferie e contadini delle province, non solo italiani. E mi colpì molto,  durante un viaggio a Tokyo di circa 20 anni fa, la quantità di vinili in vendita dedicati alla musica applicata al cinema.
E in particolare la grande considerazione che il pubblico giapponese (e presumibilmente asiatico) riservava, in un momento di globale sensibilità “lounge”, al cinema bis italiano e alle sue musiche di così immediata comunicativa melodica. Che viaggiando indietro nel tempo e riallacciandosi alle melodie e alle armonie del passato, classico e pop, occidentali e esotiche, tenevano conto però della benefica tempesta anti accademica (gli avanguardisti di Darmstadt, Stockhausen, Luigi Nono, Kagel…), anche nel jazz e nel pop (rock, heavy metal, punk…), approdando a un canone “neo classico” .

Erano pressoché disponibili le opere complete non solo di Pino Donaggio e Ennio Morricone (star del sountrack internazionale) ma anche di compositori come Giorgio Gaslini, Enrico Simonetti e i Goblin, Pino Donaggio, Agostino Marangolo, Walter Martino, Maurizio Marini, Fabio Frizzi, Fabio Pignatelli…. le cui colonne sonore erano in Italia meno abbordabili.
Nei negozi di cd e dischi (quasi defunti oggi anche se si assiste alla resurrezione dei 33 giri) interi scaffali erano dedicati alla musica applicata a prodotti di genere. Ai western, ai film storici, agli horror, alle commedie, alle farse sexy, alla fantascienza e ai peplum.
Erano partiture di grande qualità artigianale realizzate tra gli anni 50 e gli anni 70. Il tutto grazie ai successi di Ennio Morricone.  Ricordo ancora che, grazie a Federico De Melis, figlio dell’editore discografico di Morricone, ho conosciuto Sam Fuller il suo compositore prediletto a Roma, all’International Recording, mi pare, durante la registrazione delle musiche di White dog. Ebbene Fuller era incantato, estasiato dalla precisione emozionale di Morricone. Mi diceva che quelle musiche, anche senza le sue immagini contenevano la scultura interiore del suo film. A proposito.  Nel referendum/sondaggio sui migliori lungometraggi a soggetto del cinema italiano organizzato da un programma di Radio Tre Rai che è diventato un libro della Eri, I cento colpi di Hollywood Party, i primi due film in classifica  C’era una volta in America e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sono musicati da Ennio Morricone. E sono altre 11 sue partiture a figurare nei primi 102 film prescelti.

Non c’è Salò senza Spasmo

Chi ha ascoltato Suoni per Dino, 1969, una delle poche composizioni sperimentali di Ennio Morricone scritte per la sala di concerto, quelle che “venivano pagate 30 euro” e dunque non lo facevano mangiare, saprà ritrovare  quelle sonorità libere e quei timbri anarchici negli interstizi delle sue celebri partiture e in particolare nel frammento di un film di Elio Petri del 1979, con Giancarlo Giannini, Le buone notizie, una commedia grottesca sulla malinconia dei cosiddetti “anni di piombo”.
In una scena di fine film Giannini, nei panni di un italiano medio bigotto e triviale, vede un mago che si esibisce in tv, altrettanto volgarmente, e si sente (“musica da buca”) un breve blitz di musica contemporanea, con l’introduzione di tre grandi intervalli, che Morricone mescola a un leggero tocco di jazz e a qualcosa di popolare affidata a un mandolino, lo strumento tipico della tradizione napoletana.
Il risultato è piuttosto strano per le abitudini acustiche dello spettatore medio, imbarazzato dalle contaminazioni di generi musicali e di geografie, ma Petri lo gradì molto. Perché il film era disperatissimo e profetico sulla sorte del nostro paese ma doveva far ridere.
Al regista di Indagine che spesso rimproverava il musicista perché disperdeva il talento in troppi filmacci di serie b, Morricone rispondeva che “l’origine di questo risultato che ti piace tanto è proprio nella musica scritta per i film di genere”.
Avendo bisogno di essere pesantemente salvati proprio dalla musica, quei film non correvano il rischio di essere rovinati da partiture ingombranti e dunque si poteva osare di più, sperimentare soluzioni nuove che sarebbero poi tornate utili in film più importanti e complessi.

Ennio Morricone è il sinonimo di “musica applicata e cinema italiano”, almeno quanto Nino Rota, cioè l’orecchio di Fellini. Morricone è “musicista totale”. Compone, arrangia, esegue, dirige personalmente l’orchestra, senza mai utilizzare collaboratori né sfruttare giovani musicisti disoccupati da pagare in nero. Anche perché aveva subito proprio questo maltrattamento quando era alle prime armi… E’ il Bernard Herrmann di Cinecittà. 

In questi giorni il compositore di Per un pugno di dollari sta lavorando al nuovo film di Giuseppe Tornatore, La corrispondenza, con Jeremy Irons, dopo aver finito il western The Hatefull Eight di Quentin Tarantino, uno dei suoi più grandi e acuti fan.  E’ in piena attività.

La grande carriera. Morricone ha venduto finora oltre 70 milioni di dischi. Ha scritto partiture per 527 film, per lo più lungometraggi, ma anche documentari, corti e film e serie televisive. E opere militanti o sportive (in cui si lascia andare perfino al doppio gioco dello stereotipo, perché, in questi generi, la retorica e la propaganda imperano ed è bene criticarle obliquamente, con sarcasmo e ironia).

E’ stato candidato 5 volte al premio Oscar, che ha vinto, per la carriera, nel 2007. Ha conquistato 3 Golden Globe, anche nel 1986 per Mission, 3 Emmy, 5 Bafta e 10 David di Donatello. Esploso nel 1964, tre anni dopo l’esordio, con il sound di Per un pugno di dollari (e seguiranno altre sei collaborazioni con Sergio Leone, fino a C’era una volta in America) l’ex trombettista romano, figlio di un virtuoso della tromba, che oggi ha 87 anni, è stato uno degli artisti centrali del nostro sistema industriale, anche delle sue zone considerate generalmente le più periferiche e “basse”. 

L’età dell’oro di Cinecittà. Nel ventennio 60 e 70 il cinema italiano era tra i primi al mondo: si esportavano western spaghetti, horror, thriller e film d’arte a decine, e senza soluzione di continuità. E Morricone componeva non meno di 15-20 sountrack all’anno (la crisi inizia alla fine degli anni 70, quando le commissioni scenderanno improvvisamente sotto le 10 l’anno).
Questo musicista, allievo di Goffredo Petrassi, di solida educazione classica e postwagneriana, specializzato in musiche per banda e corali, arrangiatore e orchestratore di canzoni pop “latine” (proprio come l’altro collega hollywoodiano, Pino Donaggio), ha partecipato contemporaneamente alla grande battaglia perduta della neo-avanguardia, nella componente più oltranzista e sperimentale, il gruppo romano di improvvisazione “Nuova Consonanza” (1964-1980).
I musicisti post-weberniani, tranne Egisto Macchi e Ennio Morricone (Suoni per Dino, 1973 è l’equivalente di un quadro d’action painting acustica) hanno lavorato ai margini del “sistema Cinecittà”, coinvolti saltuariamente da documentaristi e filmmaker underground (per esempio Luigi Nono e Luciano Berio). Lo stesso Cesare Zavattini, uno dei creatori del neorealismo, negli ultimi anni di vita è stato osteggiato e messo ai margini. Il suo film realizzato da regista, La veritàààààààà, ha una colonna sonora che è puramente lettrista, solo rumori, grida, urla, cacofonie, gemiti, frastuoni. Già prefigurava la musica a sonorità integrale del futuro. Sarebbe piaciuto a Isou e Cage. 
Eppure Morricone non ha mai disprezzato i suoi lavori più popolari, commerciali, gastronomici o di routine, considerandoli altrettanto impegnativi, anzi particolarmente stimolanti.

Purché i film siano visti con impianti di riproduzione del suono tecnologicamente perfetti. Il che in Italia non è successo per molto tempo e anche oggi non accade in molte parti del paese. Si ascoltava, per problemi di riproduzione del suono carente, solo il 20% circa della colonna sonora, che è fatta di dialoghi, rumori, musica. Soprattutto se il film è straniero. Perché in Italia il doppiaggio regna dall’epoca fascista e semplifica, cancella, per motivi di costi molte piste sonore.
Mentre, in fondo, un “film ha più bisogno di sound, di sonoro, che di musica strumentale” (come ricorda un altro grande musicista colto di musica applicata, Vittorio Gelmetti). Timidi miglioramenti grazie ai multiplex, comunque, oggi, grazie ai blockbuster tecnologici in 3d di Hollywood che obbligano al continuo aggiornamento tecnologico. Ma gli autori più coraggiosi lasciano sempre piena libertà ai musicisti scomodi. Bernardo Bertolucci chiama Gato Barbieri. Antonioni i Pink Floyd. E Dario Argento, ancora prima aprirà al rock, all’heavy metal, ai Goblin, ai Deep Purple (anche se poi non se ne fece nulla) e Keith Emerson.

Prima, in L’uccello dalle piume di cristallo (’69) Ennio Morricone aveva sperimentato per Argento la cosidetta “musica traumatica”, mix tra suoni “disciplinati”, cioè tonali, e rumori in libertà, una scelta stilistica da pioniere.  Sperimentare non è però il verbo esatto. Come ricordava John Cage “i compositori sanno perfettamente quello che fanno, e gli esperimenti sono quelli che hanno tentato prima di completare l’opera, come prima di un quadro si disegna un bozzetto…”.

Negli altri horror rumori, suoni distorti, urla e gorgheggi stropicciati, strumenti atipici, rielaborazioni elettroniche e sciabolate di free jazz vengono utilizzati per ritrovare con maggiore piacere il percorso melodico finale, che alleggerisce il trauma. Si veda e si ascolti Il gatto a nove code (1970), 4 mosche di velluto grigio (1971), sempre di Argento, o Una lucertola con la pelle di donna di Lucio Fulci (1971). E in ognuno di quei film horror e di genere (Morricone li ha interpretati tutti, e dentro i generi ha contribuito al sound specifico dei differenti filoni, per esempio: la commedia di costume, la commedia medievale-boccaccesca, la commedia sexy…. ) il compositore romano poteva utilizzare, con ancora maggiore libertà, perché nel cinema bis la connivenza culturale con il regista era paritaria, anzi squilibrata a suo vantaggio, assieme alla sua sapienza sinfonica, il bagaglio di musica concreta ereditata dalle avanguardie (dai futuristi a Edgar Varése all’elettronica). E approdare a modi e tonaltà extra occidentali (si ascolti la colonna musicale di L’esorcista II: l’eretico, di John Boorman, del 1977, influenzata dai ritmi e dalle percussioni africane che approfondiscono la profonda riflessione sul conflitto Bene/Male); utilizzare l’asincronismo, il contrasto, il conflitto tra immagine musicale e immagine visiva per creare un tessuto emozionale più profondo, inquietante, energetico o sorprendente. E spiazzare il pubblico, deviando continuamente dal flusso armonico e melodico prevedibile. Cosa che, soprattutto nei film d’azione, dove il suspense richiede controtempi e aritmie, gioia, ironia, angoscia, paura, coralità o virtuosismi solistici ben dosati, si adatta perfettamente alla sua personalità poliedrica.  “La musica applicata a un film è un valido sostegno all’immagine, non ha un potere di suggestione superiore, deve assecondarla, ma non come un servitore, ha una importanza creativa ed emozionale paritaria: si deve sentire, la musica”, diceva, anche se razionalmente ci si può anche non fare caso.
Perché la musica arriva e provoca là dove le parole e l’immaginazione non possono penetrare. Così Morricone dava un vigore comunicativo maggiore anche alle visioni meno robuste, a forza di guerreggiare, polemizzare e ironizzare sarcasticamente con le sequenze più anemiche e con i ritmi più incolori e fermi. 


Deviazione Scorsese. Proprio quello che Martin Scorsese nel 1990 fa in Goodfellas - grazie però al potere discografico della Wb, che è anche una big company musicaleutilizzando la storia della canzone popolare radicale in America in 43 brani (tre album e mezzo) interpretati dai più famosi crooner melodici (Dean Martin,. Tony Bennett), o gruppi neri doo-wop, bluesmen, rock band (Who, Cream, Rolling), divinità del rhytm&blues, o golden oldies anche italiani (Mina), che fanno da contrappunto, cronologicamente corretto, ai momenti drammatici, buffi, horror, insostenibili, d’azione esteriore e interiore di quel film sulla mafia di Manhattan, da quando si è gangster cuccioli a quando si spaccia cocaina alla grande (Monkey Man dei Rolling Stones) a quando si pianificano rapine e omicidi efferati. Tre anni di lavoro prima di girare per pianificare il raccordo tra singola scena e singolo brano, l’attacco perfetto tra parole e ritmo, utile a sottolineare o criticare, o anticipare ogni sequenza.
Morricone, a differenza di Scorsese, doveva però fare tutto da sé. Utilizzando tutti i mezzi necessari.  Grande orchestra, elettronica, piccoli ensemble, fischio solista, strumenti popolari come lo scacciapensieri, canzoni “alla moda beat” (come in Diabolik di Mario Bava), silenzi. Non aveva una mega company come la WB alle spalle…Eppure si può dire che sia i soundtrack dei film di Scorsese che quelli di Morricone si gettano contro il pubblico con la veemenza, la forza, la sincerità, la sottigliezza e grandiosità emozionale di una performance da rock star, fanno l’effetto one man show alla Janis Joplin o alla Jimi Hendrix. “Adoro la maestosità delle tue opere, e quando mi sono sposato ho fatto suonare in chiesa il tema di C’era una volta il West. La tua musica mi ha sedotto…” ha confessato John Carpenter che lo ha voluto per La Cosa, dandogli libertà totale.

I soliti problemi. Anche se sappiamo quanto sia carente dal punto di vista finanziario, rispetto a Hollywood, l’investimento nella musica del nostro cinema, e anche il rispetto professionale, troppo basso, dei nostri esecutori. I Conservatori di musica non addestrano alla composizione applicata. L’individualismo esasperato dei maestri impedisce la tutela collettiva della categoria, priva di forte rappresentanza sindacale e istiga al corporativismo.
Pochi musicisti sono coinvolti dal regista già in fase di sceneggiatura, sia in fase del montaggio, in moviole, e nel missaggio.  Il 2.10% che va all’autore delle musiche di un film è ripartito tra lui, l’editore musicale e la Siae (la società che tutela i diritti d’autore). Se qualcuno, come Mario Nascimbene, insiste nel comporre partiture troppo nuove, tormentate, difficili, semplicemente viene fatto fuori dal giro, nonostante il suo altissimo prestigio. Viene la voglia di emigrare. Lo fanno Carlo Siliotto, e “virtualmente” un musicista veneziano che era diventato popolare grazie a una canzone pop che aveva venduto milioni di copie, Come sinfonia, Pino Donaggio. Che ricorda i tempi delle sue collaborazioni con Brian De Palma per Dressed to kill e Body Double, quando aveva un mese e mezzo per comporre, due settimane per registrare, e un budget  illimitato. In questa situazione si può scrivere e interpretare la musica al meglio. Come si vede nelle sequenze del museo (Dressed to kill) o della spiaggia (Body Double). Anche se il modello hollywoodiano dà tutto il potere al produttore, compreso quello di manipolare le musiche. E nessun final cut al regista.

Morricone spesso lavora all’estero, ma nessuno può manipolargli le musiche. Piace il suo particolare, originale cocktail. Definisce “musica psicologica” alcune parti delle sue composizioni, perché non spiegano, non accompagnano, non raddoppiano l’effetto visivo, ma “esaltando il tipo di sentimento suscitato da una certa sequenza, ne sottolineano la cronaca”, l’atmosfera impalpabile. Mentre il tema portante del thriller, il coro o il canto femminile accompagnato da un’ armonia più semplice, orecchiabile e “tonale” sottolinea invece l’umanità presente nei personaggi e nella storia stessa”. La guerra tra aria e recitativo. Tra bene e male.

Così spiegava a Luca M. Palmerini e a Gaetano Mistretta in Spaghetti Horror (1994): “nei miei thriller ci sono sempre due linee musicali opposte e conflittuali (confliggono ovviamente sempre in modo differente): il Bene è il tema portante, melodico, popolare, il Male è musica gestuale, aspra, concreta, difficile, dissonante”.

I Goblin, fautori del “progressive rock”, alla Emerson Lake & Palmer o alla Jethro Tull, che non disdegna esibite citazioni di musica classica, verranno chiamati, d’istinto, da Dario Argento, nel 1975 per sostituire non solo Ennio Morricone, ma anche il jazzista free Giorgio Gaslini (di cui non resterà nel disco che il lato B), e modernizzare, con cautela, il sound di Profondo Rosso, rendendolo di più immediata comunicazione con il pubblico dei teenager.

Nel cinema horror dopo l’epoca Bernard Herrmann (Pshyco, Vertigo) che utilizzava negli anni 40 e 50 l’orchestra sinfonica classica ma spingeva verso l’abisso la sua struttura armonica tonale, attraverso dissonanze inquietanti e cromatismi di scuola Richard Strauss, era stato il cool jazz  alla fine degli anni 50 (con la Nouvella Vague francese, Martial Solal o Miles Davis) a immergere lo spettatore nell’angoscia metropolitana e in un clima paralizzante di paura. Morricone lo aveva utilizzato ampliamente. Ma nel 1973 William Friedkin nell’Esorcista aveva fatto irrompere la musica rock di Mike Oldfield dentro il più ansiogeno dei generi, con le sue ritmiche ossessivamente ripetitive. Ecco cosa voleva Argento. Il rock, per la prima volta utilizzato nel cinema narrativo da Michelangelo Antonioni (Blow up, 1966) e Barbet Schreoder (1968, More). La musica diegetica, quella cioè interna alla storia raccontata, può anche essere jazz. Il protagonista del film è infatti un pianista di jazz. E può essere “musica da schermo” (come il teorico francese  Michel Chion chiama la musica diegetica) anche  la filastrocca inquietante con la voce di bambina (erede del fischio di M di Lang, del Dies Irae di Verdi in L’etrusco uccide ancora di Crispino e della voce di bimba che annuncia i delitti in Quattro mosche di velluto grigio). Ma il rock prende interamente il posto della “musica da buca”, quelle off, che provengono da spazi e da tempi che non appartengono all’azione. C’è il leit motiv sentimentale che accompagna la storia d’amore e altri “interventi empatici”, che rivestono il ritmo, il tono e il fraseggio del film e ne sottolineano o ne anticipano le emozioni (tristezza, gioia, movimento, paura, terrore…). Non cambierà il rapporto tra “musica dell’angelo” e “musica del diavolo” così come lo aveva impostato Morricone, anche quando nelle successive colonne sonore di Simonetti (per Tenebre, Phenomena, Opera, Il cartaio, Jennifer, La terza madre) saranno completamente diversi gli organici, i riferimenti pop e colti, lo stile di rock alla moda nel momento, i complessi orchestrali e verranno eliminati le “voci di bimba” i soprani e i carillon….Anche qui come nelle partiture di Morricone di fondamentale importanza è il fragoroso rumore del silenzio, il sound of silence. Già lo ricordava Robert Bresson: “il cinema sonoro ha introdotto il silenzio”.

Ma i virtuosismi e la cultura musicale di Morricone contenevano in sé già non solo l’energetica potenza lisergica del rock ma anche il minimalismo a venire. Ha scritto per un film delle variazioni su tre suoni. Nel 1979 per L’umanoide film di fantascienza di Aldo Lado ha realizzato una fuga a sei voci con un doppio soggetto e un doppio controsoggetto…Quando il montatore Ruggero Mastroianni nel 1979 alla moviola di Le buone notizie di Elio Petri ha commentato: guarda che qui non si ride, Morricone ha buttato via la sua complessa partitura, variazione su un tema di Schubert, come Petri gli aveva suggerito. Perché è musicista di cinema, non un compositore. E vuole che il film faccia soldi. Abbia successo.             

Una industria cinematografica quando è sana e viva sa sempre chiudere, la forbice tra ricerca e standard, tra esperimento e canone, tra creatività e tecnica, tra novità e tradizione, perché solo così avanza e sa radiografare in anticipo i sommovimenti invisibili del mondo e le mutazioni emozionali nella ricezione e nel consumo. Oscillando tra partiture più impegnate e più “gastronomiche”, tra Malick, Pasolini, Petri, De Seta, Bertolucci, Siegel, Fuller, i Taviani, Cavani, De Palma, Pontecorvo… da una parte, e gli artigiani del cinema bis, di genere (Salce, Negrin, Mastrocinque, Verdone, Fulci, Bava, Corbucci, Castellano & Pipolo…) dall’altra, si può dire che Morricone sintetizza un’epoca, simboleggia più di mezzo secolo di storia del cinema italiano dalla a alla z. Proprio come Pier Paolo Pasolini ne sintetizza la tragica fine: il poeta non si vergognava, anzi, di partecipare, come attore, al western-spaghetti di Carlo Lizzani Requiescant, o come sceneggiatore a Milano Nera (1961), poliziottesco di Gian Rocco e Pino Serpi, imparando il mestiere con Mario Soldati (La donna del fiume, 1954), Luis Trenker, Mauro Bolognini, Luciano Emmer, Franco Rossi, in opere scritte a 10/12 mani. Pasolini promette a Ettore Scola di girare un’introduzione, come in un prologo, a Brutti sporchi e cattivi. E solo la drammatica morte glielo impedirà.  Pasolini-Morricone insieme faranno insieme dal 1966 Uccellacci e Uccellini, Teorema. Il Decamerone, Il fiore delle Mille una notte e Salò, il film per il quale fu condannato a morte, e che è stato appena eletto dai ragazzi delle scuole di cinema in giuria alla Mostra di Venezia 2015 il miglior classico restaurato del festival. Ed era considerato un film maledetto, durissimo, quasi insostenibile…

Sono particolarmente indicative a questo punto alcune riflessioni, mai sprezzanti, rispetto al cinema di genere dichiaratamente commerciale dello stesso Morricone.  “La penso come Pasolini. ‘Bisogna trovare la maniera di riscattarsi. Di superare i condizionalmenti del cinema e della vita’. Non bisogna lasciarsi andare, reagire contro ciò che di volgare c’è nel mestiere. La musica da film non si può paragonare alla musica seria. Bisogna considerarla da un’altra ottica perché i condizionamenti sono troppi. Allora bisogna trovare una libertà differente che permette al compositore di trovare il proprio riscatto spirituale all’interno stesso di questi condizionamenti che bisogna accettare se vogliamo lavorare. E posso dire in coscienza che ho sempre tentato in ogni pezzo musicale anche il più volgare degli esperimenti che mi potevano fare un piccolo passo avanti”.     




La centralità di Spasmo.
Insomma. Non c’è Salò o Mission senza Spasmo (che è un giallo di Umberto Lenzi del 1974, importante come vedremo) alle spalle, e in particolare senza i quattro brani avant-garde dal titolo Stress infinito e senza l’esperienza accumulata dal compositore romano negli horror e nei film spionistici della metà degli anni 60, nei western, nelle commedie sexy e appunto nei tanti “gialli” anni 60 e 70.
Ma ciò che unifica l’intervento musicale di Morricone in queste opere, alte e basse, è qualcosa di più di una teoria musicale eccentrica.

Il concetto di “noia creativa”.
E’ un punto chiave per comprendere l’originalità del cinema italiano nella sua epoca aurea. Quella caratteristica “vitalità e fertilità della noia” - secondo la suggestiva sintesi fatta da un critico americano, Chris Fujiwara nel saggio “Boredom, Spasmo and the Italiam System” (nel volume Sleazers Artists, 2007)  che si impossessa contemporaneamente della letteratura, del fumetto, della musica, delle gallerie d’arte e soprattutto di Cinecittà dagli anni 60 fino ai cinque maledetti  iper-horror anni 80 super censurati in molti paesi del mondo: Tenebre e Inferno di Argento; Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, Cannibal Ferox di Umberto Lenzi, L’aldilà di Lucio Fulci (le cui musiche demoniache sono affidate rispettivamente a Claudio Simonetti, Keith Emerson, Riz Ortolani, Fabrizio Frizzi, Roberto Donati & all’attrice-compositrice Fabia Maglione).
Nei capolavori muti e noiosi per eccellenza, del cinema moderno, per esempio in Sleep (1963) o Empire (1964) di Andy Warhol, o nelle opere di Chantal Ackerman, Michael Snow, Straub-Huillet,  l’illusione filmica, l’effetto sogno ad occhi aperti, resta intatta ma è la nostra partecipazione affettiva e percettiva che sembra allontanarsi, a differenza che nei blockbuster hollywoodiani, congegnati proprio per impedire quella divaricazione.
Eppure l’esperienza dello spettatore che non desidera più identificarsi con quel che vede cambia semplicemente la modalità della visione e la gamma dei desideri, spezza il gioco ipnotico per attraversare lo schermo e proiettarci verso la vita, da analizzare, da ponderare, da modificare.
Il giovane Tarkowski al maestro Mikhail Romm che gli rimproverava l’eccessiva lunghezza dei piani del suo saggio di laurea, replicava: “se allunghi la normale durata di una ripresa certamente annoi, ma se l’allunghi ancora di più produci una nuova qualità di visione e una nuova intensità dell’attenzione”. 
Già, nella noia il tempo non passa mai, ogni istante si dilata, il fluire cronologico è espulso dall’esistenza e diventa esterno a noi. Non viviamo più nel tempo. Insomma possiamo perfino amare questo stato… Gramsci diceva che alla catena di montaggio l’operaio sfruttato dal lavoro ripetitivo pensa di più e si trasforma da docile forza lavoro in ostinata e combattiva classe operaia già organizzata in partito….
L’artista statunitense Christian Marclay vince la Biennale d’Arte di Venezia del 2010 rendendo un ironico e definitivo monumento pop alla noia, lungo ben 24 ore, The Clock, che scandisce minuto per minuto, utilizzando clip da film di tutto il mondo, proprio questa fluida perdita del tempo.

Chi sperimenta non è l’autore ma il ricettore
Scrive Fujiwara: “meno il film sembra cambiare, più lo spettatore diventa conscio dei suoi moti interni, del proprio fluire, del cambiamento interiore”. Si mette in moto nella ricezione, un meccanismo indipendente dalla vista, fatto di riflessioni, collegamenti mentali, pensieri, piaceri e dispiaceri fisici che il critico francese Henri Wallon chiama  “serie propriocettive”.
Siamo alle scaturigini, appunto, di quel lavoro dello spettatore critico che permette di dire: lì sta il film, e il suo mondo, qui sono io, e il mio, fuori c’è un altro mondo. Come dire l’entertainment diventa triplo. Un piacere triadico.  Freud scriveva: “nel lutto è il mondo che ci sembra povero e vuoto, nella melanconia è il nostro ego a sembrarci povero e vuoto”. Al cinema, che il film sia incalzante o meno, ci si riprende un po’. Ma la noia aiuta.
Insomma la noia è uno stato di libertà. Devi scegliere di essere annoiato. E la cosa può anche eccitare. Ci succede davanti ai film di Michelangelo Antonioni che sulla rappresentazione dell’immobilità, morale e mentale, della borghesia del boom economico non ha rivali. Ma è Cinecittà tutta che vive e si arricchisce per oltre 30 anni proprio… sulla immobilità (dei generi) e sulla noia attiva. Come soggetto, da La dolce vita a Il Disprezzo, ma soprattutto introducendo questo meccanismo perfino nel road movie (la noia del viaggio, della vacanza) e nel cinema d’azione per eccellenza, quello dei generi, filone dopo filone.
L’analisi entusiastica fatta da Fujiwara dell’esperienza melanconica di Spasmo, giallo solare che viviseziona la psicologia perversa, morbosa e criminale dell’alta borghesia, e delle musiche corali e atonali di Morricone, è a questo proposito illuminante. 

Robert Hoffman in Spasmo di Umberto Lenzi
Debord e il “Lenzi touch”
Il film doveva essere girato da Lucio Fulci, ma Umberto Lenzi lo ha completamente riscritto introducendo le astratte e inanimate bellezze degli attori (Robert Hoffman, Suzy Kendall e Ivan Rassimov), l’elemento della illuminazione solare e del clima balneare che contrasta con i nostri “dark corner” (quelli che Argento affoga in thriller cupi e nerissimi black), le bambole, oggetti immobili per eccellenza, la villa nascosta, dove i protagonisti del film si annoiano a morte, il dialogo postsincronizzato (anche perché i tre attori principali sono stranieri, l’effetto è straniante, le voci sono tutte impersonali e neutrali, così staccate da quei corpi) e uno zoom sempre attivo di cui il direttore della fotografia Guglielmo Marcori, e tutto il cinema commerciale italiano di quell’epoca, abusa, continuando a manovrarlo in avanti e indietro perché è l’unico soggetto cosciente capace di animare gli ampi spazi nei quale i personaggi  vagano, senza comunicare e senza intenzionalità apparente.
Questa “dinamica immobilità” viene mascherata da un continuo, quasi ridicolo uso della macchina. L’automobile del dopo boom che è simbolo di ricchezza (è una Bmw), sesso attivo, mascolinità (sono sempre gli uomini alla guida) e di libertà di movimento.  Zoom e automobile hanno l’incarico di annullare lo spazio e il tempo delle soggettività. Come nei road movie il paesaggio diventa più importante dei personaggi e il fatto che si muovono è più importante di chi siano e di cosa abbiano intenzione di fare… Anche perché si nota una netta separazione tra voci e corpi, tra menti e mondo. Ricordate l’effetto Kuleshov? L’espressione dell’attore cambia nel montaggio tra sequenza A e sequenza B. Ebbene l’effetto Lenzi lascia al solo lavoro dello spettatore la comprensione e interpretazione, per esempio, dell’espressione di Fritz (Ivan Rassimov), per esempio, che guarda inespressivo, in campo/controcampo, un vecchio home movie d’infanzia. Michel Piccoli nel Dillinger è morto di Ferreri aveva anticipato questa sequenza.  
Le tante incongruenze e inconsequenzialità del film di Lenzi/Morricone, come antidoto alla “distrazione affollatissima di segni” da blockbuster, vengono rivendicate con forza da Fujiwara, che le affilia al laboratorio teorico dei situazionisti dell’epoca, i più implacabili nemici del capitalismo nell’era della biosfruttamento e dell’accumulazioni di immagini e cioè della “società dello spettacolo”. Qui funzionano tutte e due le armi antisistemiche dei situazionisti: il détournement cioè il riuso in altri contesti di segnaletiche d’arte immagazzinate e citate e la dérive, l’ attraversamento creativo/distruttivo dell’ambiente urbano.
La scatenata indeterminazione dei “noiosi film di genere” rigonfi di memoria iconografica da annichilire non ne fanno dei candidati ideali per il détounement? Non sono l’ambiente ideale, quei film noiosi, per una dérive estetica nella quale noi possiamo liberamente circolare?   

Ennio Morricone e l’immobilità dinamica.
Originalità e sovversione, dunque, quella dei cinema bis di Cinecittà 1960-1980, che molto deve ai nostri artigiani del cinema ma anche ai loro rapporti, diretti e indiretti, in quell’epoca di militanza politica forte, di scrittori, pittori, architetti, drammaturghi, design, stilisti militanti, che erano a contatto, pensiamo a Carmelo Bene o a Mario Schifano, con le zone più fertili della ricerca estetica e della cultura mondiale.
Da musicista di formazione contemporanea, aleatoria ed elettronica, Ennio Morricone è per esempio estraneo alla forma sonata classica che richiede esposizione tematica e sviluppo. Lo irritano anche le canzonette, con la ferrea struttura: “introduzione, strofa, ritornello” che spesso i produttori gli impongono di scrivere per vendere di più gli lp del film.  Se pensiamo che il metodo di lavoro di Leone con Morricone partiva quasi sempre da alcuni motivi creati dal musicista sui quali il regista  imbastiva il ritmo del suo girare ci accorgeremo della grande differenza con il metodo fordista-taylorista di Hollywood  nel quale lo score viene creato interamente in post-produzione.
L’immaginazione, nella musica applicata, anche in Europa, però, data la brevità degli interventi generalmente richiesti (non più di 40 minuti su un film di 90’-120’, e spesso molto meno), non ha proprio il tempo per svilupparsi.
Dunque è il tema che torna, ininterrottamente, ciclicamente. Quel che cambia è la strumentazione, i timbri, la tessitura orchestrale. Lo sviluppo è inutile.
O meglio è affidato all’immaginazione dell’ascoltatore-spettatore. E’ lui il vero sperimentatore, come sosteneva John Cage, a lui affidato il compito di collaudare e chiudere l’opera ‘aperta’, partecipando alla fase finale della sua creazione. L’arte concettuale italiana, proprio in quegli anni, pensiamo a Pascali, Fabro, Lombardi, Lo Savio, attiva lo stesso procedimento “politico” di provocare la ricezione. E’ un po’ come reagire alla lingua attraverso la materia audiovisiva, andare al di là dell’arte, verso il concetto, dentro la poesia, scopo antropologico dell’essere vivente, come sosteneva Brodskji. 
Quella macchia sonora mutante, quella “forma ciclica” musicale in alcuni casi può addirittura fare a meno del tema, senza arrivare quasi mai all’atonalità o alla dissonanza, lavorando su sonorità capaci di abolire la melodia, fino alla “immobilità dinamica” o al “movimento nell’immobilità”, nel caso dell’accordo unico o dei due accordi, come nella sequenza di Petri o in altre partiture di Morricone.
Pasolini parlava di coesistenza, nell’immagine visiva o sonora, di “profondità statica” e “orizzontalità ritmica” e Morricone di un’ “idea di immobilità come quella che si può immaginare per la musica orientale”.   
Pensiamo contemporaneamente a Michelangelo Antonioni e alla sua progressiva purificazione degli interventi musicali scritti, dopo la fine della collaborazione con Giovanni Fusco, alla ricerca di uno stile sempre più spoglio e asciutto, di una immagine visiva sempre più ascetica, affidata soprattutto al suono concreto, fino all’uso progressivo del solo rumore diegetico tra LAvventura e, grazie a Gelmetti, Deserto rosso. Profondità statica e orizzontalità ritmica diventano la musica delle sue immagini.
Il filosofo francese Gilles Deleuze, nell’ Immagine-tempo spiega meglio il lavoro dello spettatore moderno quando parla del cinema sonoro come di un immenso “monologo interiore” che esteriorizza e interiorizza non un linguaggio, ma una materia visiva che è l’enunciabile di un linguaggio e che rinvia a enunciati diretti (atti di parole, sostanza conoscitiva, suoni e musiche)  o indiretti (nel caso delle didascalie del muto).

E poi arriva il rock…

In Suspiria (1977) di Dario Argento che secondo un attendibile giudice, John Carpenter, “è il migliore film horror mai realizzato in tutta la storia del cinema”, i 20 minuti iniziali sono una forma spazio/temporale di tensione esasperante e di virtuosismo emozionale mai eguagliata da Argento. 
E’ un pezzo da brivido. E anche da antologia del migliore cinema italiano, paragonabile, per perfezione architettonica, alla sequenza sull’isola di Lisca Bianca quando Monica Vitti e Gabriele Ferzetti cercano Lea Massari scomparsa ne L’avventura; agli ingrandimenti fotografici di Hemmings che svelano un delitto in Blow up o all’apparizione di Claudia Cardinale in C’era una volta il West.
Esasperando i colpi di scena, alzando il livello della tensione, concatenando personaggi e situazioni, ambienti e musiche in strutture complesse, si produce un senso di irrealtà, di favola, di sogno, con i Goblin che, alfieri del rock progressive e cioè della fusione tra elettronica e musica classica, mescolano impennate hard rock, affondi realizzati con il mellotron (l’antenato dei moderni campionatori) o con il minimoog (un sintetizzatore monofonico), intrusioni di celesta, organo da chiesa, rumori cacofonici, strilli acuti, voce recitante da oratorio, strumenti extraoccidentali come il tabla, il buzuki greco elettrificato, i timpani, le campane, un vecchio carillon…. Scrive la critica italofrancese Gabrielle Lucantonio, prematuramente scomparsa: “Si crea una colonna sonora straniante, satura di elementi acustici eterogenei, e inquietante. L’effetto è identico a quello della musica atonale. Si carica l’immagine di una presenza preoccupante e si nutre di una indicibile sensazione di fuori campo”.  Cosa spinge, per esempio, la studentessa cacciata dall’accademia di danza ad avvicinarsi alla finestra e alla morte?
John Carpenter ruberà nel 1998 in Vampires il tema di Suspiria, solo facendo un détournement, un giochino combinatorio con le note…

Dopo Morricone….
Il cinema italiano finirà di essere competitivo, o meglio, “padrone del mondo” verso la metà degli anni 70 quando lo stato intimorito dallo scontro sociale fermerà o emarginerà con ogni mezzo necessario il cinema di ricerca (perfino Fellini avrà grosse difficoltà produttive) e dunque anche la vitalità del cinema di genere. Ma non tutte le strategia riescono al 100%, anche se qualche colpaccio viene messo a punto (Pasolini tolto di mezzo e Bertolucci pure). Infatti ancora molto si muove. Copiando ancora una volta i film americani e reinventandoli.  
Cosa colpirà di più (per esempio il superfan Quentin Tarantino e, nel campo avverso, il censore implacabile) del “noioso” gioco postmoderno portato a incandescenza manierista nei 5 super horror italiani anni ottanta bizzarri, scandalosi e graficamente inquietanti che verranno esportati in tutto il mondo ma che la Gran Bretagna di epoca Thatcher proibirà preparando ad hoc una legge contro le videocassette più “schifose e oscene” (la Video Recording Act del 1984)?
Il rapporto tra partitura elettronica, affidata per lo più al sintetizzatore, macchina disumana, non umana e post-umana per eccellenza, dunque sciolta da funzioni pietistiche e sentimentali e flusso visuale, di realismo e crudeltà umanissima mai eguagliate, di Tenebrae, Inferno, Cannibal Holocaust, Cannibal ferox e L’Aldilà. Seguendo le indicazioni di Eisenstein sulla asincronicità tra quel che si vede e quel che si sente, e dunque il rapporto conflittuale, ma tra pari e pari, non servile della colonna sonora, l’incontro/scontro produrrà quell’ambiguità, quella ambivalenza che produce effetti destabilizzanti di ansietà, messa in discussione dei codici, del senso. Eccesso. Ma, nel moderno, ciò che non può essere spiegato né definito è sterminato.
Non si tratta più di entrare in un universo irreale popolato da creature irreali come nell’epoca surrealista. I mostri sono molto più vicini e simili a noi di quanto non pensiamo. Elementi inattesi e misteriosi, momenti di catastrofe cosmica o di angoscia metafisica - o per dirla musicalmente una pausa tra due vuoti, un tempo sospeso, come si trova in certa avanguardia musicale dove la cesura tra due suoni è più importante  della cascata di note che precede e che segue questo vuoto -  irrompono in un contesto plausibile dal punto di vista della realtà  quotidiana. Sia esso un paesaggio metropolitano di Antonioni, la tetra città spiritista di Argento, la foresta amazzonica che suscita luride fantasie neocoloniali o solide teorie post-coloniali di Deodato e Fulci.
Tanto più che la solida cultura realista italiana, dal rinascimento a Zavattini, da Pasolini ai Mondo Movies, ci ha abituati a descrivere i mostri in modo verosimile e plausibile, “in carne e ossa” e non come spettri o ectoplasmi deformi.
Deodato è stato l’assistente di Rossellini. E la sua descrizione della violenza e della tortura in Cannibal Holocaust più che exploitation da macelleria “mondo movies” è la continuazione di una seria discussione sul Potere aperta da Salò, di Pasolini (1975), altro film “insostenibile”, perseguitato e censurato.
Deodato, alla fine dei cosiddetti (e mal definiti) anni di piombo (semmai plumbei era il decennio maccartista precedente), decostruisce i media e critica, col sangue agli occhi, un certo tipo di giornalismo televisivo che gioca sul sensazionalismo, sfruttando e diffondendo immagini di violenza, a fini di profitto, ma adornate da un ipocrita patina di pietismo e commiserazione (lo vediamo in questi mesi a proposito dell’esodo in massa, nel mediterraneo e nell’oceano indiano). Che è la stessa ideologia e falsa coscienza esaminata e decostruita in Cannibal Ferox, a cui Eli Roth ha appena reso omaggio in Green Inferno mettendoci in guardia dall’ambientalismo quando è pedina ingenua della globalizzazione. Dunque meta-cinema che riflette sul senso del cinema. Il censore si occupa di cosa può essere visto e cosa no. Invece in questi film, altamente etici, ci si preoccupa di come e di perché una cosa è mostrata.
Come nei più stilizzati e “artificiosi” L’aldilà, Tenebre e Inferno dove spuntano mostri, ma sono come quelli di Bosch e di Grunewald, perfettamente plausibili e in un ambiente verosimile. Il magma sonoro che avvolge queste immagini è soprattutto elettronico, erede delle partiture fantascientifiche anni 50 nordamericane e di Forbidden Planet (1956) di Fred M. Wilcox, il primo score interamente ex machina firmato da Louis e Bebe Barron. Molto utilizzato, in quegli anni, il Teremin, anche per la sua somiglianza con le antenne dei marziani, che deforma le atmosfere sonore in partiture chiave come quelle di Wendy Carlos (che poi cambiò sesso e divenne Walter) per Arancia meccanica o di Mike Oldfield per l’Esorcista (1973) anche se il sintetizzatore e l’elettronica, come ricorda John Cage invece di liberare i suoni e i rumori e di scioglierli dalle catene della riproduzione tonale vengono troppo spesso usati per imitare i classici e depotenziarne la ricchezza. Ù

E dunque Dario Argento
Non in Dario Argento che adora la tecnologia come innovazione e dichiara: “la tecnologia è una grande fonte di ispirazione. La amo. E se nasce una telecamera di nuovo tipo mi suggerirà certamente una storia differente e un altro modo di raccontarla”. 
In Tenebre i Goblin affiancano con il disumano e post-umano sintetizzatore tutte le scene di violenza, brutalità, crimini, smembramenti e omicidi di donne. Una musica che esce ed entra brutalmente nella carne, e non fa nulla per attenuare il dolore del corpo trafitto, anzi incalza elegante e battente.
Keith Emerson in Inferno usa un corpo orchestrale classico per rifare una più complessa orchestrazione del Nabucco di Verdi  ma è il sintetizzatore che avvolge il corpo martoriato di John, a occhi tolti dalle orbite, con suoni eterei e una stratificazione armonica del tutto ignara della scena volta stomaco che abbiamo di fronte.
E sarà proprio il meccanismo elettronico con il quale l’architetto - che ha costruito i tre edifici malefici - riesce a parlare che lo strangolerà.
Fabio Frizzi in L’aldilà utilizza il sintetizzatore come qualcosa che ha a che fare con l’origine stesso del genere horror. Il brano arriva dal nulla – rischiando pure il ridicolo - e sparisce poi improvvisamente, con lo stesso volume alto, non come succede nei film mainstream,  che alzano e abbassano il suono con l’incalzare dell’azione. Molto scandalosa la scena in cui, dopo la castrazione di Mike ecco suonare una pia banda dell’Esercito della Salvezza.
Umberto Lenzi in Cannibal Felix utilizza il jazz funky nella metropoli e il futuristico sintetizzatore nell’Amazzonia degli indios per accentuare i processi di alienazione nella foresta vergine piuttosto che di pietà o commiserazione (visto che la pellicola è spalmato con scene efferate di violenza, omicidi, antropofagia varia).
Anche Riz Ortolani (autore della celebre partitura di Mondo Cane) fa un ibrido tra elettronica e orchestra in Cannibal Holocaust, ma nelle scene di brutalità è il sintetizzatore a prevalere. C’è la stessa sensazione di neo-antico che registriamo nelle incursioni di Pasolini in Africa o in Yemen, alla ricerca, nel passato incontaminato, di una antropologia futura.
L’importante, qui e lì, nel cinema di consumo originale e in quello d’arte da consumare, è nell’aumentare, con ogni mezzo disponibile, il tasso di ambiguità. Che poi è il vero peccato mortale punito dalla censura istituzionale e di un pubblico e di una critica timorosa di intraprendere viaggi favolosi nell’immaginario.