Gabrielle Lucantonio, in Francia. A 13 anni (foto della cugina Antonia Lucantonio) |
Oggi sarebbe stato il compleanno di Gabrielle Lucantonio, studiosa italo-francese, di cinema, organizzatrice di manifestazioni antisistemiche e di rassegne radicali, saggista squisita, ma prematuralmente scomparsa, giovanissima, il 26 febbraio 2013, a 46 anni, per colpa di una meningite batterica.
Nata ad Argenteul, in Francia, Gabrielle Lucantonio è stata corrispondente in Italia di "L'Ecran fantastique". Con Francis Vanoye ha curato il volume su "Profession reporter de Michelangelo Antonioni" (Parigi 1993) e con Antoine de Baecque "la Petite anthologie dei Cahiers du cinéma" in nove volumi (Parigi 2001). Ha scritto "La Politique des auteurs" (Roma, 1999), il libro-interviste "Il cinema horror in Italia" (Roma, 2001) e curato per Rarovideo molti cofanetti-dvd tra i quali quelli su Lars von Trier (Roma, 1998) e Dario Argento (2001). Ha collaborato al libro collettivo "L'eccesso della visione - Il cinema di Dario Argento" (Torino, 2003) ed è stata autrice di "Profondo rock" 2007, studio sulla musica per film di Claudio Simonetti prima e dopo i Goblin. Negli ultimi tempi (fan sfegatata di Freddie Mercury) si era infatti specializzata nello studio del rapporto tra cinema e musica. Ma Gabrielle era soprattutto un'amica e una compagna di lotte. Ha collaborato per anni sia al "manifesto-quotidiano comunista" e al settimanale Alias sia al Sulmonacinema Film Festival, coinvolgendo ospiti importanti come André S. Labarthe, e organizzando laboratori di musica per il cinema con Enrico Simonetti, Fabio Frizzi, Paolo Buonvino e tanti altri... Arrivò a Sulmona anche il fratello Elio, cineasta, portandoci un suo bellissimo lavoro su David Lynch.
Mi piace ricordarla, soprattutto in questi giorni di dolore anche per la scomparsa di Ettore Scola, pubblicando un'intervista a Bernardino Zapponi (1927-2000). Si tratta dell'unico articolo che mi ha mandato in redazione ma che non è mai uscito sul manifesto. Avevo chesto a Marco Giusti di accompagnarlo, per rendere il tutto più interessante, con uno scritto critico su Bernardino Zapponi, ma Marco non ha mai avuto il tempo di scriverlo...Peccato, una delle mie prime recensioni sul manifesto era stata proprio quella di "Anima persa", diretto nel 1976 da Risi su sceneggiatura di Zapponi...
Avevo conosciuto Bernardino Zapponi proprio andando in automobile con lui a l'Aquila dove Gabrielle (che conobbi in quella occasione) mi aveva invitato a una serata speciale dedicata a Dario Argento e al co-sceneggiatore Zapponi, per presentare "Profondo rosso".
Gabrielle Lucantonio, la prima a destra (foto di Antonia Lucantonio)
Zapponi era una persona affabile, colta e squisita, soprattutto modestissima, tanto che passò tutto il tempo a parlare soprattutto della figlia, che viveva in America e stava diventando una cantante di jazz di notevole livello. Invece di raccontarsi. Come umorista del Marc'Aurelio. Scrittore e romanziere visionario, autore di teatro e di televisione, amico di Scola e Terzoli, sceneggiature di oltre 50 film per Soldati, Dino Risi, Sordi, Salce, Monicelli, Steno, Sergio Corbucci, Giovanni Fago, Bolognini, Comencini, Scola, Del Monte, Brass, Oldoini, Cavara, Angeli, De Bosio, Liliana Betti, Juan Luis Bunuel, Pasquale Festa Campanile, Di Francisca... e per sette film, dal 1967, di Federico Fellini, a cominciare dall'episodio Toby Dammit, per "Tre passi nel delirio", fino a "La città delle donne", passando per Black notes di un regista, Satyricon, Roma, Casanova (fu candidato all'Oscar), I clown. La Caserta Film Commission, in suo onore, ha istituito un premio nazionale per i migliori registi di cortometraggi italiani. (r.s.)
INTERVISTA CON BERNARDINO ZAPPONI
di Gabrielle Lucantonio
Cito Bela Balazs: "La sceneggiatura descrive immagini e registra
dialoghi che debbono ancora essere realizzati, in questo è simile al dramma, il
quale a sua volta, ci rimanda alla rappresentazione teatrale. Ciò nonostante,
il dramma è considerato una forma d'arte letteraria di fondamentale
importanza." La sceneggiatura è un genere letterario? Di uguale importanza
rispetto al dramma, o magari è un genere più povero?
Sono due cose completamente diverse. Il
dramma si può stampare, leggere, declamare. E' basato sulla parola, e l'azione
visiva non conta niente. Ogni volta, c'è l'interpretazione di un regista, degli
attori, che scelgono una visuale, ma è secondario, perché Amleto è bello anche a leggerlo cosi. Non ha bisogno di una regia.
L'opera d'arte è già completa, Amleto
è già un’opera d’arte. La sceneggiatura, invece, non è niente, non è un'opera
d'arte, se non c'è il film. Ci sono delle sceneggiature che sono
particolarmente belle, suggestive. Non si possono scindere dal film: il cinema
è immagine, pittura e letteratura insieme che si fondono nel momento della
regia.
Il vero autore di un film è il regista:
la sceneggiatura può essere bellissima, ma se il regista non la rende, il film
è mancato.
Lei proviene dal Marc'Aurelio, dall'avanspettacolo, che difficoltà ha
incontrato nell'affrontare il tipo particolare di scrittura che è la
sceneggiatura?
Scrivevo dei racconti in modo visivo,
che suggerivano molto le immagini. La sceneggiatura mi è più congeniale: nel
momento di scrivere, di creare, di inventare delle storie, si proietta un film
nella propria testa e lo si descrive come lo si vede. Naturalmente, il film che
poi seguirà non è mai quello che si è immaginato. Tuttavia se ci fosse questo
conflitto, lo sceneggiatore sarebbe infelice e frustrato.
Il film è sempre diverso, nel bene e
nel male. A volta la sceneggiatura migliora, quando ci sono dei registi in
gamba, degli autori geniali, ma può anche essere distrutta dal regista, quando
sono mediocri e anche pessimi. Ci sono dei film di cui ho firmato la
sceneggiatura che non ho nemmeno visto, non mi interessavano. Lo sceneggiatore
è un lavoro particolare, ambiguo. Non si sa bene che ruolo abbia: indubbiamente
è molto importante, perché suggerisce. Il film nasce bene quando c'è una
collaborazione stretta tra regista e sceneggiatore. Nei film che ho fatto con
Fellini eravamo molto d’intesa, molto stretti. Non abbiamo mai avuto la minima
incomprensione.
Intellettuali, scrittori (penso a Giovanni Verga, a
William Faulkner, a Raymond Chandler...) hanno avuto difficoltà a capire cosa
fosse la scrittura visiva, e come si scrivevano le sceneggiature. Perché un
romanziere ha difficoltà a scrivere per il cinema?
Raymond Chandler si è trovato in
difficoltà quando ha scritto i film con Hawks. Succede perché non c’è
un’intesa, hanno una personalità molto prepotente, perché sono scrittori. E’
difficile che abbiano l’adattabilità, la duttilità dello sceneggiatore.
Dovrebbero capire il mezzo: il cinema è qualcosa di completamente diverso
dalla scrittura. Ma spesso non ci riescono. Tuttavia, molte novelle di Verga si prestano benissimo per il cinema.
Mastro don Gesualdo sarebbe un film
stupendo, ancora da realizzare. La Terra
trema di Visconti non aveva niente a che fare con quel testo.
Le regole di base della sceneggiatura, la sua retorica, si sono formate
vampirizzando altri generi (il dramma, la narrativa, il racconto), ed altre
teorie (La Poetica di Aristotele, per esempio). La sceneggiatura è più racconto, più arte
della rappresentazione, o più scrittura visiva?
E’ una cosa particolare. La
sceneggiatura deve essere una narrazione con una suspense ed un'attesa, deve
creare subito una presa sul pubblico. Il pubblico deve essere attratto, deve
sapere che sta assistendo ad un fatto che si sta svolgendo, e non deve essere mai abbandonato. Tutto
quanto deve essere funzionale a quello che vogliamo raccontare.
Per raccontare una storia bisogna avere
le idee molto chiare. Può essere anche una storia vaga, però deve essere
chiara. In un film di qualche anno fa, Cléo
de cinq à sept di Agnès Varda, c’è una ragazza che ha fatto delle analisi,
perché teme di aver il cancro. Lei aspetta di aver il responso di queste
analisi, dalle cinque alle sette, e cammina per Parigi. Lei vede tutto nuovo,
dal punto di vista di una persona che forse morirà. Questo è una partenza formidabile.
Si capisce da queste premesse, che lei ha accettato tutto. Si ferma a guardare
una giostra ed è un momento straziante…. Quando alla fine le dicono che ha il
cancro, però si potrà curare, è quasi un finale ottimistico. Ho scelto la
storia più semplice. C’è però in questo film una suspense incredibile, c’è
un’attesa, che c’è sempre stata nella tragedia classica, nella tragedia
elisabettiana.
Si raccontano fatti che devono
scuotere, fare pensare, riflettere, agitare i sentimenti dello spettatore,
metterlo di fronte a se stesso, ad un esame di coscienza. Bisogna raccontare in
modo pregnante, stringato, senza nessuna deviazione. Ci sono scene che sembrano
deviazione, ma non lo sono. Inoltre, si deve tenere sempre presente il punto
d'arrivo, perché alla fine c'è la conclusione, la soluzione del mistero.
E’ una cosa a parte il cinema, non è
che si possono tenere presente molte teorie.
Il creatore è quello che crea la tecnica, ognuno se la inventa a modo suo.
Bernardino Zapponi |
Cito Franco Solinas: “Nel mio caso personale, sono sempre partito dal
tema, da un'idea narrativa. Per esempio, non sono partito dal concetto di
raccontare qualcosa sulla battaglia d'Algeri, ma da un tema che allora sembrava
importante, e che era l'apparizione sulla scena del Terzo Mondo. Partito da
questo tema, mi sono guardato attorno per stabilire quale fosse la situazione
storica che mi permettesse di realizzarlo."
Da che cosa le piace partire: dal tema, dalla situazione, dai
personaggi, o da un'altra cosa?
Shakespeare aveva una compagnia
teatrale, con degli attori. Aveva un'idea concreta del pubblico: bisognava che
la gente andasse a vedere lo spettacolo, pagasse, si divertisse in modo da
tornarci per tenere in piedi la compagnia. Sono tutte esigenze da cui
derivavano certe scelte: perfino i dialoghi erano modificati da questa
necessità. In Amleto durante il
duello finale, la madre, parlando d’Amleto che sta duellando, dice: "Non
lo fate, egli si affanna, perché è grasso..." Questa battuta l'ha inserita perché l'attore che interpretava Amleto era grasso. Shakespeare era uno dei nostri, non faceva
teoria, faceva spettacolo. Nel cinema, dobbiamo tenere conto di mille cose:
la produzione, gli attori che sono a disposizione, il regista che c'è, quale
sono le sue esigenze, qual è il genere che non funziona... Dentro tutto questo,
uno può inserire una propria ispirazione, una propria idea. Cosi nascono i film migliori. Non esiste un autore che scrive una
sceneggiatura tutta quanto da solo, e poi la fa realizzare. Mi è capitato di
fare un film su una mia idea, Piso
pisello di Peter Del Monte. La storia era piaciuta al produttore
Clementelli che mi aveva fatto scrivere il trattamento, poi lo ha portato a dei
registi, tra i quali Peter Del Monte, al quale l'idea è piaciuta, e abbiamo
lavorato insieme alla sceneggiatura.
Nei film americani odierni il ritmo diventa "frenetico", e i
momenti di pausa sempre più rari. Cosa pensa di questo tipo d’evoluzione?
Dipende dal tipo di film. Un western è tutto
azione, ma l'azione può anche essere nascosta, sottotono. Per esempio, i film
di Rohmer, sono azione anche quelli, benché parlino soltanto. Apparentemente
non succede niente. Ci sono dei momenti che sembrano vuoti, ma servono anche
questi. Per esempio, è stato rimproverato a Hitchcock, negli Uccelli, una scena in un bar, dove c'è
un ornitologo. Perché non l'ha tagliata? Perché c'era bisogno di un momento di pausa, in cui si riflettesse su
quello che stava succedendo. Ho scritto con Dario Argento, Profondo rosso, dove abbiamo messo anche delle scene comiche,
perché bisognava fare scaricare la tensione del pubblico in una risata. Piace al pubblico l'evasione,
farsi una bella risata: per evitare che rida a sproposito, nei momenti di
thrilling, ci dicevamo, facciamolo ridere adesso, così poi aumenterà l’attenzione.
Per lei, il paesaggio, lo spazio, gli ambienti, gli oggetti
costituiscono un elemento fondamentale del racconto, o sono soltanto accessori?
In certi casi, il paesaggio può essere
essenziale. Durante la notte, è successo di tutto. Di mattina, c'è il sole, il
protagonista si affaccia alla finestra e vede davanti a se, il mare calmo, e
così riacquista il senso della realtà. Se ci fa comodo il paesaggio, può essere
uno stato d'animo.
I film americani sono molto basati sul
paesaggio, anche i film neorealistici erano fatti tutto di paesaggio, di
macerie, di case diroccate, di strade polverose…
Il paesaggio deve essere sempre
funzionale al racconto che stiamo facendo: in Tutti a casa di Luigi Comencini, per esempio, il paesaggio era
tutto polveroso, c’erano dei camion… Si raccontava le storie di reduci, di
gente in fuga, di disertori, in
un’Italia dissestata. Bisogna, quindi mostrare l'Italia dissestata: i treni che
non partono, le corriere che sono sfacciate. Gli ambienti creano un'atmosfera.
Per esempio, in M di Fritz Lang,
conta molto il clima claustrofobico dei commissariati, pieni di sigari, di
gente che fumava… L’espressionismo mostrava quel tipo di mondo: fumoso,
poliziesco, sgradevole. Ma il cinema è sempre espressionista, non c’è mai
Raffaello, c’è Caravaggio.
Le sceneggiature della Modernità, cioè quelle
d’Antonioni, di Wenders, etc, mettono in risalto elementi trascurati finora.
Nelle sceneggiature classiche, abbiamo degli eventi-nuclei (i tempi forti) e
tra loro degli eventi satelliti (i tempi deboli), che servono a fare riposare
lo spettatore. Nelle sceneggiature della Modernità accade quasi il contrario:
gli eventi-nuclei, o sono omessi del tutto (la sparizione di Anna nell'Avventura) o
accadono fuori campo (l'hold-up nell'Argent di Bresson), o addirittura non ci sono per niente (L'Anno scorso a
Marienbad di Resnais). Cosa pensa di
questo modo di scrivere le sceneggiature? Lo sente più congeniale a se, o
preferisce la sceneggiatura classica?
Questa distinzione
non mi sembra giusta. Nei film classico non è vero che tutto è espresso, che tutto è detto. Il cinema deve fare intuire, deve lasciare il
mistero, deve girare intorno alle cose. I film espliciti sono quelli volgari,
che mancano di mezzi toni. Le scene efficaci sono a volte proprio quelle dove
tutto è da indovinare. In Da morire,
quel film molto bello con Nicole Kidman, si raccontano delle efferatezze con
una grandissima discrezione. Si lasciano intuire, la macchina sfiora. C’è una
scena dove un personaggio dice: “Vieni qui ti devo fare vedere una cosa.”
Escono di campo. Vediamo soltanto un lago. Il personaggio dice poi, al
telefono: “Tutto fatto. L’ho buttata nell’acqua.” Questo è un esempio di
Modernità, altro che Antonioni.
Bernardino Zapponi |
I film di Antonioni non le piacciono?
Antonioni non mi ha
mai entusiasmato. L’Avventura però mi
è piaciuta. Blow up era una bella
idea. Preferisco Bresson: è il più casto di tutti, utilizza solo le immagine
essenziali, addirittura tutto si svolge in fuori campo.In Lancillotto e Ginevra,
ci sono dei tornei dove si vede soltanto la punta della lancia, una nuvoletta
di polvere, lo zoccolo di un cavallo. L’essenziale è il risultato: tutto ciò
non significa nulla, se il film è brutto questi discorsi non servono.
Ha notato un’evoluzione, da quando ha cominciato a
scrivere sceneggiature?
Prima il cinema
italiano era molto forte, molto di moda, piaceva, e quindi si stava in una zona
favorevole. Adesso è cambiato. Si è perso il gusto della sceneggiatura, delle
cose costruite, elaborate, fatta bene, che iniziano, si sviluppano e si concludono in
un certo modo. Di solito i nostri film partono bene e poi si smarriscono. Il film di Giuseppe
Tornatore L’uomo delle stelle aveva
una bellissima idea, però buttata via. Lui ha fatto un finale forzato e non si
capisce perché la ragazza debba diventare matta. Si è smarrito il senso
dell’officina, della disciplina.
Scheda bio-filmografica: Bernardino
Zapponi è nato e morto a Roma (1927-2000). Dopo essere stato cronista, ha
lavorato in giornali umoristici come L'Orlando
e Marc'Aurelio, quindi alla radio e
alla televisione. Ha fondato, e diretto la rivista Il delatore della quale sono usciti solo nove numeri.
E' il più eclettico degli sceneggiatori
italiani: può passare dal thriller (Profondo
rosso, Dario Argento (1975) alla Commedia all'italiana (Polvere di stelle, Alberto Sordi (1973),
Il Marchese del Grillo, Mario
Monicelli (1981)), dall'erotismo (Paprika
(1992)) al film d'autore. E', infatti, nelle sue collaborazioni con Federico
Fellini (Tre passi nel delirio
(1968), Satyricon (1969), I clowns (1970), Roma (1972), Casanova (1976),
La città delle donne (1980)) e Dino
Risi (La moglie del prete (1970), Mordi e fuggi (1973), Telefoni bianchi (1976), Caro papà (1979), Anima persa (1976), Fantasma d'amore (1982), Giovani e belli (1996)) che ha
realizzato le sceneggiature più interessanti.
Nessun commento:
Posta un commento