lunedì 31 marzo 2014

La luna su Torino. Il nuovo film di Davide Ferrario nelle sale.

La luna su Torino, anzi dietro Superga

ROBERTO SILVESTRI

Visto che il pensiero dominante obbliga al climbing sociale, all'arrampicata selvaggia, l'equilibrio è tutto. Domina la paura di cadere, di scivolare sempre più in basso, la necessità di aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno, per non precipitare e per meglio far precipitare prima gli altri. Amici, amanti, partiti, volontariato, coinquilini, genitori, avvocati, sport, lavoro anche se precario, parroco, società segrete, superenalotto, squadra del cuore sono i sostegni prediletti del vivere precario... 
Davide Ferrario
Ma quando tutto sembra diventare nero assoluto ci si può sempre buttare dal ponte, con l'elastico di protezione, o senza. Capita. Soprattutto in questo brutto anno bisestile. E fino a quando si smetterà di credere che in questo climbing in solitaria consista il darwinismo evolutivo. Oppure basterà fuggire non a nord non a sud, ma a est o a ovest seguendo però sempre la linea immaginaria di un identico parallelo, magari in bicicletta... Davide Ferrario, il John Sayles del cinema italiano, in La luna su Torino,  gioca a semplificare queste questioni complesse, in cerca di leggerezza. Fare del buon cinema di evasione intelligente è una buona scommessa (senza intelligenza infatti niente evasione riuscita).

I tre personaggi principali di questo film (ma ognuno ha un suo 'doppio' o almeno una sponda) d'ambiente sabaudo (ci sono pure le mondine di Novi in coro, a ricordarci che qui siamo neilla regione di Riso amaro) e che si pone una serie di domande dandosi una serie di risposte, filosofiche, esistenziali (per esempio: quale è il nostro posto nel mondo?) oppure insignificani, con l'equilibrio hanno, per fortuna, parecchi problemi. Li aveva anche la Mole Antonelliana, ex sinagoga e attuale sede del museo del cinema, come si vede in una scena di questo film, che infatti ha perduto per svariati anni la sua bella punta, colpita da un fulmine.

Manula Parodi, nel film Maria
La scena iniziale sui titoli già ironizza, giocosamente, proprio sull'ansia dell'arrampicata per piacere che ha come oggetto il tetto, alla Gehry, di una di queste costruzioni postmoderne che a Torino vanno molto di moda dopo che i Fiat-men hanno smesso di costruire automobili decenti e si sono occupati di tutto ciò che è il dopo-industria, dai Giochi Olimpici invernali all'alta velocità (tanto si avvelenano i lavoratori nella mazza dentro il tunnel d'amianto) al cinema e a Virzì... collezionando per ora una serie di vittorie immateriali, di semisuccessi e molti disastri (perfino al Juve in C, che è diventata B con un colpo di prestidigitazione). Da Torino, insomma, chi è sano di mente in genere scappa via a gambe levate. Chi resta è squilibrato, frequenta di preferenza anziani e classici del muto, se li cerca proprio i guai... Ma i lunatici hanno qualche speranza in più di sopravvivere. Come la "signora sulla panchina" che guarda sempre, immancabilmeJune Bellamy, nte lo stesso misterioso punto del panorama (June Bellamy), e che utilizza il detour per godersi pezzi di città che passerebbero inosservati. Spiderman non abita più questa ex metropoli.

Walter Leonardi (Ugo)
Il quarantenne sfaccendato, ma non ai fornelli, Ugo (Walter Leonardi), fanatico dell'erotismo nipponico virtuale, si aggrappa, visto che ha poco charme, alla sua bella casa e alla sua eredità, come rampollo di agiati signori della sinistra borghese.  Sempre pronto però a saltare su una bici e salire su su o su una mongolfiera  che, più leggera dell'aria, sia capace di trascinarlo molto in alto, nella vertigine dell'ascesa. Le nippo-anime sexy piacciono molto però alle ragazzette. C'è speranza.

Eugenio Francschini (Dario)
Visto che però siamo tutti in crisi e che i soldi finiscono presto perché Tasse ed Equitalia sono gli angeli custodi di questo diabolico mondo secolarizzato, anche se ci si affaccia sul bel Po, e l'ipoteca che pende sulla casa sta per scadere, Ugo ha subaffittato due stanze della villa. Una a Maria (Manula Parodi), 26 anni, bella impiegata in una agenzia di viaggi (miracolosamente sopravvisuta all'invasione di Expedia), drasticamente impermeabile alla sua corte, e l'altra a Dario (Eugenio Francheschini), studente ventenne che lavora al bioparco Zoom. Ai momenti comunitari, pochissimi, dove si fa a pugni, anche in senso non metaforico, si sovrappongono quelli super isolati, quasi tutti. 

Dario e Walter incrociano i guanti
Tra Mito giapponese, viaggi all'estero organizzati e agognati e regno dell'esotismo per eccellenza, lo zoo dei leoni, delle tartarughe giganti  e degli ippopotami, si capisce che l'indicazione tra le righe di questa leggiadra commedia è un invito all'evasione, all'esodo, al divertimento, alla cattiveria e alla deriva. Il nostro posto nel mondo non sappiamo dov'è ma sappiamo che certamente non è questo. Però ci vuole una certa tecnica da apprendere prima di darsi alla fuga. La capacità di stare in equilibrio sul filo. Da soli.

Daria Pascal Attolini (Eugenia)
A Maria in realtà piace (forse) un suo cliente, Guido (Aldo Ottobrino) e lo invita a casa a cena per sondarne l'animo prima che la sua collega di lavoro, Eugenia (Daria Pascal Attolini) che ha fantasie simili, prenda l'iniziativa. Le cose si complicano, Guido è una palla, Eugenia prende l'iniziativa, Maria conosce davvero una equilibrista girovaga e il trio diventa elettrico, quando Dario, dopo un flirt sul lavoro, e Maria vengono scoperti teneramente insieme dal gelosissimo Ugo... 

   

Lontano da dove di F.Marciano
Il regista insomma fa qualcosa che nessuno osa più fare. Segna con il gessetto una direzione, a prima vista anacronistica, e originale, da prendere. Guardare indietro per andare avanti. Doppo road movie. Un  ritorno allo spirito delle commedie romane sulle comuni controculturali anni 70 di Rafele-Amico-Ungari (che come narrazione emotiva erano proprio al limite del fuori di testa), ma senza additivi lisergici o a quelle Stefania Casini-Francesca Marciano con Victor Cavallo fuggito a Manhattan, anni 80, senza quell'aria tragica di sconfitta e di riflusso inesorabile. C'è perfino un pignolissimo e odiatissimo avvocato Ungari (Franco Olivero) per chi non l'avesse capito. E che dire del finale alla Antonioni di Blow up, lì con i clown a dominare, qui con l'acrobata girovaga?

Anche se le tre avventure sentimentali intrecciate in La luna su Torino, che perdono via via tutto ciò che hanno in comune tra di loro, e si avviano su triplici sentieri incomunicabili (è la maturità, bellezza), si svolgono invece proprio oggi, in una bella villa olpre Po sulle colline, precisamente sul 45° parallelo, a metà strada tra il gelido Polo nord e il torrido Equatore, tra leggerezza e pensosità, che solo Italo Calvino nelle Lezioni americane seppe riunificare (lezione prima). Ma che, per esempio, Renzi e Cuperlo sono ancora incapaci strutturalmente di annodare e così divideranno la sinistra.


Una collocazione geografica che per Davide Ferrario, il regista produttore e sceneggiatore che è anche scrittore giornalista romanziere,  ex critico colto e militante, spesso documentarista politico, al nono lungometraggio di finzione, è diventata una ironica passione, quasi una ossessione autobiografica, visto che si intitolava proprio così una delle sue prime sceneggiature del 1986, per Attilio Concari, e che la nativa Casalmaggiore nel parmigiano divide con la città della mole antonelliana non solo lo stesso parallelo ma anche lo stesso grande fiume.  Chi abita sul 45° parallelo ha molte più cose in comune con il deserto del Gobi che con varesotti e avellinesi.

La commedia giovanilistica, ironica, romantica, lucida e impotente a cambiare le cose (Leopardi, oltre a Calvino, è un punto di riferimento esplicito del film)  al festival di Roma fuori concorso, verrà distribuita da Academy 2, e all'estero da Lion Picture, ed è interpretato da un pugno di giovani attori di provenienza teatrale e non televisiva (reference system!? fuck you!) bravi nel combattimento corpo a corpo e mai prevedibili e naturalmente, avendo l'appoggio della Film Commission Piemonte, si dilunga per gran parte, negli esterni, tra i pezzi pregiati di una metropoli postindustrializzata ma ancora magica e metafisica. 

Rendendo più facile per questo film vincere ai punti rispetto alla "commedia giovanilista e sentimentale romana", alla Moccia (citato) almeno fino al penultimo round (l'ultimo è al botteghino), assai più pesante nel gioco di gambe e prevedibile nei colpi al bersaglio grosso. E poi molto meno arguta nei dialoghi e nelle allusioni. Anche per il buon lavoro della sezione ritmica: Dante Cecchin alle luci (le meno torinesi possibili, anche se è una luce brillante, da città del cinema, da Los Angeles), Claudio Cormio al montaggio, pieno di controbalzi, Paola Ronco ai costumi che un tempo avrebbero scandalizzato le signore borghesi di via Roma e Francesca Bocca e Valentina Ferroni alle scenografie, come sopra.

lunedì 24 marzo 2014

Non lo so ancora. Una giornata e una nottatta particolare. Il film d'esordio di Fabiana Sargentini, aspettando l'acid test

Donatella Finocchiaro in "Non lo so ancora"


Roberto Silvestri

Anche in Miele: giovane donna (Jasmine Trinca) incontra vecchio affascinante (Carlo Cecchi). La giovane generazione delle registe sta facendo finalmenti i conti con i padri? Siamo al salutare patricidio simbolico? E il progetto di Anna Negri di un film tratto da Con un piede impigliato nella storia che fine ha fatto?
A proposito. Chissà perché qualche cineasta si cruccia di essere collegata a insigni genitori e definito, tra l'altro, "il figlio di tale", "la nipote di talaltro"... come se l'informazione non servisse a comprendere meglio le radici artistiche-culturali di Brandon Lee, Jane Fonda, Robert Downey jr., Angelina Jolie o Michael Douglas. 

Fabiana Sargentini, a sinistra, e Donatella Finocchiaro
Certo, se Anna Negri si lamenta tuttora di essere associata alle opere del suo magnifico papà, e a Toni Negri, l'unico uomo politico in 40 annni che non ci si dovrebbe pentire, come paese, di aver mandato a Palazzo Madama, rimpiangendo tutti, tranne Marco Tullio Giordana, di non esserci riusciti con Pietro Valpreda - e che anche di cinema ne sa più di quanto non si pensi (partecipò perfino a un profetico seminario del Csc epoca Rossellini per trasformare in film vita e opere di Lord Keynes) - è perché l'Italia sta morendo di clientelismo e nepotismo (politico, perché invece i figli di Tognazzi e Gassman, De Sica e Rossellini, Emmer e Crispino, il figlio di Risi e le figlie di Comencini non sono niente male...), maneggia e perpetua un sistema di "luoghi comuni" da rottamare al più presto (altro che i politici...) e ha edificato il suo 'buon senso' su fondamenta peggio che fasciste o clericali, perché ancora più banali come il servilismo, il moralismo, il conformismo... malattie interiori tossiche e degenerative. Basta ricordare il trattamento riservato a Braibanti, Pasolini e a Ultimo tango a Parigi. Alla fifa del Pci quando si trattò di andare al referendum su aborto e divorzio. E ai salamelecchi riservati oggi al pregiudicato Berlusconi perfino dal presidente della Repubblica. E infine perché "io sono mia'. E Toni, per non venir sbranato vivo da Maria Rosa Dalla Costa e dal collettivo del salario al lavoro domestico dell'università di Padova, avrebbe certo annuito...

Fabiana Sargentini sul set di Non lo so ancora
Perfino di un eletto dal popolo, come il professor Toni Negri (mica come Renzi), infatti, il senso comune diffida d'istinto, con la velocità e la soddisfazione da branco di un cane di Pavlov. Come se i reati di Negri fossero frode fiscale, appropriazione indebita, corruzione, sfruttamento della prostituzione (che si vuole legalizzare) anche minorile e mercimonio parlamentare e non quelli commessi per aiutare tutti, anche i magistrati, a colpirli e reprimerli meglio prefigurando un paese migliore, controllato dal basso e non da mafie e servizi deviati (magari dal Fmi e dalla Banca Centrale e dalla Merkel!)... Che stranezza. 

Donatella Finocchiaro
Toni Negri, filosofo della prassi, proprio sui 'luoghi comuni' e sul cattivo 'buon senso' si è messo a lavorare di buona lena, in esilio e dopo, smascherando i limiti della nostra democrazia fin dall'epoca di Potere Operaio processato per reati di opinione, scandalizzando bigotti e ipocriti, psicotici e nevrotici che non hanno ancora fatto il coming out, di qualunque risma, area e cultura politica... Perfino quella radicale, visto che, dopo averlo candidato, il Partito Radicale fece in modo, sadicamente, di costringerlo alla fuga, rifiutandosi di contrastare in aula la richiesta di revoca dell'immunità parlamentare. Bastavano i loro voti. Vendetta inconscia di liberali drastici mascherati da libertari ma terrorizzati da chi aveva contribuito a mandare in malora - tramite quell'incontrastabile corteo operaio durato circa dieci anni - la fabbrica fordista, Fiat e non solo, e il suo sfruttamento bestiale e scientificamente perfido?    

Morando Morandini, co-sceneggiatore
Ma, sicuramente, non è una cineasta di questo tipo Fabiana Sargentina, il cui film Non lo so ancora potreste avere la fortuna di incrociare in qualche sala scelta e il cui padre, come attore, regista, scrittore e gallerista, animatore di mostre d'arte d'avanguardia dagli anni 60 e 70 non è da meno quanto alla militanza sul versante "ecologia della mentalità", e "bonifica delle zone cerebrali più intossicate". Anche se Fabiana ha avuto certamente molti meno traumi, mediatici e esistenziali, di Anna, questo film in fondo è proprio una bella lettera d'amore al padre.

Si vanta infatti, anche nel nome, di essere la figlia di Fabio Sargentini, che aveva fatto dell'Attico di piazza di Spagna e poi di via Beccaria un covo davvero sovversivo, la doppia galleria romana di punta, aperta all'arte vivente e alla ricezione non cloroformizzata, insomma un mondo a parte e un dinamico happening continuo. Senza convergenze parallele non solo con quello di Rumor, Leone, Restivo, Segni, Saragat e Andreotti, ma anche con quello commerciale e apologetico dell'arte dominante. 

il critico Morando Morandini
E dove voragini fertili nell'immaginario erano costantemente  aperte da Pino Pascali, Jannis Kounellis, Luigi Ontani, Piero Pizzi Cannella, Nunzio, Sergio Ragalzi... Piero Manzoni, Fabro, De Dominicis, Sergio Lombardo... artisti incaricati di maneggiare e decostruire le punte alte del patrimonio artistico anche classico ereditato, di sbarazzarsi di ogni immagine 'espressiva' in sé, cioé usurata, isolando e indicandone i detriti più laterali, 'negativi' e dimenticati (come Carmelo Bene alle prese con le parole di Shakespeare; Jonas Mekas con i paesaggi cartolinizzati; Morton Feldman, Charlemagne Palestine, Terry Riley, La Monte Young, con i suoni biopoliticamente utilizzati per addestarre alle merci, Trisha Brown con i muscoli umiliati e sconquassati del corpo, Marisa Mertz con gli occhi che guardano e non vedono...) da liberare, rianimare e socializzare, affidandolo all'occhio e al corpo esterno coinvonti il compito di renderli 'espressivi', significanti, dotati di senso in più collettivo.  

Il poster del film
Era l'arte concettuale, pericolosa come un gatto selvaggio alla catena di montaggio, perchè rompeva tutta la filiera opera/mercato/critico/compratore esclusivo... contagiando nel gioco artistico chi doveva esserne escluso per statuto e per natura. Una Galleria che non ghettizzava le arti, non beatificava gli artisti da culto, ma tendeva all'interferenza nella ricerca avanzata di pittori, scultori, musicisti, cineasti, attori, danzatori, poeti, passanti in grado di creare situazioni in progress. Rompendo ogni barriera tra Arte e Vita.
 
Già i documentari di Fabiana ossessionati dalla maternità, Sono incinta (2003) e Di madre in figlia (2004) - che avevano vinto due festival di Bellaria, diretti da Morandini - cinema diretto montato in prima persona femminile singolare collettiva, dimostrano una certa dimestichezza con le zone più provocatorie dell'arte concettuale, parlare e far parlare gli intervistati di ciò che si sa e si pensa, senza falsi e veri pudori, non per crogiolarsi nel proprio foro interiore e discettare dall'alto in basso, ma scoprendo zone dark impreviste e toccando - se il gioco riesce - coinvolgimenti automatici e orizzontali nel pubblico, che gratifichino i neuroni-specchio, i nostri apparati di comunicazione umana che collegano e mettono in contatto identità familiari e sociali, sistemi simbolici e sessualità, maschili, femminili o diversamente favolose. 

Giulio Brogi e Donatella Finocchiaro
Era quel che aveva appreso dai 'giocattoli' dell'Attico, dagli appuntiti ma generosi strumenti conoscitivi e ludici della sua infanzia e adolescenza, tutti aperti all'avventura dell'ignoto. Arte concettuale, pericolosamente liberatoria e non solipsistica, che fu maltrattata non meno dei gruppi extraparlamentari di quegli anni. Si divertivano troppo, quei contestatori generali. Per cui: censure, arresti, sberleffi, provocazioni, congiure (la droga era lo strumento perfetto per incastrare chiunque, come Kafka aveva spiegato bene nel Processo), condanne, manganelli, campagne denigratorie, esili. Per fortuna sua Pascali morì giovanissimo. Altri sarebbero caduti in alcune trappole ben dislocate nella giungla metropolitana. La droga. Il terrorismo che ipnotizzò le anime più sensibili, incapaci di controllare le proprie zone dark e di conoscere quelle degli altri.
Giulio Brogi e Donatella Finocchiaro

Ambientato interamente a Levanto, sulla costa ligure, il primo lungometraggio a soggetto di Fabriana Sargentini, Non lo so ancora, è stato scritto dalla regista mescolando suggestioni semiautobiografiche varie (e l'ansia della maternitò, ovviamente) con l'aiuto 'strutturante' del giornalista, romanziere e documentarista d'inchiesta Carlo Pizzati, e del critico cinematografico Morando Morandini, conosciuto già a Bellaria, direttore di un piccolo grande festival del cinema che si svolge lì, il "Laura Film Festival", in omaggio alla moglie con la quale aveva redatto le prime edizioni del dizionario il Morandini, e vero ideatore del progetto. 

Giulio Brogi e Morando Morandini a Levanto
Già, è il debutto nella sceneggiatore di questo decano della critica moderna, dopo aver fatto l'attore indimenticabile in Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci e in Remake di Ansano Giannarelli, aver scritto l'autobiografia Non sono che un critico (1995) e aver duettato con Daniele Segre e i suoi ricordi nel documentario Je m'appelle Morando - Alfabeto Morandini (2010) e con Amedeo Fago nell'omaggio alla moglie, A Laura (2004).  In Era la città del cinema (2011) di Claudio Casazza, Morandini e gli storici e i critici milanesi più giovani rievocano l'importanza delle 'sale perdute' della metropoli, e non solo il mitico Obraz di Enrico Livraghi.  

Giulio Brogi e Donatella Finocchiaro
Non lo so ancora è la storia, un po' irreale, di una giornata di attesa. Di un incontro. Di un tempo sospeso. Ed è anche l'incontro di due storie, generazionalmente asimmetriche (e anche professionalmente, se si pensa alle differenti tecniche degli attori protagonisti, che nascondono o esibiscono la meccanica morbida della loro performance). Sarà amicizia a prima vista, chissà forse anche una certa forma d'amore. Fuori stagione, una donna, Giulia (Donatella Finocchiaro) terrorizzata da ciò che le sta riservando il futuro e inquieta per una relazione appesa a un filo, incrocia un signore di qualche decina di anni più maturo di lei, Ettore (Giulio Brogi, che sarebbe Morandini), all'apparenza chiuso, tosse insistente a parte, se non burbero, perché ossessionato da traumi e dolori del passato e da un presente che non annuncia nulla di buono, ma colto, spiazzante, sardonico e 'ricco' dentro. 

I due, diversamente distratti e attratti, passano (merito di uno sciopero dei treni) un’intera giornata insieme, gironzolando e chiacchierando a bordo del mare, nei caffé, sulla giostra, in una stanza d'albergo, perfino, non senza contrasti e monomanie divergenti, giri a vuoto, separazioni, re-incontri, inseguimenti e delicati avvicinamenti, nell’attesa nervosa di alcuni risultati medici che entrambi aspettano per l’indomani, soprattutto la protagonista, cui verrà comunicato dalla ginecologa se potrà o meno diventare madre o se è affetta da menopausa precoce. E che deve decidere se lascerà o non lascerà il suo uomo (in fuori campo, a portata di cellulare). E se non abbia esagerato a magnetizzare l'interesse, non solo platonico, di quell'uomo....Anche se non vi anticipiamo cosa succederà nella stanza d'hotel. E il risultato delle analisi. E se l'incontro/scontro tra generazioni così lontane sarà intenso, delicato, vitale, fifty-fifty, o opportunisticamente sbilanciato.

Il cinema che esplicitamente punta sulla 'geografia emozionale' sul 'qui non succede niente eppure sentiamo che qualcosa sta succedendo', dall'epoca di Uomini di domenica (1930) non si preoccupa certo della 'storia emozionale' a ritmo di sonata melodica: tema/antitema/contrasto/risoluzione, specialità del cinema di genere e di Hollywood in particolare. Il problema è che Non lo so ancora  non è dramma, non è commedia, non è love story, non è 'dramedy', ed tutto un questo mischiato, non shakerato, con un happy end (che vuol dire finale riuscito, non necessariamente bello e felice) ovviamente garantito dalla trama: che diranno le analisi? Ma, ricordiamocelo. Parliamo solo di quel conosciamo, non vogliamo descrivere il mondo, vogliamo che il mondo si esprima, facciamoci risucchiare dal paesaggio, le ombre, il mare, il verde, facciamo che diventi la colonna sonora, in forma di ballata, di questo esordio interessante ... 

Morando Morantini e Fabiana Sargentini
E anche se i più grandi maestri del genere, quelli delle nouvelle vague mondiali, prima di tutto, e Agnes Varda in particolare, visto che si parla di una attesa di analisi mediche (Cleo dalle 5 alle 7), hanno costruito nel corso del tempo 'dei modelli' di cinema girovago, deambulante e nullafacente. Modelli che prevedono di sfuggire a tutti i modelli, se no c'è la disfatta, l'artefatto e l'artificioso. Mentre ai personaggi è lasciata completa libertà nervosa,  la narrazione è minimale, lenta, tranquilla senza l'ansia della battuta di spirito dopo un terzo, a metà e sul finale... 

Louis Malle diceva che la nouvelle vague non esiste. E anche Morandini nel suo bellissimo libretto sul Nuovo cinema francese del 1964: "Le onde non esistono, non c'è che il mare. Sono le navi che cambiano". Ce ne sono nuove,  giovani insolenti e timide. Che usano non più la camera-stylo di Astruc, ma, oggi, la camera-iphone. Il linguaggio di internet. Qualche acquarello di Luca Padroni, sintesi grafica che prende progressivamente colore, sospende e ritma il tempo... Quelle che affermano come la Varda (e Sargentini traduce) "se si aprissero le persone, vi si troverebbero anche dei paesaggi" e allora perchè non mettere in immagini un dialogo attraverso il paesaggio, invece di raccontare una vicenda? E' addirittura Agnes Varda di La Pointe Courte, del 1954, un provocatorio 'film da leggere'. Costo 7 milioni di lire...

Secondo me di Morandini invece c'è l'idea-chiave contenuta in Hiroshima mon amour di Resnais: "come inserire una storia d'amore in un contesto che tenga conto dell'infelicità degli altri" che qui diventa "come inserire una storia d'amore che tenga conto dell'infelicità dell'altro". Di Morandini, nave esperta, anche certi accorgimenti alla Bresson: siamo indifferenti alla costruzione drammatica tradizionale, usiamo l'ellisse, spingiamo per l'improvvisazione, anche se qualche attore potrebbe non reggere la tensione.       

Il film, girato con pochi soldi in 4 settimane,  presentato alla Mostra di Pesaro 2013, è ancora in attesa di distribuzione, ma sta girando nel solito piccolo circuito virtuoso di sale non omologate. Del resto corsara è stata anche la produzione, che si è avvalsa della Genova Film Commission ma non del finanziamento pubblico nazionale, e anche di una nota e cinefila catena di ristoranti romani, Settembrini. Cinema & cibo, d'altra parte, è un binomio di ferro, e non solo per i pop corn, segnatempo immancabile di ogni blockbuster degno di questo nome, per gli svariati festival sparsi per il mondo che non si vergognano più di dare una connotazione superpositiva all'aggettivo, un tempo stroncante per un film di 'gastronomico' (vedi la Berlinale) e poi per Hitchcock e la sua nota battuta: "i film non sono messaggi da spedire, ma fette di torta da mangiare".  











Irv, fuori legge e me ne vanto. Due o tre cose su 'American Hustle', qualche mese dopo

Jennifer Lawrence, Jeremy Renner, Amy Adams, Bradley Cooper e Christian Bale in "American Hustle"


Roberto Silvestri 

Salutiamo con interessa il ritorno ossessivo agli anni 70 e al suo cinema sex drugs and rock'n'roll. Dopo Booglie Nights, di Paul Thomas Anderson, Blow di Ted Demme e Almost famous di Cameron Crowe e Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam... ecco American Hustle. Ma qui siamo verso il punto di rottura, all'orlo del declino di quei formidabili frangenti. Se il più gentile e charming dei rapinatori di banche anni settanta, Charlie Varrick, l'ultimo degli indipendenti, ritratto da Walter Matthau in un celebre capolavoro di Don Siegel del 1973, era il Dottor Jeckyll, questo truffatore febbrile e isolato che si chiama Irving "Irv" Rosenfeld (Christian Bale) è infatti il suo (ritardatario) Mister Hyde. Narcisismo, opportunismo e cinismo. Questi lo sfondo sentimentale del suo nuovo modus operandi, della performance, dell'assolo. La band non c'è più.

Truffatore nel senso tragico, passivo, non comicamente, egemonicamente attivo, del termine. Pura sopravvivenza nel sistema, non più antitesi al sistema. "L'arte della sopravvivenza è una storia che non finisce mai", nel senso che Irv - sue quelle parole -  proprio come la sua compare Sydney, è costretto solo alla legittima difesa più strenua, sotto padrone Fbi addirittura, in una società capitalisticamente corretta, dove il più forte truffatore mangia perennemente il più debole, deformazione borghese delle nobili intuizioni evoluzioniste e mistificazione ideologica di una distopia, il libero mercato. Nascondere la calvizie, aprire tutte le fessure necessarie nei vestiti, uno spreco industriale di bigodini, per contrastare le onde del destino nei capelli. Ogni marchingegno seduttivo di superfice va utilizzata per deviare lo sguardo dalla vera posta in palio.

Insomma non di simpatici giochi d'astuzia individualistici si parla in questo film, come nella Stangata o in Paper moon, o in Bonnie and Clyde, ma del senso stesso, piuttosto immondo, della società capitalistica finanziaria 'pura', senza stato sociale rooseveltiano a correggerne le iniquità macroscopiche, senza rete di protezione pubblica, che dai ruggenti anni venti riemerge, d'un tratto sul suolo americano, per spazzare via tutto ciò che intralcia il big business, i grandi interessi. Già si sente nell'aria gialla e maleodorante di questo film la puzza del neoliberismo, di Reagan, del doppio Bush, dei subprimes...E dell'oggi si tratta, come in ogni film in costume.   Come se Obama, negli Usa di oggi, contasse come Kathami nell'Iran degli ayatollah. Quasi niente.

Christian Bale come Irv Rosenfeld
Togli dunque la coscienza politica di Varrick, perché nel 2014 è ormai un patetico reperto preistorico, e cosa rimane? Malinconia. Un mostriciattolo, più o meno simpatico, che cerca di sopravvivere tra i ripugnanti Veri Mostri Affamati. L'ennesimo mito diffuso nell'ottocento nelle dime-novel di Horatio Alger, riproposto. Sei povero? Sei caduto nel fango? Solo se sei abbastanza cattivo e ce la metti tutta ce la farai. Gli immondi, come Horatio Alger, risorgono....

Amy and Duke
Il compositore Danny Elfman rivestirà dunque le sue gesta di resistenza di armonie sufficientemente sardoniche (sarcastiche e tristi, a volute introverse e estroverse, come i capelli posticci di Irv). Sono proprio le musiche del film - altro che commento, altro che sfondo altro che raddoppiamento sentimentale - il punto di vista etico da assumere, per inquadrare e giudicare meglio i fatti, le intenzioni e le melodie, spesso nefaste, della vita di Irv & Co.

Bradley Cooper
Ben confezionato allora questo personaggio dell'anti-eroe, ben truccato, nonostante la pancetta, ben mascherato, soprattutto nei capelli, ben simulato nel paesaggio dell'America di Jimmy Carter che ritrova l'onore dopo l'orrore dalle presidenze Nixon-Ford. Meglio di niente. Come era stato orrendamente mascherato, invece, quel criminale di Richard Nixon, il massacratore clandestino di cambogiani e laotiani... Il vero americano.  Il nostro film si ambienta, infatti, nel dopo-Watergate, nel dopo-Vietnam... Negli Stati Uniti d'America dove nella lotta alla corruzione si metabolizza la sconfitta bruciante in estremo oriente. E' guerra seria, a forza di napalm, tra un tipo di politici corrotti, i vincenti, contro un altro tipo di politici-corrotti, i perdenti.

Christian Bale e Jeremy Renner
Ed è ancora nelle sale, forse, American Hustle. O speriamo che la Eagle lo riproponga. E' un'opera complessa, da rivedere, recuperare e ridiscutere. Il titolo, poi, è bellissimo visto che ha a che fare con la frenetica aggressività americana del fondatore, nel 1974, di Hustler, rivista porno per 'soli uomini non ipocriti', il combattente Larry Flynt, che certamente - lo abbiamo apprezzato nel film di Milos Forman, Nixon non lo ha mai votato.

Siamo nel 1978, allora. Due piccoli truffatori niente male, che adorano all'unisono il Duke Ellington di epoca 'Bubber Miley e Tricky Sam Nenton', perché vivono nella new jungle metropolitana, costretti a far troppo male dunque anche ai poveracci incauti e alle loro tasche, cioé l'imbolsito Irving Rosenfeld e la seducente, forse nobil donna inglese, Sydney Prosser (Amy Adams), eternamente quasi amanti, sono smascherati e utilizzati dall'Fbi per eliminare un sindaco italo-americano del partito democratico del New Jersey, scomodo perché troppo populista, e alcuni senatori da rottamare e affidare il business di Atlantic City e dei suoi casinò in ben altre mani (non meno mafiose)... 

Jennifer Lawrence e Amy Adams
Sbuca fuori perfino un agente Fbi che sembra onesto anche se ambizioso, Richie DiMaso (Bradley Cooper) e quel sindaco ambizioso, malandrino, ruspante ma simpatico perché 'di parte operaia', come Carmine Polito (un travolgente Jeremy Renner, lo voterei anche io). Le cose per fortuna non andranno proprio come tutti gli scagnozzi di Edgar J. Hoover, in attrito tra di loro, c'è Jimmy Carter che rompe, hanno previsto... 

Bradley Cooper, Amy Adams, Christian Bale, Jennifer Lawrence e Jeremy Renner
Sullo sfondo (ma preme parecchio) un fatto di cronaca vera, lo "scandalo Abscam" (o Arab Scam o Adbul Scam), sei congressisti, un senatore e un sindaco arrestati, uno dei tanti ripulisti di politici corrotti che accomunano la storia del New Jersey a quella del comune di Brindisi, con tanto di finto miliardario saudita però, qui sguinzagliato. Il che, coinvolgendo Robert De Niro in un cameo da mafioso politicamente corretto, precursore del manager moderno che parla fluentemente l'arabo, trasforma una smagliante screwball comedy della migliore tradizione Howard Hawks-Cary Grant-Rosalind Russell in una aggiornata, cupa farsa all'italiana, quasi ridipinta alla Martin Scorsese. Uno stranissimo mix.  
Il regista David O. Russell sul set

Ma di questo denso e disincantato 'dramma metropolitano' veloce e pieno d'humor sulla corruzione municipale e senatoriale Usa, un crime drama che al culmine del suo potenziale comico, mirerebbe, sotto sotto, al risarcimento morale dell'Fbi, insomma di American Hustle, ci ricorderemo allora tra qualche anno solo per il virtuosismo recitativo, tr Jean Harlow e Judy Holliday come scrisse il New York Times nel dicembre scorso, di Jennifer Lawrence


Jennifer Lawrence e Bradley Cooper
Lei è una futura 'married with the mob' che tanto deve a Michelle Pfeiffer e a Mercedes Ruehl. Ma per dare vita alla sua illegally blonde Rosalyn - la moglie indocile e inquieta di Irving Rosenfeld - ha incorporato una sensualità diversamente perturbante, istintivamente intellettuale, perché gironzola nel film per conto suo, del tutto avulsa da testo e contesto, come Marilyn in Niagara. Sempre al suo fianco un libro di Wayne Dyer, "Power of Intention", che, scritto nel 2004, ma Rosalyn precorre i tempi, sembra il manuale del giovane attore emergente, da Sean Penn in poi. Anticipare le mosse del nemico per abbatterlo. mai più i manuali kennediani, ormai inservibili, quelli del tenore: come conquistare gli amici, come avere successo ispirando simpatia...E Rosalyn divora e metabolizza quel libro, peggio che Anna Karina Brecht in un film-saggio di Godard.

Jennifeer Lawrence
Insomma è l'incrinatura, l'anarchico detour rispetto a una sceneggiatura dagli incastri fluidi e dai dialoghi consequenziali e ferrei (particolarmente spettacolare data la presenza, ben intrecciata e coordinata, degli altri ben 167 attori!) - che sembra ispirata a una 'sensazionale inchiesta' del Village Voice - a fare la forza strana e un po' malata di American Hustle? O siamo in pieno 'laboratorio attoriale' dove solo i personaggi e quel che da dentro trasmettono 'elettricamente' all'ambiente circostante, contano e il copione è solo un canovaccio di cui non tenere alcun conto? 

Christian Bale
No. Attenzione. L'apparenza inganna. Come ci ricorda il sottotitolo italiano di questo strano oggetto, analogo, anche per l'atmosfera malinconica, ad Atlantic City (1980) di Louis Malle (i colori inaciditi di allora, le luci fantasmatiche del belga Richard Ciupka, che strano, redivivo oggi dopo 30 anni di inattività, sono quelli glaciali dello svedese Linus Sandgren), anzi quasi il fuori campo  di quel film sulla mafia dei casinò nascenti della costa east, a cui il copione di David O. Russell (anche regista) e di Eric Warren Singer aggiunge due o tre cose autentiche sul malaffare locale precedente. Speculazioni edilizie, mazzette, inquinamenti mafiosi al Congresso, misteriosi traffici Fbi...

Jennifer Lawrence e Amy Adams
Dunque di American Hustle è bene scrivere con cautela. Anzi è proprio stato difficile scrivere. Lunga la pausa di riflessione. Da quando, molti mesi fa, il film è uscito. Da quando apparve quel parrucchino imbizzarrito ma trattato con le mani da gourmet sulla testa semicalva di Irving Rosenfeld (un Christian Bale ingrassato, imbruttito, deturpato, perché così vanno di moda le star maschili di oggi o estremamente scarnificati, o frustati a morte o imbolsiti). Da quando il film ha partecipato alla notte dei Golden Globe (3 premi: Jennifer Lawrence, Amy Adams e migliore commedia), dei Bafta (3 premi: trucco, sceneggiatura originale e Jennifer Lawrence) e degli Oscar, 10 candidature (non alla fotografia...) e nessun premio. Da quando iniziò quella storia, il 26 o il 28 aprile (dalle scritte del film non è chiaro) del 1978. Da noi la Cia si interessava, con malignità, al rapimento Moro.

Amy Adams sente Duke Ellington, periodo anni 50-60
Infatti ci sono contenuti importanti incastonati in questo omaggio alle forme del cinema che fu, alla 'new Hollywood', al cinema di personaggi indocili e 'contro', non di copioni embedded. E al clima politico post-sessantottino che dalle grandi battaglie ideali generali più o meno vinte (Vietnam, pacifismo, sessualità libera, droga che dilata la coscienza, femminismo, agricoltura biodinamica contro fast food....) intraprendeva da allora la 'lunga marcia dentro le istituzioni', cercando di conquistare potere politico, anche locale, e uscendono sempre, più o meno, sconfitto, da Eugene McCarthy a McGovern a Harvey Milk in poi.  Ma aprì quel sentiero imprenditoriale, legale e illegale, per la 'soggettività desiderante' che avrebbe trasformato il compagno in ristoratore alternativo, il supermercato in Farmers Market, soprattutto nei dintorni di Berkeley; l'individuo americano in lotta contro tutti in lottatore specifico: da beat a broker, da studente a barone (rosso); da hippy felice a yuppy feroce, da hobo a bobo, da rivoluzionario materiale riempito di botte in ribelle immateriale riempito di bot. Chissà se migliorando. Look a parte. 

Jennifer Lawrence
Conosciamo l'antipatia generazionale di oggi per la moda maschile fine anni settanta, pantaloni a zampa d'elefante, stivaletti Beatles, collettoni sulla giacca stretta e maglioni norvegesi bianchi a tessitura larga, in primis.Però, a un certo punto, si entra allo Studio 54, usciamo da Casino e Godfellas e siamo già dalle parti di Badham e nel bel mezzo della Febbre del sabato sera. Ci si trasforma, come Sydney in Lady Edith Greensley. Una frase vittoriana come: "Tu non sei niente per me finché non sei tutto", dopo quel decennio così promiscuo, spersonalizzato, de-individualizzato, zen e in trance da acid-test, ha il sapore geniale di una invenzione romantica. Quasi di un recupero di Fitzgerald dopo tanto Hemingway-Kesey. Perché il sogno di una generazione vincente è essere qualcosa di diverso da ciò che si è. Perché nuovi compiti esigono corpi differenti. Protesi nuove. Tecnologie incorporate. Altri romanticismi. La mutazione è in corso da trent'anni. Attenzione.
American Hustle





Leopardi on the road….Mario Martone tra le Operette Morali e "Il giovane favoloso"


Elio Germano sul set di Il giovane favoloso, di Mario Martone


Roberto Silvestri*
Roma

E’ allegro e rilassato Mario Martone, nonostante lo abbia sottratto per un’ora al tavolo di montaggio inquieto dove sta dando vera vita con Jacopo Quadri a Il Giovane favoloso, il suo nuovo film, con Elio Germano nella parte di Giacomo Leopardi.

Il giovane favoloso
Budget alto, cast di primo livello e tempo di riprese fuori dagli standard. I cavalli, le carrozze e i costumi Ottocento che maneggia ormai da tempo. Ma dopo il successo di pubblico di Noi credevamo, tutto è più facile. Ministero, Rai, camera di commercio di Ancona, film commission, tutti sorridono. Nelle sale arriverà in autunno, dopo un super festival. Che titolo strano e glam, però. C’è la mascolinità, la femminilità e poi la favolosità. Qualcosa che va oltre i giardini dei generi, verso i territori incantati del desiderio multiforme, dell’amore folle anche virtuale e dell’immaginazione sfrenata. Martone, il regista napoletano che alterna scena, lirica, video, documentario e cinema-cinema, ma che sempre di immagini di combattimento è specialista (fin da Morte di un Matematico napoletano e L’Amore Molesto) ci accoglie nella stanza-ufficio romano di via Michelangelo Buonarroti, un appartamento diviso con altre società indipendenti di cinema, nella zona torinese-ottocentesca e dai nomi toponomatici più gloriosi della capitale.

Il giovane favoloso
Il regista di L’odore del sangue, il videomilitante schierato con il Fronte Polisario, così implicato nelle cose del mondo d’oggi, è imprigionato però da dieci anni nel back to the future. Un vortice magnetico lo spinge verso l’Ottocento:  Leoncavallo e Mascagni allestiti all’Opera, Noi credevamo, al cinema. Operette morali da due anni in tournée teatrale (New York, Mosca…), riducendo da 18 a 14 i dialoghi rispetto alla prima torinese e adesso l’impresa ‘folle’ di viaggio in Italia con Giacomo Leopardi, in pieno montaggio dopo 16 settimane di riprese (luci di Renato Berta). Non sarà un biopic tradizionale. Anche se la mappa geografica dei set è scrupolosamente fedele: Recanati, Macerata, Osimo, Loreto, Roma, Firenze, Pisa, Napoli…. Il tutto girato quasi nei luoghi stessi dell’azione.

Il giovane favoloso
Il Giovane favoloso, da una suggestione di Ortese, è proprio spiazzante come immagine. I nostri ricordi liceali schiacciano Leopardi più nell’avverso destino privato di un corpo infelice (il morbo di Pott, lo stesso di Gramsci, gli schiacciava le vertebre rimpicciolendolo), mentre Carmelo Bene e Lenta Ginestra di Antonio Negri lo riposizionano alle scaturigini del materialismo non metafisico. Ma già i letterati contemporanei, da Gladstone a Sainte-Beuve, colgono nel suo scrivere “quasi ogni riga” in prima persona singolare favolosa, la libera sensibilità temporale del moderno, il poeta e il filosofo sensuale più che sensista che viaggia nel tempo, tra dolori e desideri profondissimi. Verso il passato della crisi classicista e rinascimentale, con Giordano Bruno, Galilei e Tasso e nel futuro, aprendo al Risorgimento europeo e alla messa in scena di Rossini, dal linguaggio moderna. Che affronta la sconfitta dei Lumi e della Rivoluzione, si mette con la sinistra atea di Hegel (“e Herzen lo adora per questo e Mazzini lo detesta”) e riempie, incompreso, quel vuoto storico di un’Italia bigotta espressione geografica marginale, incapace di uscire fuori dall’Italia.
Ci sono altri mondi da costruire, collettivamente. Poetare è già farli.

Mario Martone durante le prove di Operette Morali. Foto di Marco Ghidelli
L’immaginazione al potere potrebbe essere uno slogan leopardiano del film, segnale della sua attualità, almeno nei dintorni del sessantotto del XX secolo. Elio Giordano che si è immedesimato così pericolosamente e totalmente nel protagonista - tanto da rubargli perfettamente e inquietantemente la calligrafia – è fuggito adesso in India, ci confessa Martone, per disintossicarsi - ma parla del suo tentacolare Leopardi, come di un coetaneo in rivolta di oggi.

Renato Carpentieri in "Operette Morali" 
Il poeta di Recanati da circa un decennio ossessiona e appassiona Martone. Non riesce a liberarsene facilmente: “e attenzione, Leopardi è irresistibile e infinito, potrei fare ancora altri dieci film su di lui”…Non li farà e promette di liberarsi presto del XIX secolo. 

Nel 2004 lo accosta una prima volta, assieme a Enzo Moscato per l’Opera segreta, sull’incontro-scontro tra Leopardi, Caravaggio, Ortese e Napoli: “Sono rappresentazioni fatte dall’esterno di una Napoli vissuta come scoperta interiore, simili a quelle di Pasolini…Una città che sfugge anche a chi c’è nato, come sfugge agli sforzi della politica, ai tentativi di raccontarla, e produce in tutti rapporti di appartenenza dolorosi”.

"Operette Morali"
Leopardi vive l’ultima parte della sua vita e muore nel 1837 a Napoli, di indigestione (da cibi marchigiani, fatti arrivare apposta), a 38 anni. Antonio Ranieri (che è Michele Riondino), l’amico del cuore aitante e prestante che lo ha strappato all’oppressione familiare, di 8 anni più giovane, gli erigerà una maestosa tomba: “Senza metterci un bel niente, qualche oggetto, dei vestiti, credo che abbia fatto un bel gesto simbolico, in ogni caso, corpo o non corpo”. Martone dall’omega passa poi all’alfa quando è ipnotizzato completamente da Leopardi, nel 2010, visitando il palazzo di Recanati, la tres grande biblioteque di papà Monaldo (“nel film ne risarciremo la figura”), degna di un principe e di un re, piena di testi rarissimi e di manoscritti anche proibiti, e quella finestra. Si ributta a leggerlo. 

Iaia Forte in "Operette mortali"
Ne tira fuori prima due o tre cose drammaturgiche incastonate nelle Operette morali, corpi voci tragitti invettive, che retrospettivamente danno senso anche alle avventure nell’avanguardia di Falso Movimento, alla crudeltà rispetto a ogni messa in scena di rappresentanza. Nato nel 2004, il progetto Noi credevamo, sul risorgimento interruptus, di faticosa e lunga gestazione. Sarà film solo nel 2010: “Leopardi sarà una voce presente nel film, indirettamente, una voce che non mi ha mai abbandonato”. 

Roberto De Francesco in Operette Morali
Per Torino e per i 150 anni dell’unità d’Italia sceglie la missione impossibile e mette in scena, l’anno successivo, le Operette morali. Perché? “Contengono un teatro interno, come se ci fosse un drammaturgo, segreto a se stesso, all’opera”. Per esempio? “Moliere, Beckett, Koltès. Il dialogo tra Timandro e Eleandro è come il primo atto del Misantropo. Roberto De Francesco, Alceste nello spettacolo di Toni Servillo, mi ha detto 'sentilo come lo sentirebbe Molière', e improvvisamente sgorgava, la tensione era simile, anche perché nella prosa di Leopardi, difficilissima da toccare, c’è forza drammatica. Il dialogo Della terra e della Luna è già tutto Samuel Beckett, con quel tipo di rapporto sadico e di muoversi nell’assurdo. Nella solitudine dei campi di cotone di Koltès, che ho diretto alla radio, è un dialogo fitto di lunghi monologhi meravigliosi, quasi ‘ponti della lingua che s’innalzano’, come le Operette morali”. Resta teatro letterario? “No, c’è  anche una forte tensione dialettica. Anzi c’è scontro, conflitto. Leopardi si mette sempre in discussione. In ’Tristano e un amico’, per esempio, gli argomenti usati dei suoi avversari sono ‘forti’, lui spiega bene le ragioni dei nemici, che poi sono i liberali dell’epoca che lo criticano, senza ridicolizzarli mai. Però lui è come se vedesse oltre, come se vedesse ora. Come se li vedesse già i totalitarismi, il capitalismo realizzato e trionfante, le guerre, tutti i mali a venire”.

Mario Martone. Foto di Mario Spada
Viva Leopardi! allora. Proprio come la scritta che leggiamo su un muro di Firenze, vicino al teatro della Pergola, dove Operette Morali era in cartellone fino a pochi giorni fa. Un graffito rosso solare, da centro sociale risorgimentale, un invito alla rivolta poetica. Ma non è Martone, in vena di pubblicità, quel graffitista della notte. Visibilmente soddisfatto però della foto che la immortala, regalo di un amico, e che mi visualizza sul Mac. Di buon auspicio per il suo nuovo film.





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Elio Germano in "Il giovane favoloso", nei panni di Giacomo Leopardi


Leopardi dall’omega all’alfa secondo Mario Martone
(passi da una intervista registrata a Roma nel marzo 2014) 


Sono stato colpito dell’attenzione dei giovani che smanettano in sala durante le Operette morali  ma ridono, reagiscono e commentano puntualmente quel che succede sulla scena, e sono meno distratti e intimoriti dal testo rispetto al resto del pubblico. Ho pensato che Leopardi gli arriva dentro direttamente.

Operette morali, il dialogo 'horror'
Nobil natura è quella che dice la verità e dice il male che ci è dato in sorte … così si affratellano gli uomini consapevoli di una battaglia comune. E questo è sicuramente il lato politico e profondissimamente  etico di Leopardi. Però a partire sempre da una consapevolezza individuale. Insomma è vero ciò che è vissuto, mentre tutto ciò che non è vissuto ed è ideologia, è falso. Mi sembra che questo è il modo di descriverne la potenza e l’attualità. Lui non avrebbe usato parole come ideologizzato. Ma il metodo resta quello: è vero solo ciò che è provato individualmente, con tutte le conseguenze possibili. E’ uno scrittore estremo, Leopardi.

Mario Martone foto di Marco Ghidelli
Per capire l’attualità di Leopardi basta guardare il nostro paese, lo stato dell’Italia di oggi. Difficile dargli torto. E guarda l’Europa, il mondo, il capitalismo. Che cosa ne è venuto delle rivoluzioni patriottiche e socialiste? Lo ha descritto già. Ecco perché anche Noi credevamo, senza avere a che fare direttamente con Leopardi era un film di sguardo leopardiano. Anzi, dal Matematico napolitano ad oggi, mi sembrano tutti leopardiani i miei film. Ma è un punto di vista in movimento. Mi trovo in una situazione strana, sulle sabbie mobili che più mobili non potrebbero, perché sono in montaggio e quindi è difficile avere un distacco….


Del film Il giovane favoloso non so ancora nulla, perché nel montarlo lo interrogo continuamente. Dunque non devo, non posso e non voglio parlarne, per ora. Le due fasi, sceneggiatura e montaggio sono due scritture completamente diverse, una con le parole (Ippolita Di Majo) e l’altra con le immagini e i suoni. Durante la le riprese non inizio mai il montaggio. Sono abituati così con Jacopo Quadri. Ho bisogno che si chiuda la fase del set.  E che poi si apra la fase di scrittura successiva, che è il montaggio. Dove tutta una serie di cose possono cambiare completamente. Il mio lavoro è manuale, fisico, sensuale, tattile, acustico, non cerebrale. Più da fabbro o da falegname, che da intellettuale. Anche Noi credevamo non era costruito su presupposti a prescindere. Via via, nel farsi, ho preso una posizione. All’inizio c’è stato un ascolto, una lettura, uno scoprire cose che non conoscevo. Poi piano piano, nella concretezza del girare e montare si forma una posizione.

All’orecchio di Leopardi le parole ottimismo e pessimismo suonano come parole completamente vuote.  E non significano niente. Mi ricordo Claudio Abbado che una volta mi disse: “Detesto la parola speranza, il verbo sperare. Cosa devi sperare? Devi agire”.  Mi colpì molto. L’unica cosa importante è l’esperienza. La forza dell’esperienza. Sapere. E la consapevolezza che non esiste verità se non quella che tu vivi nell’azione, nel rapporto, che sia con te stesso o che sia con gli altri. Non è che c’è un sistema politico o religioso o di qualunque altro tipo che ti possa sgravare dalle tue responsabilità e verso il quale tu possa solo nutrire speranza…..

Leopardi era osservato dalla sua epoca come una strana creatura di cui certamente si vedeva la statura, ma era difficile da inquadrare, più facile da ignorare. Non viene considerato scandaloso, piuttosto erano quasi tutti stufi di Leopardi. Non riuscivano a capire niente di quel che diceva, ed era lasciato nell’isolamento più totale. Gli rimaneva in mano soltanto la tristezza, la malinconia, la disperazione. Herzen racconta che un giorno litigò con Mazzini su Leopardi. Mazzini era proprio l’opposto, cattolicissimo, tutto per la Causa, la fede cieca, lo detestava.  Herzen invece lo amava moltissimo. E a un certo punto Herzen dice a Mazzini: “Sembra quasi che voi lo accusiate di non aver partecipato alla Repubblica Romana! Già, la repubblica romana era nata quando ormai Leopardi  era morto da qualche anno, nel 1836. E per Mazzini il disincanto, la disillusione rivoluzionaria, la consapevolezza della vanità di quel tipo di azione erano peccati mortali.    

Il lavoro sul testo delle Operette Morali è stata un’impresa che ci ha fatto tremare i polsi, insieme a Ippolita e agli attori abbiamo lavorato molto a lungo prima di andare ‘in piedi’ come si dice. Siamo stati a tavolino moltissimo, per disboscare il testo e montarlo anche diversamente, un po’ come si fa un film. E’ un lavoro di selezione e di montaggio. Inevitabile per ricreare un’altra ‘struttura’.
Si sente che Leopardi amava il teatro e  ha scritto teatro da ragazzo, ed era particolarmente interessato alla questione della ‘lingua moderna’. E perciò si interessava di comico perché con quel registro, come fece Luciano in epoca romana, poteva toccare tutti gli argomenti anche i più pericolosi e micidiali che voleva, dalla religione alla politica. Abbiamo ricomposto il testo, con assoluto scrupolo filologico, assieme a Ippolita di Majo, cercando di restituire quella scena arcana e stupenda, ma anche irresistibilmente comica delle Operette morali, poi presentata a Torino al teatro Gobetti. Lì abbiamo allestito una sala “illuminista”, in forma assembleare, con parte della platea riconsegnata alla scena, attorniata dagli spettatori. Ma nessun altro teatro l’ha voluto. Solo l’Argentina di Roma, in coda di stagione. Ed è stato il più alto incasso dell’anno. Un inizio di tournée faticoso, ma dopo lo spettacolo è andato ovunque, anche a New York e Mosca. Grandissimo successo a Venezia e a Firenze dove, in replica fino a pochi giorni fa, la dimestichezza con ‘quella’ lingua italiana è maggiore che altrove. Questo successo ci ha convinti a intraprendere il grande progetto di Il giovane favoloso.


La poesia più siderale di Leopardi, L’infinito, andando a Recanati, può essere analizzata nella sua materialistà spaziale. È un’esperienza concreta. Di cui parla. Ed è impressionante la trasfigurazione che si dà del siderale perché le parole ti portano in una dimensione di ignoto totale, mentre la cosa di cui parla è concreta. Tutto quel di cui lui si occupa è concreto. Sempre. Lui prova delle emozioni e immediatamente è lì a scrivere, ad analizzare e descriverle e a capire cosa sono.  E’ devastante, sotto il profilo fisico, umano, la continua messa alla prova della propria immaginazione razionale. Pensa al Diario del primo amore, bellissima poesia dedicata alla cugina: analizza tutto ciò che accade dentro di lui come uno spietato radiografo,  il che lo costringe a un continuo passaggio dal caldo al freddo, dall’emozione impressionante alla freddezza dell’analisi, e anche la dialettica è dentro di lui perché è in costante movimento. Iniziare a lavorar su Leopardi ti porta a dire di non voler smettere mai, perché non si ferma mai. Anche se hai fatto un film e credi di aver messo un punto fermo invece non hai messo proprio niente. Quindi tu fai un viaggio. E di volta in volta puoi farlo. Come con le Operette morali, con il film, con i libri che leggi su Leopardi. Tutti sono dei viaggi su un territorio in infinito movimento.

Il metodo di lavorare parallelamente tra scena e set lo coltiva da sempre. Le riprese di Il matematico accompagnarono il debutto di Rasoi, primo lavoro su Napoli. L’ Amore molesto incrociava Terremoto con madre e figlia di Fabrizia Ramondino. Non parliamo di Teatri di guerra intrecciato a I sette contro Tebe anche nel cast. Come un incessante laboratorio, con la consapevolezza che si maneggiano due linguaggi completamente diversi.  Ma con Leopardi sono entrato in un territorio infinito, che posso continuare a percorrere senza venirne mai a capo. Anche se ho avuto ottimi compagni di viaggio come Elio Germano. E mentre volge al termine questo film, mi devo frenare dal non concepirne altri tre o quattro o dieci leopardiani….


Barbara Valmorin in "Operette morali"
Leopardi non era un tipo facile ed ebbe una vita complessa. Conobbe il mondo attraverso i libri, sapeva tutto, conosceva ogni lingua, compreso l’ebraico e il sanscrito. Leopardi è molto avanti rispetto al mondo che lo circonda e sfugge alle categorie del tempo. Nell’orizzonte di Leopardi c’è un Oriente molto antico, e la sua visione del mondo è molto divertente e aperta, come si vede nella “Scommessa di Prometeo” delle Operette morali, con gli dei trasformati in uomini che viaggiano dall’America all’India e fino a Londra e commettono ovunque mostruosità allucinanti, sia i ‘primitivi’ che i ‘moderni’. Leopardi nichilista? Nel dialogo tra Plotino e Porfirio, sono certo convincenti gli argomenti a favore del suicidio. Le parole di Barbara Valmorin andrebbero scolpite negli ospedali italiani, sono avanzatissime, e anche il suo discorso sulla natura e su cosa significa contro natura. Ma quale natura? Cosa c’è di meno naturale della medicina? Eppure poi arriva Plotino e ti convince sulle ragioni, non morali, non religiose, per non suicidarsi: è per questo nascere della vita in un nulla, in una foglia che si muove e rifassi in un attimo il senso della vita.  E anche per non dare dolore alle persone che ti vogliono bene, perché l’amicizia per Leopardi è un valore speciale. Il pensiero negativo viene combattuto dall’immaginazione, dall’illusione dell’anima come valore. E’ un discorso profondo perché è un discorso sulla catena umana, pensa a La Ginestra, dove diventa anche esplicito valore politico, e questo è qualcosa di impressionante. E poi aggiungi a questo il fatto che non ha scritto un solo rigo, che sia verso, che sia prosa, che sia lettera, che sia  filosofia e o qualunque altra cosa che non sia autobiografico. Si è messo sempre in discussione.

Silvia, Gloria Ghergo
Nelle Lettere è interessante cogliere la ‘personalità multipla’ di Leopardi che quasi cambia voce, tono, a seconda con chi scrive. Non è mai lo stesso. E non certo per ipocrisia. E’ invece proprio la pieghevolezza dell’ingegno in azione. Ed anche questa specie di dimensione plurale, contenuta dentro se stesso che diventa politica, è proiettata rispetto al mondo e alla società. Nella sua mente ci sono come mille voci che parlano contemporaneamente, e la nostra mente comincia a cicalare” dice Torquato Tasso, che è l’alter ego di Leopardi - la malinconia, la depressione, la follia  - in uno dei dialoghi delle Operette”. E’ una figura in cui Leopardi si rispecchia e la visita alla tomba che tanto lo commuove a Roma è perché non c’è niente, perché non si vede niente, era questo niente che lo attraeva. E lo commuoveva.

Il giovane favoloso
Vanno ascoltate queste voci. Lui amava ascoltare. Amava la musica di Rossini, poco la pittura, molto la scultura neoclassica, quella di Piero Tenerani, per esempio. Vanno ascoltate anche le risate. Per esempio nelle Operette morali. E’ un elemento primario e non secondario, di Leopardi, il comico, almeno quanto il nichilismo ‘fertile’. Non emerge nella vita, piena di sofferenze, sarebbe falso negarlo.  Nelle Operette, però, se i dentro la sua mente, non nel suo corpo. Ma nel film hai a che fare con il corpo. Speriamo di viaggiare con lui nel modo più complesso possibile.

Elio Germano e Giacomo Leopardi
E’ dentro la temperie romantica, fatalmente. Ma c’è un passaggio progressivo, perché la vita di Leopardi e anche la sua opera sono molto diverse. Dalla temperatura ancora romantica delle prime cose si cambia, via via che l’esperienza porta consapevolezza. La messa a fuoco diventa sempre più nitida ed è chiaro che alla fine il romanticismo che ha attraversato gli è lontano. C’è quella parte che lo accomuna a Shelley. È un poeta che nasce nel suo tempo. Per poi travalicarlo. Quest’immagine di poeta catapultato in un tempo che non è il suo, che appartiene a un altro tempo, molto più vicino a noi, non saprei dire se è il novecento, è affascinante…

Gloria Ghergo, Silvia in "Il giovane favoloso"
Sì, a un certo punto viene eletto deputato repubblicano, a sua insaputa. Poi i papalini tornano al potere e non se ne fa nulla. Ma il suo impegno si vede anche dalla reazione furibonda al libretto I dialoghetti, scritto dal padre, quasi una parodia delle Operette morali. Il libretto diventa un best seller in tutta Europa, ma è papalino e reazionario a livelli spaventosi e, la cosa più allucinante, gli viene attribuito, perché esce anonimo. Si pensa che ci sia stata una sua conversione ‘a destra’. Cosa che lo fa andare su tutte le furie. Oltre al fatto che mai Leopardi ha venduto in vita neanche la centesima parte delle copie vendute dal padre, che nel film comunque viene risarcito perché il suo rapporto con il figlio è stato a modo suo molto amorevole.

Il giovane favoloso
Uno scrittore totalmente erotico, in senso batailliano, di accettazione della vita fin dentro la morte e della morte fin dentro la vita. Ma essendo ignorantissimo in filosofia, i miei primi contatti avvengono attraverso il teatro. Cioè io sento una voce. E’ come se sentissi un teatro che è lontanissimo da lui. E allora è chiaro che inizi a interrogarti su questo rapporto tra lui e il suo tempo. E su come lui viaggia nel tempo. Leopardi infatti non è solo in avanti, ma è anche indietro. C’è un rapporto forte con la tradizione. Il fatto che fosse un grandissimo filologo non è parte secondaria della sua fisionomia e personalità culturale.





(*) pubblicato in parte su Pagina 99 8 marzo 2014