Questa notte Ennio Morricone ha vinto il suo quarto Golden Globe per la partitura di Gli odiosi otto di Quentin Tarantino in uscita nei primi giorni di febbraio in Italia, mentre il cd è uscito il 14 dicembre scorso. Tiuscirà ad agguantare questa volta l'Oscar 2016, che ha sfiorato 5 volte (ma ricompensato con l'assegnazione nel 2007 dell'oscar alla carriera?). Ennio Morricone nonostante la sua età sta preparando tournee in tutto il mondo ed è stato omaggiato nel dicembre scorso anche dal XX Roma Film Festival, presieduto da Adriano Pintaldi, interamente dedicato al compositore romano a cui è stato consegnato il premio alla carriera 2015.
a Gabrielle Lucantonio
di Roberto Silvestri
Premessa.
Non sono un musicologo, ma come critico cinematografico
militante per 35 anni anni in un quotidiano comunista libertario e di
formazione “nouvelle vague”, tendenza Ungari-Morandini-Abruzzese, ho sempre cercato di
scrivere deformando tecnicismi, frasi fatte e ritornelli abusati e di ascoltare
soprattutto musica altra.
E ho appoggiato senza riserve le “nuove consonanze”, anche
tra immagini. Non solo occupandomi internamente di chi le ha deformate e
portate a temperatura critica, quelle immagini, come gli sperimentatori
dell’underground radicale anni 60 (anche in Italia, e credo che per capire il
mio paese interiormente, intimamente siano molto più importanti i film e i
video poetici di Alfredo Leonardi, Alberto Grifi, Tonino De Bernardi, Yervant
Gianikian e Angela Ricci Lucchi, piuttosto che quelli abitualmente consacrati
ed esportati.
A proposito di musicisti della neo avanguardia italiana
(così istintivamente odiati e ignorati dalla generazione successiva). Ricordo
che Sylvano Bussotti, a cavallo tra fine anni sessanta e inizio anni settanta,
ha realizzato alcuni gioiosi cortometraggi sperimentali neoclassici e protogay,
come il pagano Rara, che molto deve
alle incursioni sui miti greci di Gregory Markopoulos. E che il compositore e
teorico Vittorio Gelmetti, allievo di Edgar Varese, uno dei precursori della
musica concreta ed elettronica in Italia, fin dal 1958, ha scritto sconvolgenti
partiture applicate al cinema d’autore per Michelangelo Antonioni (Deserto Rosso, 1964); Tinto Brass (Nero
su Bianco, 1966); i fratelli Taviani (Sotto
il segno dello Scorpione, 1969) e Pasquale Misuraca (Angelus Novus, 1987); e applicate anche al cinema politico di
genere per Giuseppe Ferrara (Il sasso in
bocca, 1970, sulla Mafia; 100 giorni
a Palermo, 1985 sull’omicidio di mafia del generale Dalla Chiesa) o Ansano
Giannarelli (Sierra Maestra, 1969) e
per molti filmaker underground o fuori schema come Carmelo Bene, Alfredo
Leonardi, Adamo Vergine, Luigi Di Gianni, Carlo di Carlo, Gianni Toti, Roberto
Scavolini, Edoardo Bruno….
E che una celebre canzonetta, tormentone dell’estate 1962,
di Edoardo Vianello, Abbronzatissima (1963) iniziava con un “salto mortale” di due
note, che molto doveva alla contemporanea rivoluzione postdodecafonica di Luigi
Nono rintracciabile, identica, nell’azione scenica in due parti su testo di
Angelo Maria Ripellino Intolleranza (1960). Pratiche basse e pratiche alte…
Lo zero equivale al
dieci e lode. Ho (abbiamo sul manifesto)
polemizzato, a questo proposito, con l’insensibilità, il disprezzo e la
sufficienza con la quale la cultura accademica o i colleghi più vicini
all’establishment dominante separavano le pratiche artistiche “alte” e sublimi
da quelle basse e terragne, e rinchiuso in un ghetto (e nel dimenticatoio
storico) il nostro cinema popolare e i suoi artigiani, musicisti compresi (E
non solo il nostro cinema popolare ma anche i film popolarissimi di
Hollywood…).
Un gruppo piuttosto coeso di agit prop composto da raffinati
uomini di cultura (qualcuno il master lo ha preso all’Università della strada)
e virtuosi della macchina da presa, della scrittura, del montaggio, della
composizione musicale, della scienza scenica e costumistica, che fu sempre disprezzato,
combattuto e supercensurato dal monolitico potere conservatore della Dc e dagli
elementi conservatori dell’ opposizione, blocco che ha governato
ininterrottamente il paese tra il 1948 e il 1978 (portandolo sull’orlo della
guerra civile nel decennio 60-70, pur di mantenere la sua collocazione
filo-occidentale e la subordinazione totale agli interessi Usa) e forse
tutt’oggi. Un mucchio selvaggio di cineasti (non solo registi, mi raccomando)
che sostanzialmente usava scandalosamente, attraverso il linguaggio metaforico
dell’arte, raccontare le contraddizioni profonde del paese, spingere,
indirettamente, all’indignazione e alla lotta, cioè alla dignità personale e al
lavoro ben fatto, e combattere i valori reazionari dominanti (l’oscurantismo
cattolico, per esempio, il clientelismo, il servilismo, il conformismo…). Ma
che, a differenza dei grandi cineasti italiani di quei decenni, neorealisti e
post neorealisti, come Fellini, Visconti, Antonioni, Zeffirelli, Germi, Lattuada…
aveva appreso dalla lezione di Rossellini a disprezzare l’enfasi
dell’autorialità, la santità delle gerarchie, l’ossessione del capolavoro
assoluto da appendere al muro, delle forme sublimi e perfino del linguaggio
innovativo a tutti i costi (sono i contenuti innovativi, per questo siamo
formalisti). Perché era la vita che andava cambiata, grazie all’arte che si
occupa di arte. E l’esplorazione era più interessante del film “a cinque
stelle” secondo le valutazioni dei mass media. A noi interessava il sovrumano e
il subumano. Zero equivale a dieci.
Dai melodrammi anni 50 di Raffaello Matarazzo agli horror di
Riccardo Freda e Mario Bava, ai drammi metropolitcani ultra violenti e ai
musicarelli di Lucio Fulci, alle space opera di Antonio Margheriti, alle
commedie contro di Antonio Pietrangeli, ai cappa e spada di Vittorio Cottafavi,
ai poliziotteschi di Umberto Lenzi e Fernando Di Leo… Terrorizzati per i succhi
sovversivi sprigionati da questi prodotti di genere ma di alta qualità
artigianale, che comunicavano direttamente, “full frontal” con i senza potere,
gli adolescenti, le casalinghe inquiete, le platee operaie delle periferie e
contadini delle province, non solo italiani. E mi colpì molto, durante un viaggio a Tokyo di circa 20 anni
fa, la quantità di vinili in vendita dedicati alla musica applicata al cinema.
E in particolare la grande considerazione che il pubblico
giapponese (e presumibilmente asiatico) riservava, in un momento di globale
sensibilità “lounge”, al cinema bis italiano e alle sue musiche di così
immediata comunicativa melodica. Che viaggiando indietro nel tempo e
riallacciandosi alle melodie e alle armonie del passato, classico e pop, occidentali
e esotiche, tenevano conto però della benefica tempesta anti accademica (gli
avanguardisti di Darmstadt, Stockhausen, Luigi Nono, Kagel…), anche nel jazz e
nel pop (rock, heavy metal, punk…), approdando a un canone “neo classico” .
Erano pressoché disponibili le opere complete non solo di
Pino Donaggio e Ennio Morricone (star del sountrack internazionale) ma anche di
compositori come Giorgio Gaslini, Enrico Simonetti e i Goblin, Pino Donaggio,
Agostino Marangolo, Walter Martino, Maurizio Marini, Fabio Frizzi, Fabio
Pignatelli…. le cui colonne sonore erano in Italia meno abbordabili.
Nei negozi di cd e dischi (quasi defunti oggi anche se si
assiste alla resurrezione dei 33 giri) interi scaffali erano dedicati alla
musica applicata a prodotti di genere. Ai western, ai film storici, agli
horror, alle commedie, alle farse sexy, alla fantascienza e ai peplum.
Erano partiture di grande qualità artigianale realizzate tra
gli anni 50 e gli anni 70. Il tutto grazie ai successi di Ennio Morricone. Ricordo ancora che, grazie a Federico De Melis, figlio dell’editore discografico di Morricone, ho conosciuto Sam Fuller
il suo compositore prediletto a Roma, all’International Recording, mi pare,
durante la registrazione delle musiche di White
dog. Ebbene Fuller era incantato, estasiato dalla precisione emozionale di
Morricone. Mi diceva che quelle musiche, anche senza le sue immagini
contenevano la scultura interiore del suo film. A proposito. Nel referendum/sondaggio sui migliori
lungometraggi a soggetto del cinema italiano organizzato da un programma di
Radio Tre Rai che è diventato un
libro della Eri, I cento colpi di
Hollywood Party, i primi due film in classifica C’era una volta in America e Indagine
su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sono musicati da Ennio
Morricone. E sono altre 11 sue partiture a figurare nei primi 102 film
prescelti.
Non c’è Salò senza
Spasmo
Chi ha ascoltato Suoni
per Dino, 1969, una delle poche composizioni sperimentali di Ennio
Morricone scritte per la sala di concerto, quelle che “venivano pagate 30 euro”
e dunque non lo facevano mangiare, saprà ritrovare quelle sonorità libere e quei timbri
anarchici negli interstizi delle sue celebri partiture e in particolare nel
frammento di un film di Elio Petri del 1979, con Giancarlo Giannini, Le buone notizie, una commedia grottesca
sulla malinconia dei cosiddetti “anni di piombo”.
In una scena di fine film Giannini, nei panni di un italiano
medio bigotto e triviale, vede un mago che si esibisce in tv, altrettanto
volgarmente, e si sente (“musica da buca”) un breve blitz di musica
contemporanea, con l’introduzione di tre grandi intervalli, che Morricone
mescola a un leggero tocco di jazz e a qualcosa di popolare affidata a un
mandolino, lo strumento tipico della tradizione napoletana.
Il risultato è piuttosto strano per le abitudini acustiche
dello spettatore medio, imbarazzato dalle contaminazioni di generi musicali e
di geografie, ma Petri lo gradì molto. Perché il film era disperatissimo e
profetico sulla sorte del nostro paese ma doveva far ridere.
Al regista di Indagine
che spesso rimproverava il musicista perché disperdeva il talento in troppi
filmacci di serie b, Morricone rispondeva che “l’origine di questo risultato
che ti piace tanto è proprio nella musica scritta per i film di genere”.
Avendo bisogno di essere pesantemente salvati proprio dalla
musica, quei film non correvano il rischio di essere rovinati da partiture
ingombranti e dunque si poteva osare di più, sperimentare soluzioni nuove che
sarebbero poi tornate utili in film più importanti e complessi.
Ennio Morricone è il sinonimo di “musica applicata e cinema
italiano”, almeno quanto Nino Rota, cioè l’orecchio di Fellini. Morricone è
“musicista totale”. Compone, arrangia, esegue, dirige personalmente
l’orchestra, senza mai utilizzare collaboratori né sfruttare giovani musicisti
disoccupati da pagare in nero. Anche perché aveva subito proprio questo
maltrattamento quando era alle prime armi… E’ il Bernard Herrmann di Cinecittà.
In questi giorni il compositore di Per un pugno di dollari sta lavorando al nuovo film di Giuseppe
Tornatore, La corrispondenza, con
Jeremy Irons, dopo aver finito il western The
Hatefull Eight di Quentin Tarantino, uno dei suoi più grandi e acuti fan. E’ in piena attività.
La grande carriera.
Morricone ha venduto finora oltre 70 milioni di dischi. Ha scritto partiture
per 527 film, per lo più lungometraggi, ma anche documentari, corti e film e
serie televisive. E opere militanti o sportive (in cui si lascia andare perfino
al doppio gioco dello stereotipo, perché, in questi generi, la retorica e la
propaganda imperano ed è bene criticarle obliquamente, con sarcasmo e ironia).
E’ stato candidato 5 volte al premio Oscar, che ha vinto,
per la carriera, nel 2007. Ha conquistato 3 Golden Globe, anche nel 1986 per Mission, 3 Emmy, 5 Bafta e 10 David di
Donatello. Esploso nel 1964, tre anni dopo l’esordio, con il sound di Per un pugno di dollari (e seguiranno
altre sei collaborazioni con Sergio Leone, fino a C’era una volta in America) l’ex trombettista romano, figlio di un
virtuoso della tromba, che oggi ha 87 anni,
è stato uno degli artisti centrali del nostro sistema industriale, anche
delle sue zone considerate generalmente le più periferiche e “basse”.
L’età dell’oro di
Cinecittà. Nel ventennio 60 e 70 il cinema italiano era tra i primi al
mondo: si esportavano western spaghetti, horror, thriller e film d’arte a
decine, e senza soluzione di continuità. E Morricone componeva non meno di
15-20 sountrack all’anno (la crisi inizia alla fine degli anni 70, quando le
commissioni scenderanno improvvisamente sotto le 10 l’anno).
Questo musicista, allievo di Goffredo Petrassi, di solida
educazione classica e postwagneriana, specializzato in musiche per banda e
corali, arrangiatore e orchestratore di canzoni pop “latine” (proprio come
l’altro collega hollywoodiano, Pino
Donaggio), ha partecipato contemporaneamente alla grande battaglia perduta
della neo-avanguardia, nella componente più oltranzista e sperimentale, il
gruppo romano di improvvisazione “Nuova Consonanza” (1964-1980).
I musicisti post-weberniani, tranne Egisto Macchi e Ennio
Morricone (Suoni per Dino, 1973 è
l’equivalente di un quadro d’action painting acustica) hanno lavorato ai
margini del “sistema Cinecittà”, coinvolti saltuariamente da documentaristi e
filmmaker underground (per esempio Luigi Nono e Luciano Berio). Lo stesso
Cesare Zavattini, uno dei creatori del neorealismo, negli ultimi anni di vita è
stato osteggiato e messo ai margini. Il suo film realizzato da regista, La veritàààààààà, ha una colonna sonora
che è puramente lettrista, solo rumori, grida, urla, cacofonie, gemiti,
frastuoni. Già prefigurava la musica a sonorità integrale del futuro. Sarebbe
piaciuto a Isou e Cage.
Eppure Morricone non ha mai disprezzato i suoi lavori più popolari,
commerciali, gastronomici o di routine, considerandoli altrettanto impegnativi,
anzi particolarmente stimolanti.
Purché i film siano visti con impianti di riproduzione del
suono tecnologicamente perfetti. Il che in Italia non è successo per molto
tempo e anche oggi non accade in molte parti del paese. Si ascoltava, per
problemi di riproduzione del suono carente, solo il 20% circa della colonna
sonora, che è fatta di dialoghi, rumori, musica. Soprattutto se il film è
straniero. Perché in Italia il doppiaggio regna dall’epoca fascista e
semplifica, cancella, per motivi di costi molte piste sonore.
Mentre, in fondo, un “film ha più bisogno di sound, di
sonoro, che di musica strumentale” (come ricorda un altro grande musicista
colto di musica applicata, Vittorio Gelmetti). Timidi miglioramenti grazie ai
multiplex, comunque, oggi, grazie ai blockbuster tecnologici in 3d di Hollywood
che obbligano al continuo aggiornamento tecnologico. Ma gli autori più
coraggiosi lasciano sempre piena libertà ai musicisti scomodi. Bernardo Bertolucci
chiama Gato Barbieri. Antonioni i Pink Floyd. E Dario Argento, ancora prima
aprirà al rock, all’heavy metal, ai Goblin, ai Deep Purple (anche se poi non se
ne fece nulla) e Keith Emerson.
Prima, in L’uccello
dalle piume di cristallo (’69) Ennio Morricone aveva sperimentato per
Argento la cosidetta “musica traumatica”, mix tra suoni “disciplinati”, cioè
tonali, e rumori in libertà, una scelta stilistica da pioniere. Sperimentare
non è però il verbo esatto. Come ricordava John Cage “i compositori sanno
perfettamente quello che fanno, e gli esperimenti sono quelli che hanno tentato
prima di completare l’opera, come prima di un quadro si disegna un bozzetto…”.
Negli altri horror rumori, suoni distorti, urla e gorgheggi
stropicciati, strumenti atipici, rielaborazioni elettroniche e sciabolate di
free jazz vengono utilizzati per ritrovare con maggiore piacere il percorso
melodico finale, che alleggerisce il trauma. Si veda e si ascolti Il gatto a nove code (1970), 4 mosche di velluto grigio (1971),
sempre di Argento, o Una lucertola con la pelle di donna di
Lucio Fulci (1971). E in ognuno di
quei film horror e di genere (Morricone li ha interpretati tutti, e dentro i
generi ha contribuito al sound specifico dei differenti filoni, per esempio: la
commedia di costume, la commedia medievale-boccaccesca, la commedia sexy…. ) il
compositore romano poteva utilizzare, con ancora maggiore libertà, perché nel
cinema bis la connivenza culturale con il regista era paritaria, anzi
squilibrata a suo vantaggio, assieme alla sua sapienza sinfonica, il bagaglio
di musica concreta ereditata dalle avanguardie (dai futuristi a Edgar Varése
all’elettronica). E approdare a modi e tonaltà extra occidentali (si ascolti la
colonna musicale di L’esorcista II:
l’eretico, di John Boorman, del 1977, influenzata dai ritmi e dalle
percussioni africane che approfondiscono la profonda riflessione sul conflitto
Bene/Male); utilizzare l’asincronismo, il contrasto, il conflitto tra immagine
musicale e immagine visiva per creare un tessuto emozionale più profondo,
inquietante, energetico o sorprendente. E spiazzare il pubblico, deviando
continuamente dal flusso armonico e melodico prevedibile. Cosa che, soprattutto
nei film d’azione, dove il suspense richiede controtempi e aritmie, gioia,
ironia, angoscia, paura, coralità o virtuosismi solistici ben dosati, si adatta
perfettamente alla sua personalità poliedrica. “La musica applicata a un film è un valido
sostegno all’immagine, non ha un potere di suggestione superiore, deve
assecondarla, ma non come un servitore, ha una importanza creativa ed
emozionale paritaria: si deve sentire, la musica”, diceva, anche se
razionalmente ci si può anche non fare caso.
Perché la musica arriva e provoca là dove le parole e
l’immaginazione non possono penetrare. Così Morricone dava un vigore
comunicativo maggiore anche alle visioni meno robuste, a forza di guerreggiare,
polemizzare e ironizzare sarcasticamente con le sequenze più anemiche e con i
ritmi più incolori e fermi.
Deviazione Scorsese. Proprio quello che Martin Scorsese nel 1990 fa in Goodfellas - grazie però al potere discografico della Wb, che è anche una big company musicale – utilizzando la storia della canzone popolare radicale in America in 43 brani (tre album e mezzo) interpretati dai più famosi crooner melodici (Dean Martin,. Tony Bennett), o gruppi neri doo-wop, bluesmen, rock band (Who, Cream, Rolling), divinità del rhytm&blues, o golden oldies anche italiani (Mina), che fanno da contrappunto, cronologicamente corretto, ai momenti drammatici, buffi, horror, insostenibili, d’azione esteriore e interiore di quel film sulla mafia di Manhattan, da quando si è gangster cuccioli a quando si spaccia cocaina alla grande (Monkey Man dei Rolling Stones) a quando si pianificano rapine e omicidi efferati. Tre anni di lavoro prima di girare per pianificare il raccordo tra singola scena e singolo brano, l’attacco perfetto tra parole e ritmo, utile a sottolineare o criticare, o anticipare ogni sequenza.
Morricone, a differenza di Scorsese, doveva però fare tutto
da sé. Utilizzando tutti i mezzi necessari.
Grande orchestra, elettronica, piccoli ensemble, fischio solista,
strumenti popolari come lo scacciapensieri, canzoni “alla moda beat” (come in Diabolik di Mario Bava), silenzi. Non
aveva una mega company come la WB alle spalle…Eppure si può dire che sia i
soundtrack dei film di Scorsese che quelli di Morricone si gettano contro il
pubblico con la veemenza, la forza, la sincerità, la sottigliezza e grandiosità
emozionale di una performance da rock star, fanno l’effetto one man show alla
Janis Joplin o alla Jimi Hendrix. “Adoro la maestosità delle tue opere, e
quando mi sono sposato ho fatto suonare in chiesa il tema di C’era una volta il West. La tua musica
mi ha sedotto…” ha confessato John Carpenter che lo ha voluto per La Cosa, dandogli libertà totale.
I soliti problemi.
Anche se sappiamo quanto sia carente dal punto di vista finanziario, rispetto a
Hollywood, l’investimento nella musica del nostro cinema, e anche il rispetto
professionale, troppo basso, dei nostri esecutori. I Conservatori di musica non
addestrano alla composizione applicata. L’individualismo esasperato dei maestri
impedisce la tutela collettiva della categoria, priva di forte rappresentanza
sindacale e istiga al corporativismo.
Pochi musicisti sono coinvolti dal regista già in fase di
sceneggiatura, sia in fase del montaggio, in moviole, e nel missaggio. Il 2.10% che va all’autore delle musiche di
un film è ripartito tra lui, l’editore musicale e la Siae (la società che
tutela i diritti d’autore). Se qualcuno, come Mario Nascimbene, insiste nel
comporre partiture troppo nuove, tormentate, difficili, semplicemente viene
fatto fuori dal giro, nonostante il suo altissimo prestigio. Viene la voglia di
emigrare. Lo fanno Carlo Siliotto, e “virtualmente” un musicista veneziano che
era diventato popolare grazie a una canzone pop che aveva venduto milioni di
copie, Come sinfonia, Pino Donaggio.
Che ricorda i tempi delle sue collaborazioni con Brian De Palma per Dressed to kill e Body Double, quando aveva un mese e mezzo per comporre, due
settimane per registrare, e un budget
illimitato. In questa situazione si può scrivere e interpretare la
musica al meglio. Come si vede nelle sequenze del museo (Dressed to kill) o della spiaggia (Body Double). Anche se il modello hollywoodiano dà tutto il potere
al produttore, compreso quello di manipolare le musiche. E nessun final cut al
regista.
Morricone spesso lavora all’estero, ma nessuno può
manipolargli le musiche. Piace il suo particolare, originale cocktail. Definisce
“musica psicologica” alcune parti delle sue composizioni, perché non spiegano,
non accompagnano, non raddoppiano l’effetto visivo, ma “esaltando il tipo di
sentimento suscitato da una certa sequenza, ne sottolineano la cronaca”,
l’atmosfera impalpabile. Mentre il tema portante del thriller, il coro o il canto
femminile accompagnato da un’ armonia più semplice, orecchiabile e “tonale”
sottolinea invece l’umanità presente nei personaggi e nella storia stessa”. La
guerra tra aria e recitativo. Tra bene e male.
Così spiegava a Luca M. Palmerini e a Gaetano Mistretta in Spaghetti Horror (1994): “nei miei
thriller ci sono sempre due linee musicali opposte e conflittuali (confliggono
ovviamente sempre in modo differente): il Bene è il tema portante, melodico,
popolare, il Male è musica gestuale, aspra, concreta, difficile, dissonante”.
I Goblin, fautori del “progressive rock”, alla Emerson Lake
& Palmer o alla Jethro Tull, che non disdegna esibite citazioni di musica
classica, verranno chiamati, d’istinto, da Dario Argento, nel 1975 per
sostituire non solo Ennio Morricone, ma anche il jazzista free Giorgio Gaslini
(di cui non resterà nel disco che il lato B), e modernizzare, con cautela, il
sound di Profondo Rosso, rendendolo
di più immediata comunicazione con il pubblico dei teenager.
Nel cinema horror dopo l’epoca Bernard Herrmann (Pshyco, Vertigo) che utilizzava negli
anni 40 e 50 l’orchestra sinfonica classica ma spingeva verso l’abisso la sua
struttura armonica tonale, attraverso dissonanze inquietanti e cromatismi di
scuola Richard Strauss, era stato il cool jazz
alla fine degli anni 50 (con la Nouvella Vague francese, Martial Solal o
Miles Davis) a immergere lo spettatore nell’angoscia metropolitana e in un
clima paralizzante di paura. Morricone lo aveva utilizzato ampliamente. Ma nel
1973 William Friedkin nell’Esorcista
aveva fatto irrompere la musica rock di Mike Oldfield dentro il più ansiogeno
dei generi, con le sue ritmiche ossessivamente ripetitive. Ecco cosa voleva
Argento. Il rock, per la prima volta utilizzato nel cinema narrativo da
Michelangelo Antonioni (Blow up,
1966) e Barbet Schreoder (1968, More).
La musica diegetica, quella cioè interna alla storia raccontata, può anche
essere jazz. Il protagonista del film è infatti un pianista di jazz. E può
essere “musica da schermo” (come il teorico francese Michel Chion chiama la musica diegetica)
anche la filastrocca inquietante con la
voce di bambina (erede del fischio di M
di Lang, del Dies Irae di Verdi in L’etrusco uccide ancora di Crispino e
della voce di bimba che annuncia i delitti in Quattro mosche di velluto grigio). Ma il rock prende interamente il
posto della “musica da buca”, quelle off, che provengono da spazi e da tempi
che non appartengono all’azione. C’è il leit motiv sentimentale che accompagna
la storia d’amore e altri “interventi empatici”, che rivestono il ritmo, il
tono e il fraseggio del film e ne sottolineano o ne anticipano le emozioni
(tristezza, gioia, movimento, paura, terrore…). Non cambierà il rapporto tra
“musica dell’angelo” e “musica del diavolo” così come lo aveva impostato
Morricone, anche quando nelle successive colonne sonore di Simonetti (per Tenebre, Phenomena, Opera, Il cartaio, Jennifer,
La terza madre) saranno completamente diversi gli organici, i riferimenti
pop e colti, lo stile di rock alla moda nel momento, i complessi orchestrali e
verranno eliminati le “voci di bimba” i soprani e i carillon….Anche qui come
nelle partiture di Morricone di fondamentale importanza è il fragoroso rumore del
silenzio, il sound of silence. Già lo ricordava Robert Bresson: “il cinema
sonoro ha introdotto il silenzio”.
Ma i virtuosismi e la cultura musicale di Morricone
contenevano in sé già non solo l’energetica potenza lisergica del rock ma anche
il minimalismo a venire. Ha scritto per un film delle variazioni su tre suoni.
Nel 1979 per L’umanoide film di
fantascienza di Aldo Lado ha realizzato una fuga a sei voci con un doppio
soggetto e un doppio controsoggetto…Quando il montatore Ruggero Mastroianni nel
1979 alla moviola di Le buone notizie
di Elio Petri ha commentato: guarda che qui non si ride, Morricone ha buttato
via la sua complessa partitura, variazione su un tema di Schubert, come Petri
gli aveva suggerito. Perché è musicista di cinema, non un compositore. E vuole
che il film faccia soldi. Abbia successo.
Una industria cinematografica quando è sana e viva sa sempre
chiudere, la forbice tra ricerca e standard, tra esperimento e canone, tra
creatività e tecnica, tra novità e tradizione, perché solo così avanza e sa
radiografare in anticipo i sommovimenti invisibili del mondo e le mutazioni
emozionali nella ricezione e nel consumo. Oscillando tra partiture più
impegnate e più “gastronomiche”, tra Malick, Pasolini, Petri, De Seta,
Bertolucci, Siegel, Fuller, i Taviani, Cavani, De Palma, Pontecorvo… da una
parte, e gli artigiani del cinema bis, di genere (Salce, Negrin, Mastrocinque,
Verdone, Fulci, Bava, Corbucci, Castellano & Pipolo…) dall’altra, si può
dire che Morricone sintetizza un’epoca, simboleggia più di mezzo secolo di
storia del cinema italiano dalla a alla z. Proprio come Pier Paolo Pasolini ne
sintetizza la tragica fine: il poeta non si vergognava, anzi, di partecipare,
come attore, al western-spaghetti di Carlo Lizzani Requiescant, o come sceneggiatore a Milano Nera (1961), poliziottesco di Gian Rocco e Pino Serpi,
imparando il mestiere con Mario Soldati (La
donna del fiume, 1954), Luis Trenker, Mauro Bolognini, Luciano Emmer,
Franco Rossi, in opere scritte a 10/12 mani. Pasolini promette a Ettore Scola
di girare un’introduzione, come in un prologo, a Brutti sporchi e cattivi. E solo la drammatica morte glielo
impedirà. Pasolini-Morricone insieme
faranno insieme dal 1966 Uccellacci e
Uccellini, Teorema. Il Decamerone, Il fiore delle Mille una notte e Salò, il film per il quale fu
condannato a morte, e che è stato appena eletto dai ragazzi delle scuole di
cinema in giuria alla Mostra di Venezia 2015 il miglior classico restaurato del
festival. Ed era considerato un film maledetto, durissimo, quasi insostenibile…
Sono particolarmente indicative a questo punto alcune
riflessioni, mai sprezzanti, rispetto al cinema di genere dichiaratamente
commerciale dello stesso Morricone. “La
penso come Pasolini. ‘Bisogna trovare la maniera di riscattarsi. Di superare i
condizionalmenti del cinema e della vita’. Non bisogna lasciarsi andare,
reagire contro ciò che di volgare c’è nel mestiere. La musica da film non si
può paragonare alla musica seria. Bisogna considerarla da un’altra ottica
perché i condizionamenti sono troppi. Allora bisogna trovare una libertà
differente che permette al compositore di trovare il proprio riscatto
spirituale all’interno stesso di questi condizionamenti che bisogna accettare
se vogliamo lavorare. E posso dire in coscienza che ho sempre tentato in ogni
pezzo musicale anche il più volgare degli esperimenti che mi potevano fare un
piccolo passo avanti”.
Insomma. Non c’è Salò
o Mission senza Spasmo (che è un giallo di Umberto Lenzi del 1974, importante come
vedremo) alle spalle, e in particolare senza i quattro brani avant-garde dal
titolo Stress infinito e senza
l’esperienza accumulata dal compositore romano negli horror e nei film
spionistici della metà degli anni 60, nei western, nelle commedie sexy e
appunto nei tanti “gialli” anni 60 e 70.
Ma ciò che unifica l’intervento musicale di Morricone in
queste opere, alte e basse, è qualcosa di più di una teoria
musicale eccentrica.
Il concetto di “noia
creativa”.
E’ un punto chiave per comprendere l’originalità del cinema
italiano nella sua epoca aurea. Quella caratteristica “vitalità e fertilità
della noia” - secondo la suggestiva sintesi fatta da un critico americano,
Chris Fujiwara nel saggio “Boredom, Spasmo and the Italiam System” (nel volume Sleazers Artists, 2007) che si impossessa contemporaneamente della
letteratura, del fumetto, della musica, delle gallerie d’arte e soprattutto di
Cinecittà dagli anni 60 fino ai cinque maledetti iper-horror anni 80 super censurati in molti
paesi del mondo: Tenebre e Inferno di Argento; Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, Cannibal Ferox di Umberto Lenzi, L’aldilà di Lucio Fulci (le cui musiche demoniache sono affidate rispettivamente
a Claudio Simonetti, Keith Emerson, Riz Ortolani, Fabrizio Frizzi, Roberto
Donati & all’attrice-compositrice Fabia Maglione).
Nei capolavori muti e noiosi
per eccellenza, del cinema moderno, per esempio in Sleep (1963) o Empire
(1964) di Andy Warhol, o nelle opere di Chantal Ackerman, Michael Snow,
Straub-Huillet, l’illusione filmica,
l’effetto sogno ad occhi aperti, resta intatta ma è la nostra partecipazione
affettiva e percettiva che sembra allontanarsi, a differenza che nei
blockbuster hollywoodiani, congegnati proprio per impedire quella divaricazione.
Eppure l’esperienza dello spettatore che non desidera più
identificarsi con quel che vede cambia semplicemente la modalità della visione
e la gamma dei desideri, spezza il gioco ipnotico per attraversare lo schermo e
proiettarci verso la vita, da analizzare, da ponderare, da modificare.
Il giovane Tarkowski al maestro Mikhail Romm che gli
rimproverava l’eccessiva lunghezza dei piani del suo saggio di laurea,
replicava: “se allunghi la normale durata di una ripresa certamente annoi, ma
se l’allunghi ancora di più produci una nuova qualità di visione e una nuova
intensità dell’attenzione”.
Già, nella noia il
tempo non passa mai, ogni istante si dilata, il fluire cronologico è espulso
dall’esistenza e diventa esterno a noi. Non viviamo più nel tempo. Insomma
possiamo perfino amare questo stato… Gramsci diceva che alla catena di
montaggio l’operaio sfruttato dal lavoro ripetitivo pensa di più e si trasforma
da docile forza lavoro in ostinata e combattiva classe operaia già organizzata
in partito….
L’artista statunitense Christian Marclay vince la Biennale
d’Arte di Venezia del 2010 rendendo un ironico e definitivo monumento pop alla
noia, lungo ben 24 ore, The Clock,
che scandisce minuto per minuto, utilizzando clip da film di tutto il mondo,
proprio questa fluida perdita del tempo.
Scrive Fujiwara: “meno il film sembra cambiare, più lo
spettatore diventa conscio dei suoi moti interni, del proprio fluire, del
cambiamento interiore”. Si mette in moto nella ricezione, un meccanismo
indipendente dalla vista, fatto di riflessioni, collegamenti mentali, pensieri,
piaceri e dispiaceri fisici che il critico francese Henri Wallon chiama “serie propriocettive”.
Siamo alle scaturigini, appunto, di quel lavoro dello
spettatore critico che permette di dire: lì sta il film, e il suo mondo, qui
sono io, e il mio, fuori c’è un altro mondo. Come dire l’entertainment diventa triplo. Un piacere triadico. Freud scriveva: “nel lutto è il mondo che ci
sembra povero e vuoto, nella melanconia è il nostro ego a sembrarci povero e
vuoto”. Al cinema, che il film sia incalzante o meno, ci si riprende un po’. Ma
la noia aiuta.
Insomma la noia è uno stato di libertà. Devi scegliere di
essere annoiato. E la cosa può anche eccitare. Ci succede davanti ai film di Michelangelo
Antonioni che sulla rappresentazione dell’immobilità, morale e mentale, della
borghesia del boom economico non ha rivali. Ma è Cinecittà tutta che vive e si
arricchisce per oltre 30 anni proprio… sulla immobilità (dei generi) e sulla
noia attiva. Come soggetto, da La dolce
vita a Il Disprezzo, ma
soprattutto introducendo questo meccanismo perfino nel road movie (la noia del
viaggio, della vacanza) e nel cinema d’azione per eccellenza, quello dei
generi, filone dopo filone.
L’analisi entusiastica fatta da Fujiwara dell’esperienza melanconica di Spasmo, giallo solare che viviseziona la psicologia perversa,
morbosa e criminale dell’alta borghesia, e delle musiche corali e atonali di
Morricone, è a questo proposito illuminante.
Il film doveva essere girato da Lucio Fulci, ma Umberto
Lenzi lo ha completamente riscritto introducendo le astratte e inanimate
bellezze degli attori (Robert Hoffman, Suzy Kendall e Ivan Rassimov),
l’elemento della illuminazione solare e del clima balneare che contrasta con i
nostri “dark corner” (quelli che Argento affoga in thriller cupi e nerissimi
black), le bambole, oggetti immobili per eccellenza, la villa nascosta, dove i
protagonisti del film si annoiano a morte, il dialogo postsincronizzato (anche
perché i tre attori principali sono stranieri, l’effetto è straniante, le voci
sono tutte impersonali e neutrali, così staccate da quei corpi) e uno zoom
sempre attivo di cui il direttore della fotografia Guglielmo Marcori, e tutto
il cinema commerciale italiano di quell’epoca, abusa, continuando a manovrarlo
in avanti e indietro perché è l’unico soggetto cosciente capace di animare gli
ampi spazi nei quale i personaggi
vagano, senza comunicare e senza intenzionalità apparente.
Questa “dinamica immobilità” viene mascherata da un continuo,
quasi ridicolo uso della macchina. L’automobile del dopo boom che è simbolo di
ricchezza (è una Bmw), sesso attivo, mascolinità (sono sempre gli uomini alla
guida) e di libertà di movimento. Zoom e
automobile hanno l’incarico di annullare lo spazio e il tempo delle
soggettività. Come nei road movie il paesaggio diventa più importante dei
personaggi e il fatto che si muovono è più importante di chi siano e di cosa
abbiano intenzione di fare… Anche perché si nota una netta separazione tra voci
e corpi, tra menti e mondo. Ricordate l’effetto Kuleshov? L’espressione
dell’attore cambia nel montaggio tra sequenza A e sequenza B. Ebbene l’effetto Lenzi lascia al solo lavoro
dello spettatore la comprensione e interpretazione, per esempio,
dell’espressione di Fritz (Ivan Rassimov), per esempio, che guarda
inespressivo, in campo/controcampo, un vecchio home movie d’infanzia. Michel
Piccoli nel Dillinger è morto di
Ferreri aveva anticipato questa sequenza.
Le tante incongruenze e inconsequenzialità del film di
Lenzi/Morricone, come antidoto alla “distrazione affollatissima di segni” da
blockbuster, vengono rivendicate con forza da Fujiwara, che le affilia al
laboratorio teorico dei situazionisti dell’epoca, i più implacabili nemici del
capitalismo nell’era della biosfruttamento e dell’accumulazioni di immagini e
cioè della “società dello spettacolo”. Qui funzionano tutte e due le armi antisistemiche
dei situazionisti: il détournement cioè
il riuso in altri contesti di segnaletiche d’arte immagazzinate e citate e la dérive, l’ attraversamento
creativo/distruttivo dell’ambiente urbano.
La scatenata indeterminazione dei “noiosi film di genere”
rigonfi di memoria iconografica da annichilire non ne fanno dei candidati
ideali per il détounement? Non sono l’ambiente ideale, quei film noiosi, per
una dérive estetica nella quale noi possiamo liberamente circolare?
Originalità e sovversione, dunque, quella dei cinema bis di
Cinecittà 1960-1980, che molto deve ai nostri artigiani del cinema ma anche ai
loro rapporti, diretti e indiretti, in quell’epoca di militanza politica forte,
di scrittori, pittori, architetti, drammaturghi, design, stilisti militanti,
che erano a contatto, pensiamo a Carmelo Bene o a Mario Schifano, con le zone
più fertili della ricerca estetica e della cultura mondiale.
Da musicista di formazione contemporanea, aleatoria ed
elettronica, Ennio Morricone è per esempio estraneo alla forma sonata classica
che richiede esposizione tematica e sviluppo. Lo irritano anche le canzonette,
con la ferrea struttura: “introduzione, strofa, ritornello” che spesso i
produttori gli impongono di scrivere per vendere di più gli lp del film. Se pensiamo che il metodo di lavoro di Leone
con Morricone partiva quasi sempre da alcuni motivi creati dal musicista sui
quali il regista imbastiva il ritmo del
suo girare ci accorgeremo della grande differenza con il metodo fordista-taylorista
di Hollywood nel quale lo score viene creato interamente in
post-produzione.
L’immaginazione, nella musica applicata, anche in Europa,
però, data la brevità degli interventi generalmente richiesti (non più di 40
minuti su un film di 90’-120’, e spesso molto meno), non ha proprio il tempo
per svilupparsi.
Dunque è il tema che torna, ininterrottamente, ciclicamente.
Quel che cambia è la strumentazione, i timbri, la tessitura orchestrale. Lo
sviluppo è inutile.
O meglio è affidato all’immaginazione
dell’ascoltatore-spettatore. E’ lui il vero sperimentatore,
come sosteneva John Cage, a lui affidato il compito di collaudare e chiudere
l’opera ‘aperta’, partecipando alla fase finale della sua creazione. L’arte
concettuale italiana, proprio in quegli anni, pensiamo a Pascali, Fabro, Lombardi,
Lo Savio, attiva lo stesso procedimento “politico” di provocare la ricezione. E’
un po’ come reagire alla lingua attraverso la materia audiovisiva, andare al di
là dell’arte, verso il concetto, dentro la poesia, scopo antropologico
dell’essere vivente, come sosteneva Brodskji.
Quella macchia sonora mutante, quella “forma ciclica”
musicale in alcuni casi può addirittura fare a meno del tema, senza arrivare
quasi mai all’atonalità o alla dissonanza, lavorando su sonorità capaci di
abolire la melodia, fino alla “immobilità dinamica” o al “movimento
nell’immobilità”, nel caso dell’accordo unico o dei due accordi, come nella
sequenza di Petri o in altre partiture di Morricone.
Pasolini parlava di coesistenza, nell’immagine visiva o
sonora, di “profondità statica” e “orizzontalità ritmica” e Morricone di un’
“idea di immobilità come quella che si può immaginare per la musica
orientale”.
Pensiamo contemporaneamente a Michelangelo Antonioni e alla
sua progressiva purificazione degli interventi musicali scritti, dopo la fine
della collaborazione con Giovanni Fusco, alla ricerca di uno stile sempre più
spoglio e asciutto, di una immagine visiva sempre più ascetica, affidata
soprattutto al suono concreto, fino all’uso progressivo del solo rumore
diegetico tra L’Avventura e, grazie a Gelmetti, Deserto
rosso. Profondità statica e orizzontalità ritmica diventano la musica delle
sue immagini.
Il filosofo francese Gilles Deleuze, nell’ Immagine-tempo spiega meglio il lavoro
dello spettatore moderno quando parla del cinema sonoro come di un immenso
“monologo interiore” che esteriorizza e interiorizza non un linguaggio, ma una materia visiva che è l’enunciabile di un linguaggio e che rinvia a
enunciati diretti (atti di parole, sostanza conoscitiva, suoni e musiche) o indiretti (nel caso delle didascalie del
muto).
E poi arriva il rock…
In Suspiria (1977)
di Dario Argento che secondo un attendibile giudice, John Carpenter, “è il
migliore film horror mai realizzato in tutta la storia del cinema”, i 20 minuti
iniziali sono una forma spazio/temporale di tensione esasperante e di
virtuosismo emozionale mai eguagliata da Argento.
E’ un pezzo da brivido. E anche da antologia del migliore
cinema italiano, paragonabile, per perfezione architettonica, alla sequenza
sull’isola di Lisca Bianca quando Monica Vitti e Gabriele Ferzetti cercano Lea
Massari scomparsa ne L’avventura;
agli ingrandimenti fotografici di Hemmings che svelano un delitto in Blow up o all’apparizione di Claudia
Cardinale in C’era una volta il West.
Esasperando i colpi di scena, alzando il livello della
tensione, concatenando personaggi e situazioni, ambienti e musiche in strutture
complesse, si produce un senso di irrealtà, di favola, di sogno, con i Goblin
che, alfieri del rock progressive e cioè della fusione tra elettronica e musica
classica, mescolano impennate hard rock, affondi realizzati con il mellotron
(l’antenato dei moderni campionatori) o con il minimoog (un sintetizzatore
monofonico), intrusioni di celesta, organo da chiesa, rumori cacofonici,
strilli acuti, voce recitante da oratorio, strumenti extraoccidentali come il
tabla, il buzuki greco elettrificato, i timpani, le campane, un vecchio
carillon…. Scrive la critica italofrancese Gabrielle Lucantonio, prematuramente
scomparsa: “Si crea una colonna sonora straniante, satura di elementi acustici
eterogenei, e inquietante. L’effetto è identico a quello della musica atonale.
Si carica l’immagine di una presenza preoccupante e si nutre di una indicibile
sensazione di fuori campo”. Cosa spinge,
per esempio, la studentessa cacciata dall’accademia di danza ad avvicinarsi
alla finestra e alla morte?
John Carpenter ruberà nel 1998 in Vampires il tema di Suspiria,
solo facendo un détournement, un giochino combinatorio con le note…
Dopo Morricone….
Il cinema italiano finirà di essere competitivo, o meglio,
“padrone del mondo” verso la metà degli anni 70 quando lo stato intimorito
dallo scontro sociale fermerà o emarginerà con ogni mezzo necessario il cinema
di ricerca (perfino Fellini avrà grosse difficoltà produttive) e dunque anche
la vitalità del cinema di genere. Ma non tutte le strategia riescono al 100%,
anche se qualche colpaccio viene messo a punto (Pasolini tolto di mezzo e
Bertolucci pure). Infatti ancora molto si muove. Copiando ancora una volta i
film americani e reinventandoli.
Cosa colpirà di più (per esempio il superfan Quentin
Tarantino e, nel campo avverso, il censore implacabile) del “noioso” gioco
postmoderno portato a incandescenza manierista nei 5 super horror italiani anni
ottanta bizzarri, scandalosi e graficamente inquietanti che verranno esportati
in tutto il mondo ma che la Gran Bretagna di epoca Thatcher proibirà preparando
ad hoc una legge contro le videocassette più “schifose e oscene” (la Video
Recording Act del 1984)?
Il rapporto tra partitura elettronica, affidata per lo più
al sintetizzatore, macchina disumana, non umana e post-umana per eccellenza,
dunque sciolta da funzioni pietistiche e sentimentali e flusso visuale, di
realismo e crudeltà umanissima mai eguagliate, di Tenebrae, Inferno, Cannibal Holocaust, Cannibal ferox e L’Aldilà. Seguendo
le indicazioni di Eisenstein sulla asincronicità tra quel che si vede e quel
che si sente, e dunque il rapporto conflittuale, ma tra pari e pari, non
servile della colonna sonora, l’incontro/scontro produrrà quell’ambiguità,
quella ambivalenza che produce effetti destabilizzanti di ansietà, messa in
discussione dei codici, del senso. Eccesso. Ma, nel moderno, ciò che non può
essere spiegato né definito è sterminato.
Non si tratta più di entrare in un universo irreale popolato
da creature irreali come nell’epoca surrealista. I mostri sono molto più vicini
e simili a noi di quanto non pensiamo. Elementi inattesi e misteriosi, momenti
di catastrofe cosmica o di angoscia metafisica - o per dirla musicalmente una
pausa tra due vuoti, un tempo sospeso, come si trova in certa avanguardia
musicale dove la cesura tra due suoni è più importante della cascata di note che precede e che segue
questo vuoto - irrompono in un contesto
plausibile dal punto di vista della realtà
quotidiana. Sia esso un paesaggio metropolitano di Antonioni, la tetra
città spiritista di Argento, la foresta amazzonica che suscita luride fantasie
neocoloniali o solide teorie post-coloniali di Deodato e Fulci.
Tanto più che la solida cultura realista italiana, dal
rinascimento a Zavattini, da Pasolini ai Mondo Movies, ci ha abituati a
descrivere i mostri in modo verosimile e plausibile, “in carne e ossa” e non
come spettri o ectoplasmi deformi.
Deodato è stato l’assistente di Rossellini. E la sua
descrizione della violenza e della tortura in Cannibal Holocaust più che exploitation da macelleria “mondo
movies” è la continuazione di una seria discussione sul Potere aperta da Salò, di Pasolini (1975), altro film
“insostenibile”, perseguitato e censurato.
Deodato, alla fine dei cosiddetti (e mal definiti) anni di piombo (semmai plumbei era il
decennio maccartista precedente), decostruisce i media e critica, col sangue
agli occhi, un certo tipo di giornalismo televisivo che gioca sul
sensazionalismo, sfruttando e diffondendo immagini di violenza, a fini di
profitto, ma adornate da un ipocrita patina di pietismo e commiserazione (lo
vediamo in questi mesi a proposito dell’esodo in massa, nel mediterraneo e
nell’oceano indiano). Che è la stessa ideologia e falsa coscienza esaminata e
decostruita in Cannibal Ferox, a cui
Eli Roth ha appena reso omaggio in Green
Inferno mettendoci in guardia dall’ambientalismo quando è pedina ingenua
della globalizzazione. Dunque meta-cinema che riflette sul senso del cinema. Il
censore si occupa di cosa può essere visto e cosa no. Invece in questi film,
altamente etici, ci si preoccupa di come e di perché una cosa è mostrata.
Come nei più stilizzati e “artificiosi” L’aldilà, Tenebre e Inferno
dove spuntano mostri, ma sono come quelli di Bosch e di Grunewald,
perfettamente plausibili e in un ambiente verosimile. Il magma sonoro che
avvolge queste immagini è soprattutto elettronico, erede delle partiture
fantascientifiche anni 50 nordamericane e di Forbidden Planet (1956) di Fred M. Wilcox, il primo score
interamente ex machina firmato da Louis e Bebe Barron. Molto utilizzato, in
quegli anni, il Teremin, anche per la sua somiglianza con le antenne dei
marziani, che deforma le atmosfere sonore in partiture chiave come quelle di
Wendy Carlos (che poi cambiò sesso e divenne Walter) per Arancia meccanica o di Mike Oldfield per l’Esorcista (1973) anche se il sintetizzatore e l’elettronica, come
ricorda John Cage invece di liberare i suoni e i rumori e di scioglierli dalle
catene della riproduzione tonale vengono troppo spesso usati per imitare i
classici e depotenziarne la ricchezza. Ù
E dunque Dario Argento
Non in Dario Argento che adora la tecnologia come
innovazione e dichiara: “la tecnologia è una grande fonte di ispirazione. La
amo. E se nasce una telecamera di nuovo tipo mi suggerirà certamente una storia
differente e un altro modo di raccontarla”.
In Tenebre i
Goblin affiancano con il disumano e post-umano sintetizzatore tutte le scene di
violenza, brutalità, crimini, smembramenti e omicidi di donne. Una musica che
esce ed entra brutalmente nella carne, e non fa nulla per attenuare il dolore
del corpo trafitto, anzi incalza elegante e battente.
Keith Emerson in Inferno
usa un corpo orchestrale classico per rifare una più complessa
orchestrazione del Nabucco di
Verdi ma è il sintetizzatore che avvolge
il corpo martoriato di John, a occhi tolti dalle orbite, con suoni eterei e una
stratificazione armonica del tutto ignara della scena volta stomaco che abbiamo
di fronte.
E sarà proprio il meccanismo elettronico con il quale
l’architetto - che ha costruito i tre edifici malefici - riesce a parlare che
lo strangolerà.
Fabio Frizzi in L’aldilà
utilizza il sintetizzatore come qualcosa che ha a che fare con l’origine
stesso del genere horror. Il brano arriva dal nulla – rischiando pure il
ridicolo - e sparisce poi improvvisamente, con lo stesso volume alto, non come
succede nei film mainstream, che alzano
e abbassano il suono con l’incalzare dell’azione. Molto scandalosa la scena in
cui, dopo la castrazione di Mike ecco suonare una pia banda dell’Esercito della
Salvezza.
Umberto Lenzi in Cannibal
Felix utilizza il jazz funky nella metropoli e il futuristico
sintetizzatore nell’Amazzonia degli indios per accentuare i processi di
alienazione nella foresta vergine piuttosto che di pietà o commiserazione
(visto che la pellicola è spalmato con scene efferate di violenza, omicidi,
antropofagia varia).
Anche Riz Ortolani (autore della celebre partitura di Mondo Cane) fa un ibrido tra elettronica
e orchestra in Cannibal Holocaust, ma
nelle scene di brutalità è il sintetizzatore a prevalere. C’è la stessa sensazione
di neo-antico che registriamo nelle incursioni di Pasolini in Africa o in
Yemen, alla ricerca, nel passato incontaminato, di una antropologia futura.
L’importante, qui e lì, nel cinema di consumo originale e in
quello d’arte da consumare, è nell’aumentare, con ogni mezzo disponibile, il
tasso di ambiguità. Che poi è il vero peccato mortale punito dalla censura
istituzionale e di un pubblico e di una critica timorosa di intraprendere
viaggi favolosi nell’immaginario.
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