venerdì 23 dicembre 2016

A bordo dell'autobus fantasma, Paterson

Mariuccia Ciotta

Il film più bello dell'anno, passato e prossimo, esce nelle sale italiane fuori dal grande circuito, distribuito da Cinema di Valerio de Paolis.

Paterson vive a Paterson e percorre alla guida del pullman n.23 la stessa strada tra le casette di mattoni rossi, ascolta le voci dei passeggeri, i movimenti impercettibili della luce e annota versi sul suo “carnet segreto”. In concorso a Cannes (titoli zero, Palma d'oro virtuale), il film di Jim Jarmusch, convoglia gli spiriti dei poeti e di chi ha lasciato un segno nella cittadina del New Jersey, contea di Passaic, dove non accade nulla. Eppure è lì che si annida il nuovo ritmo per parole e immagini nell’eco degli ospiti che passarono al bar del paese, Sam&Dave, il duo vocale soul, Gaetano Bresci, l’anarchico italiano che uccise il re Umberto I, Lou Costello, calabrese di origine, il comico maldestro e “lettrista” della coppia Abbott and Costello (Gianni e Pinotto) e soprattutto William Carlos Williams, il maestro che lo ispira nella sua ricerca di liriche senza lustrini, frasi dalla musica interna sulle cose semplici della vita, come per esempio i Blue Tip, fiammiferi blu dell’Ohio. Il poeta, amico di Duchamp e guru di Ginsberg, autore di cinque volumetti intitolati a Paterson, è il fantasma amico che lo segue fermata dopo fermata. I versi in realtà sono di Ron Padgett, nato a Tulsa, Oklahoma, nel '42, che traccia un sentiero di suspense, un'avventura quotidiana attraverso il parabrezza del pullman n.23.
 Una spazialità sonnambula che filtra il reale e sfuma i contorni delle cose, impalpabile percezione di ritmi e profumi di Paterson al quadrato. Acquario che dilata e altera la prospettiva. E c'è una bambina arrampicata su un muretto che invece di twittare crea sonetti sulle pagine di un quaderno e intreccia conversazioni filosofiche con l'autista ispirato (Adam Driver, coppa Volpi per Hungry Hearts di Saverio Costanzo). E c'è il solito bar di Jarmusch, compositore e performer, microcosmo serpeggianti di vite misteriose.
Il regista di Dead man trasferisce la poetica d’avanguardia sullo schermo, dilata tempo e spazio in un incanto solenne e umoristico, con lo sguardo di Aki Kaurismaki che vede le nuvole in viaggio. E qui siamo negli occhi di un conducente di autobus nella città che porta il suo nome, e dell’amata, bellissima Laura (l’attrice iraniana in esilio Golshifteh Farahani), anche lei sognante e dalle aspirazioni multiple: essere una cantante country con chitarra arlecchino op-art, dipingere tutta la casa, dalle tende ai pasticcini, di cerchi, pois e righe ondulate in bianco e nero, etc.

Due perfetti amanti, per non parlare del cane, direbbe Jerome K. Jerome, un piccolo bulldog inglese, capace di tutto pur di essere al centro dell’attenzione. Come per esempio frantumare il diario poetico di Paterson, così distratto e sognante da vedere gemelli dappertutto, un riflesso del desiderio di Laura, e accumulare sul suo taccuino, divorato dal cane geloso, le piccole differenze della vita giorno dopo giorno, un flusso che si ripete apparentemente uguale come ne Il giorno della marmotta di Harold Ramis. Ma, sorpresa, un nuovo quaderno bianco attende le rime mai baciate di Paterson. Lo spirito di un haiku, un giapponese inatteso che sa pronunciare perfettamente quel “AhAaah!” alchemico capace di curare qualsiasi dolore, un misto di complicità e humour.
Versetti in diretta, scritti sulle facce di sconosciuti, nello scambio di sguardi tra passeggeri occasionali, poesie di strada che dicono di fugaci amori.




giovedì 22 dicembre 2016

Mister D e "America is Hard to See". Un ricordo di Emile De Antonio





di Roberto Silvestri (*)

“Un marxista americano negli anni 50 era come un marziano…” (Emile de Antonio)

“Prima di vedere Mr Hoover and I, credevo che, più che un artista, Emile de Antonio fosse un intellettuale coraggioso e radicale, un polemista pungente, un inestimabile protagonista degli anni 60 e 70, anche se i miei amici non americani, le cui posizioni politiche e estetiche stimavo moltissimo, lo giudicavano il più grande e nobile documentarista che viveva in America”.
(Jonathan Rosenbaum)




"Non si vonce mai una guerra ingiusta" (Sam Fuller)

1.  In America Is Hard to See, film di protesta sessantottino realizzato montando materiali di repertorio militanti, spezzoni registrati dai grandi network, interviste originali, Emile de Antonio (1919-1989), il pioniere del film politico basato su materiali d’archivio, il cosidetto ‘compilation genre’, mette davanti a un microfono, siamo nel 1968-1969, tutti i protagonisti di quella epica battaglia che avvenne più dentro che fuori il Convention Hall di Chicago, compreso l’entourage dell'eroe, dell'attore protagonista. 
Ma il documentario non fa l’apologia di Eugene McCarthy, candidato della sinistra democratica, e politico estremamente particolare, alle elezioni presidenziali in Usa del 1968.  E' piuttosto lo studio del fallimento di quella campagna elettorale - nata in maniera entusiasmante in New Hempshire e Wisconsin dopo il ritiro di Lyndon Johnson. Del perché di quella bruciante sconfitta finale alla Convenzione (mentre la polizia massacrava brutalmente chi manifestava fuori contro la burocratisissima vittoria di Hubert Humphrey e dei bonzi di partito) e di simili campagne ‘liberal’ di sinistra facilmente prefigurabili negli esiti (come quella, disastrosa, del 1972 di George McGovern). 
La domanda che si pone inizialmente il regista del film è: ‘è possibile lavorare così, all’interno del sistema, per modificarlo’? Il filo di pensiero che attraversa il documentario, dopo essersi data una risposta (“no, non è possibile”) è: Eugene McCarthy che esige l’immediato ritiro delle truppe dal Vietnam, che ha costretto Robert Kennedy a inseguirlo e a mimarne il programma, è stata l’ultima speranza di uso del sistema elettorale per cambiare l’America, per poter intraprendere “una lunga marcia all’interno delle istituzioni”... 
Forse oggi, anche dopo l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, e nonostante sia riapparsa una speranza, con la doppia vittoria di Barack Obama, centrista di sinistra, ma ben più egemonico e seduttivo, non è più possibile pensare di rompere il giocattolo soltanto dall’interno (la via crucis della riforma della sanità riaddomesticata lo ha dimostrato)…
Eppure il tono del film è ottimista, pop. Questo film, come Underground, fa parte della parte ‘positiva’ del cineasta (mentre Out of Order, e In the year of the Pig sarebbero nel blocco decostruttivo ‘negativo’). De Antonio è come McCarthy. Sono entrambi ‘fuori moda’. Sono due perdenti. Sono indipendenti e intellettuali ‘astratti’, sempre dalla parte ‘del torto’ e delle minoranze. E quella precisazione del senatore: “Ho Chi Minh non si può certo paragonare a Adolf Hitler” ci ricorda anche più recenti e sinistre dichiarazioni di un presidente di opposta sensibilità,  Bush jr., a proposito dei modelli di Saddam Hussein. Con l’idealismo donchisciottesco non si vincono però le elezioni, soprattutto di fronte a un elettorato impaurito per la guerra, per lo sviluppo che lo ignora, per la mobilità sociale vorticosa che lo beffa, e per il ‘relativismo culturale’ che smantella efficacemente, pezzo per pezzo, l’identità religiosa e comportamentale e etica, fondamentalista e oscurantista, della ‘profonda America’ (quella che, lo raccontava Minervini in Louisiana, vuole giocare duro come si faceva nell'800, quando ogni presidente era un pescecane voglioso di divorare ogni concorrenza capitalistica, altro che donne).
Però si radiografa in quel film del 1970 anche un’America forte e antagonista che non utilizza tutta la sua potenza di fuoco, che forse saprà agire e reagire anche in modi ‘underground’ , nuotando a lungo sott’acqua. Come ricorda Haskell Wexler (nella monografia su de Antonio, curata nel 2000 da Douglas Kellner e Dan Streible) era quella la specialità subacquea di de Antonio, soprattutto dopo che l’onda forte del Movimento è diventata un ricordo, così come i beat, gli hippies, i maoisti, i simbionesi, l’lsd come programma minimo, le pantere nere e i Weathermen and women… 
Martin Sheen in "In The King of Prussia" di Emile de Antonio (1982)
Ma, come ricorda l’autore a Alan Rosenthal in New Challanges for Documentary (1988), ‘il film non fu capito. Era sul fallimento della sinistra ‘liberal’. Eugene McCarthy, un intellettuale genuino, il portavoce più rappresentativo di questa tendenza, per un brevissimo  momento ci ha dato la speranza che si potesse davvero avviare un reale processo democratico. Se solo avesse avuto più coraggio, se avesse giocato più duro alla Convenzione e attaccato di più Humphrey, invece di girargli attorno come un oscuro monaco che non va in cerca della rissa!” (alle scaturigini di Sanders, pare...). Bisogna affrontare dei rischi grossi, in politica e nel cinema. Trump lo insegna.
Come gli aveva suggerito il suo amico e vicino di casa più zen, John Cage, spingendo de Antonio a lanciarsi nel cinema: "devi iniziare a avere paura solo quando sei sicuro di poter controllare tutte le tue paure". Il documentario ha però anche un tono classico: è cinema dei fatti e della persuasione, eccitante e didattico, secondo la lezione anni 40 di Grierson e prima ancora dei registi sovietici degli anni venti, e anticipando il più comico, a volte proprio farsesco, Michael Moore. Non fosse per il racconto di un punto di vista, in ‘prima persona singolare maschile’, del regista (che ‘parla’ quasi in dissolvenza incrociata  sul candidato), con la rabbia, l'umorismo e l'intelligenza dei suoi antenati anni trenta, i membri marxisti dell' 'American Film and Photo League', senza però alcun uso della voce off a ipnotizzare o addestrare il pubblico alla giusta linea. Il metodo de Antonio è molto polemico con il 'cinéma vérité' dei colleghi Leacock e dei Meysles brothers (pur  apprezzati per il contributo tecnico, parco luci maneggevole e sincronizzazione del suono, che hanno dato al cinema indipendente), che butta in evasione (o nel rockumentary, genere promozionale) dominando con la cinepresa - che esprime non cose vere ma la 'loro verità' -  la povera gente infelice e debole, invece di confrontarsi, a quel punto, con attori veri, persone molto più difficili da plasmare e dominare. 
Millhouse: a White Comedy (1971)
Il procedimento de Antonio non prevede infatti mai l’uso della voce narrante, garanzia del punto di vista autorevole, preciso, che ci arriva stentorea e rassicurante fuori dallo schermo a spiegare la giusta linea obiettiva. Semmai il regista entra in campo e lotta (“il documentario è una forma d'arte par excellence marxista, non è un caso che sono marxista”), interviene come uno degli intervistati, scodellando passione, umorismo, scetticismo, dubbi, indipendenza di pensiero, intuito, o utilizza, come in Underground la ‘sottile voce della messa in scena’ per creare un baratro, un forte gap, un senso di distanza tra le sensibilità politiche degli intervistati, i 5 membri dei Wheater Underground (tre donne e due uomini e tra questi l'amico futuro di Obama, Bill Ayers, poi avvocato), che spiegano il perché della loro scelta poltiica e il perché del loro metodo terrorista-pacifista, e quella del pubblico, intervistato per strada dagli stessi militanti armati e chiamato, nella parte finale del lavoro, a stabilire e criticare la validità degli argomenti usati, dando prova di una imprevista sensibilità più che estremista. Da notare la faccia spesso annoiata di de Antonio rispetto ad alcuni proclami un po' tromboni e di effetto dei ragazzi (che pretesero la presenza sul set clandestino sia di Haskell Wexler, stimato e conosciuto per aver vinto l'Oscar, che di una cineasta donna, e venne Mary Lampson).
Poin of Order (1962) su Joseph McCarthy, il cacciatore di rossi
Pioniere nell’uso certosino e meticoloso del footage, e del talkinhead intervistato, per organizzare testi e contesti di complessa densità storica, senza però mai, lo ripetiamo ancora, la ‘voice over’, de Antonio prevede anche un complicato sistema di sicurezza per segnalarci il pericolo di cadere vittima dell’argomentazione, della retorica, non sempre onesta e veritiera, di chi prende la parola. Nessuno può essere creduto. Non tutto è sempre vero.  Neanche all'opposizione. Ecco perché appaiono sempre differenti punti di vista nei suoi film. La storia non è un monolite,  la sua complessità e il suo profilo ci vengono segnalati fin dall’inizio. Come Fredrick Wiseman ricostruisce il presente dialetticamente, così de Antonio ricostruisce il passato dialetticamente, addestrandoci così a prefigurare altri futuri. Come se dovessimo tutti costruire, attraverso i materiali proposti, una ‘terza voce’, un altro punto di vista, generatore di conoscenza storica, fabbricatore di una  speciale ‘zona verità’, da contrapporre alle falsità ideologiche, alle menzogne da smontare e agli abusi di potere della classe dominante... 
Rush to Judgment (1966)
Infatti.  Dopo aver ricordato che questo importante film (come tutti i dieci film di de Antonio) non è stato mai visto in Italia, neanche nelle università occupate, nei cineclub o in televisione a notte fonda, mentre in Svezia o in Francia è un cult assoluto, come tutte le opere di questo gigante del documentarismo mondiale - e anche questo è un sintomo della ‘malattia italiana’ - apriamo una parentesi e andiamo un po’ più avanti nel tempo…

De Antonio, Haskell Wexler e Mary Lampson davanti ai Weather Underground (1976)
"Vogliamo fare film non di colore rosa ma di colore sangue" (Manifesto del New American Cinema)

2. Credo che oggi sia molto importante occuparsi, nell’Italia di Berlusconi e dei suoi succedanei, di Emile de Antonio (padre cristiano torinese, madre cattolica lituana), uno dei fondatori con Jonas Mekas del New American Cinema, il ‘cineasta della Storia’, della consapevolezza dei processi autoritari non visibili a occhio nudo da isolare, smascherare e combattere con tutti i mezzi necessari. Per cambiare modi di vita, mercato e mondo. Ma soprattutto un filmaker capace di scrivere con le immagini, come affermò il critico Jimmy Wechsler sul New York Post: “lettere d’amore a Miss Libertà” (riferendosi al film sul maccartismo, Point of Order). I valori dell’ex cattolico de Antonio sono proprio quelli che oggi troviamo dal raccoglitore di ferrovecchio: la compassione, la coscienza sociale, la devozione alla giustizia...
Non solo perché, da comunista perseguitato negli anni 50 e da militante di prima linea del Movement anni 60 contro la guerra del Vietnam, de Antonio riuscì a radiografare perfettamente nei suoi collages (che tanto somigliano alla ‘propaganda appassionata’ del cubano Santiago Roman Alvarez e tanto hanno ispirato Blob) la geografia emozionale dell’America più oscena del secolo scorso, dal Maccartismo all’Fbi di Hoover, da Nixon al doppio Reagan-Bush, ovvero la fenomenologia di una potente ma malata democrazia che, schiacciata dagli interessi delle big company, del complesso militare industriale e dalla droga assuefante della crescita del saggio di profitto, e attraverso l’uso autoritario e spionistico dei media, della pubblicità e del consumismo che incapsulava ogni nucleo familiare nell’individualismo più celibe, stava lobotomizzato i suoi cittadini illudendoli di far parte del migliore e più opulento dei mondi possibili, invece che di uno spettrale e nauseabondo spettacolo di varietà razzista. 
In the year of a pig (1968)
Ma perché de Antonio e la sua piccola grande band riusciva contemporaneamente a risarcire e evidenziare l’esistenza vitale dell’altra America, quella altrettanto potente forza antisistemica che fermò il segregazionismo razziale e sessuale, l’aggressione in Vietnam, il genocidio in centro e sud-America e che, da Wallace a Stevenson, dai Kennedy a Malcolm X, da McCarthy alle Black Panther, dai Weathermen (and women) a Obama, ha ribadito, da sinistra, ora in maniera liberal, ora radical ora ‘progressive’ e perfino rivoluzionaria, quasi sempre perdendo (anche la vita) che cambiare resta però possibile. E ha ripreso il progetto della ‘seconda carta dei diritti americani’ promulgata da F.D. Roosevelt nel 1944, promettendo ai suoi cittadini, anche poveri e non wasp, la lucida utopia nietzschiana di ‘salute, casa e istruzione’ garantita per tutti e che tutti devono pretendere.
De Antonio
In Italia, periferia del mondo, stiamo vivendo con decenni di ritardo, e gli anticorppi non sono stati ancora trovati, un processo autoritario ‘virale’ simile e assai più drammatico a quello dell’America anni 50 e 80. Il ‘maccartismo-spaghetti’, che in questi mesi fiancheggia uno stato di polizia che alterna patologie razziali come il ‘reato di clandestinità’  alla ‘caccia all’omosessuale, al rumeno o allo zingaro al giornalista, allo stipendio dei giovani, al comunista o alla ‘escort che parla troppo’, sta spadroneggiando in una democrazia resa ancora più fragile dalla presenza perversa di un padrone dei media e del parlamento spudoratamente orwelliano. Anche in Italia la virtù si misura dai soldi che hai, i ricchi sono i soli virtuosi, tocca ai poveri servirli…. Non siamo più solo al trionfo dell’arte della pubblicità, e della sua tecnica di lavaggio dei cervelli, ovvero all’apoteosi dell’arte ‘di non dire assolutamente nulla’, al primato della tecnica sui contenuti, dell’offesa sul ragionamento, della violenza fisica sulla mediazione e il dialogo, del giustizialismo sulla politica, della censura preventiva e fanatica su ogni ipotesi di democrazia che si basa sulla partecipazione nopn solo elettorale, sul rispetto delle minoranze, sull’uso pluralista dei territori comunicativi e sul rispetto dell’altro e del ‘fatto’. Il pubblico dei telespettatori, che ormai trova le immagini della guerra confortevoli, se montate tra due spot pubblicitari, non si deve chiedere più: ‘perché noi stiamo facendo tutto questo in Iraq o in Afghanistan o in Yemen o in Siria?’. Non è più un cittadino o, peggio, un elettore che pensa. Ma si illude di farlo. E’ puro zombie teleguidato e addestrato dai media a proferire solo opinioni di ‘senso comune’, terrorizzato dal ‘buon senso’ e dal ragionamento individuale, e omologato a mode, consumi, comportamenti morali e tabù preconfezionati. “Noi oggi abbiamo la censura dei padroni. Chi domina il paese domina i media – scriveva de Antonio – Non è più ‘il medium è il messaggio’. Ma: “chi possiede il medium possiede il messaggio”.               



Emile De Antonio
"Imporre una narrazione è un gesto fascista" (De Antonio) 

3. Non filmare la verità, non imporre una narrazione, ma una ‘linea di pensiero’. Non farsi domande, ma considerare importanti le risposte che ci si dà, e il modo di manipolarle.  La verità nell’arte è interiore, personale. E si offre al giudizio non degli esperti ma di tutti, una volta che è messa in forma. Certo. Le idee rivoluzionarie vanno espresse in forme nuove. Ma non se sono solo esercizio masturbatorio. O, come si dice di Dogma, non si può riprendere con la mano destra e masturbarsi con la mano sinistra….Non se sono solo grida di angoscia.  Se non esprirmono un ‘punto di vista’.

Se de Antonio non è stato un affiliato della gang del ‘cinema diretto’ o del ‘cinema-verità’, cos’è stato questo gigante del documentarismo politico americano lontanamente torinese (e Turin Film Corporation si chiamava la sua società di produzine)? 
Quale l’originalità e importanza di un filosofo marxista laureato a Harvard, gran edonista e bevitore (Drunk è il titolo del film di 66’, inedito, che l’amico del San Remo Café, Andy Warhol, ha girato con un de Antonio super star nel 1965), capace di affermare che ‘imporre una narrazione è un gesto fascista’? 
Con chi si può accostare (con il solo Robert Kramer? con Alberto Grifi?), chi affermò che tutti i film di Hollywood sono prodotti industriali come i Twinkies, le merendine d'America, e che se didattica ci deve essere al cinema deve essere ‘democratica’, suggerire i perché di un fatto, muoversi al di là delle apparenze, ‘fare in modo che il pubblico arrivi da solo alle stesse mie conclusioni’ ?

Il dvd Usa con quattro film di de Antonio
Filmmaker indipendente e ‘leggero’ per eccellenza (non possedeva neanche un suo equipaggiamento tecnico), ‘un tipo anarchico che va a ruota libera’, come si definiva, Emile de Antonio, detto dagli amici “D”, aspettava sempre dal pubblico una ricezione intelligente, la capacità costante di mettersi in discussione. Non avrebbe mai semplificato i suoi film o fatto concessioni di nessun tipo: “Il solo vantaggio che ho nel realizzare film a basso costo è, a parte l’equiparazione con i cineasti del terzo mondo (‘dobbiamo fare film come se vivessimo nel terzo mondo e avessimo quel punto di vista”), che almeno non raggiungo il pubblico che Hollywood raggiunge”. Faceva però ‘appello alla ragione’ (proprio questo questo era il titolo di un famoso periodico socialista, anche satirico, di fine ottocento, quello preferito dal padre di Walt Disney) e alle emozioni della platea. “Non voglio insegnare niente, voglio svelare”. In fondo conosceva bene il piacere collettivo di fare e di vedere film, perché i suoi primi passi nel mondo del cinema (che non amava ancora quanto la pittura) - lui che considerava John Ford un regista tanto quanto Gerry Ford uno statista, “perché la maggior parte dei film americani sono fatti come alla Ford, in catena di montaggio” -  li aveva compiuti proprio da distributore di due mediometraggi a basso costo che lo avevano ammaliato, Pull My Daisy di Robert Frank (1959) e Sunday di Dan Drasin (1961), sulle rivolte di Washington Square, che aveva anche prodotto. Due capolavori, degni del suo film preferito, L’Age d’or, che tutti i newyorkesi ‘avrebbero dovuto vedere’.  Faceva film con la speranza di sollevare emozioni e passioni e “svelare alle persone cose o sensazioni che non hanno mai conosciuto prima”. 
Dvd Usa di "In the year of the pig"


“Credo che in molte forme d’arte una certa innocenza in una mente sofisticata sia una buona combinazione” (Emile
de Antonio in Film Forum di Ellen Oumano, 1985)

Certo il cinema è un’arte sociale, e per un marxista come de Antonio anche frutto di un lavoro collettivo. Molti furono i giovani e le giovani cineaste (soprattutto della comunità black o ispanica) che vennero assunti da De Antonio. Che oltre alla breve parentesi del New American Cinema firmò tra il 1989 e il 1990 anche il manifesto ‘per un cinema dal basso budget ma dalle alte ambizioni’, assieme all’etiope Haile Gerime, al californiano nero Charles Burnett e a Jacqueline Shearer, Allan Siegel e Jack Willis. Però la loro unità produttiva, The Film Collective Inc. ebbe breve vita.
Ma Mister D ha sempre voluto affermare di aver girato documentari prima di tutto per se stesso (e per i pochi giovani, inesperti collaboratori creativi alle prime armi, vogliosi di farsi le ossa, e che lui metteva sotto contratto, spesso senza autopagarsi). E siccome era tanto un ‘comunista (senza party)’ quanto un cineasta fortunato nel trovare budget (riusciva a coinvolgere magicamente sempre finanziatori entusiasti, ricchi e ‘libertari’), le sue opere erano fatte anche per il pubblico: l’obiettivo era ‘ricrearle’ assieme a lui, seguendo il metodo postumano Duschamp della creazione, per crash, dell’esperienza d’arte, unica via per innestare, istigare e produre irreversibili ‘cambiamenti’.
Arrivato tardi al cinema, a 40 anni firma Point of Order, D si annoiava per gli aspetti tecnici di un film, anche se si eccitava molto quando, prima di montare i suoi film e pianificare le sue interviste, visionava, spesso con la montatrice e fonica Mary Lampson al fianco, ore e ore di materiali di repertorio a caccia di parole, espressioni, immagini inusuali che avrebbero costruito il senso e il senso in più dei suoi ritratti interiori dell’America e dei suoi mali e delle sue grandezze sepolte, negli archivi newyorkesi Upi, Hearst o Paramount/Abc (chi volesse poi vedere dove finiva tutto quel materiale preselezionato, e dove dava forma alle sue creature, deve andare a Manhattan, tra la undicesima e la dodicesima avenue, nel Movielab Building, dove aveva affittato due sale montaggio…).


4. “Tutti i miei film sono film-collages. Classici collages”
(Emile De Antonio)

America Is Hard to See è dunque un film sul fallimento della scalata ‘liberal’ al potere….Come è duro ‘cambiare’, nel paese di dio. Millhouse (1971), il doc di de Antonio che seguì, quasi parallelamente, la campagna elettorale del partito repubblicano e del suo leader di destra, Richard Nixon, possedeva molta più forza umoristica e sarcastica (quasi alla Marx Brothers, e così venne lanciato nei flani) del predecente, che andò molto male, non fu neanche  un oggetto sperimentale e originale come gli altri, né fu mai distribuito. E perfino il mensile barricadiero di estrema sinistra Cineaste, appena nato, non ne fu entusiasta (‘tedious’, e materiali di repertorio ‘ripetitivi’, ‘montaggio senza immaginazione e struttura’, scrive la critica Joan Mellen nel 1971)…
Nel 1968, l’anno dei porci, tutto il mondo, cioè il movimento studentesco antagonista, tifa per il democratico più che liberal, quasi ‘radical’ Eugene McCarthy (come farà nel 1972 con l’altro candidato che, questa volta, arriverà allo scontro sulla presidenza, McGovern, perdendo), che si presenta alle primarie democratiche per la presidenza degli Stati Uniti contro Richard Milhous Nixon.
Verrà sconfitto, prima ancora dei repubblicani, dall’establishment del suo stesso partito democratico, dai professionisti che scoraggiano la presenza diretta dei cittadini alla vita partecipata del paese, anche perché McCarthy è un outsider, un uomo politico atipico e ‘movimentista’, troppo ironico, meditabondo e intelligente per vincere la convenzione di Chicago, contro il vice presidente di Johnson, Humphrey, l’uomo dell’apparato, dei poteri forti (come si dirà di Hillary) e del sindacato. E sarà dunque il trionfo del ‘nucleo forte’ del partito, guidato a Chicago dal sindaco, figlio di sindaci e nipote di sindaci, Richard Dailey, contro ogni posizione estremista.
Intanto il movimento studentesco, fuori dal Palazzo, si scontra violentemente e ripetutamente con la polizia, nella notte della definitiva sconfitta del movimento nato a Berkeley nel 1964…ci saranno pestaggi e arresti eccellenti di tutto lo stato maggiore del Movement, da Jerry Rubin a Tom Haiden, da Bobby Seale a Abbie Hoffman. Ma de Antonio non dedicherà molto tempo al fuori, concentrandosi sul ‘dentro’, sulla contestazione stupefatta della burocrazia esiziale americana che va placidamente alla sconfitta. Il suo stesso entusiasmo politico (della prima parte del film, costruito con interviste e materiali di repertorio) per il pupillo McCarthy viene progressivamente meno. Anche se alla fine è la bancarotta del Partito dell’asino, incapace di rispondere alle domande del suo elettorato, ad essere analizzata, criticata e presa maggiormanete in giro, anzi mostruosizzata.  Il mostro centrista e moderato quando non è tempo per essere centristi e moderati. Biblicamente, c’è un tempo per tutti….
L’obiettivo politico principale della candidatura di McCarthy era stato infatti quello di fermare immediatamente l’aggressione militare in Vietnam. Il profilo politico del senatore del Minnesota McCarthy, i suoi discorsi, le primarie vittoriose in New Hampshire, la scesa in campo del senatore Robert Kennedy, poi assassinato, e i caotici avvenimenti di quei mesi, montati vorticosamente da Mary Lampson, dalle rivolte dei ghetti neri e nelle università all’omicidio di Martin Luther King, sono l’argomento di questo quinto suo film, che ruba il titolo a Robert Frost, da un poema anticolonialista su Cristoforo Colombo pubblicato nella raccolta In the Clearing (1951). Il documentario dura 101’ (ma una versione, pur con l’aggiunta di una sequenza a colori, rimontata nel 1988, dal titolo 1968: America is Hard to See, con la voce fuori campo del regista, è ridotta a 90’) ed è prodotto dalla Turin Film Co. e dalla March Twelve. Intervengono nel film, che si avvale di interviste e materiali di repertorio, oltre al senatore Eugene McCarthy, il compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, l’economista John Kenneth Galbraight, che appoggia McCarthy, i politici di primo piano Richard Nixon, Lyndon Johnson, il vincitore Hubert Humphrey (di cui si ascolterà il discorso d’accettazione), Robert Kennedy e il sindaco Richard Dailey, l’attore e militante politico Paul Newman, e inoltre E.W. Keinworthy, Richard Goodwin (manager della campagna di McCarthy), Martin Peretz (l’editore di New Repubblic e produttore esecutivo del film), i supporter Arthur Miller, e poi David Hohe, Gerry Studds, Sam Brown, Arthur Herzberg, Geoffrey Sperling e Curtis Guns. Tra i collaboratori di de Antonio Allan Siegel (poi documentarista per la Third World Newsreel), Mary Lampson (montaggio, poi lavorarerà con Barbara Kopple nel doc Oscar Harlan County e con lui in Underground), Richard Pearce (operatore), Stephen Ning, Lori Hiris. La prima si svolse a Hanover (New Humpshire).  





5. “Le uniche società che fecero soldi a palate durante la depressione furono le compagnie cinematografiche” (Ellen Oumano, Film Forum 1985).

Appunti sparsi, qui. Con De Antonio John Cage ha girato un film biografico in cucina, raccontandosi mentre il dio dell'alea fa il cuoco. E' il suo ultimo, nel 1989, Mr Hoover and I (che poi il feroce boss dell'Fbi perseguitava come nemici pubblici numero uno dell'America proprio i 5 ragazzi e ragazzi Wheater...). Cage era il suo vicino di casa a Rockland County, stato di New York, dove De Antonio viveva con la terza moglie, ubriacandosi in tre spesso ("Cage, la persona più importante della mia vita, dopo mio padre") e, da buddista zen quale era, e come abbiamo già scritto, fu lui a spintonarlo verso la produzione, a osare, a buttarsi e a realizzare Point of order, visto che nessuno se la sentiva, neanche, contattato, Orson Welles, che forse non aveva capito bene il progetto suo e di Dan Talbot.Questo e tutto il resto che vi interessa su De Antonio lo troverete in un libro curato da Federico Rissin che si intitola American collage-Il cinema di Emile de Antonio (2009 Agenzia X) che costa12 euro e fu voluto da Film-makers.

"Credo nel lavoro indipendente con il controllo totale del proprio materiale" (Emile de Antonio)
“Per esempio sapevo molto sulla struttura dei quadri, mentre ero relativamente innocente - confessò De Antonio - sul cinema, e non credevo che fosse una brutta introduzione. Quello che succede nelle scuole di cinema è che la gente impara così tanto sulla tecnica da dimenticare che scrivere un libro o girare un film ha molto più a che fare con le tue convinzioni, sensibilità, concetti, passione e la voglia di esprimere se stessi, piuttosto che di far funzionare un meccanismo”.


C’è un pezzo sul sound a proposito di Point of order che è il primo doc senza voce off, narrativa. Poi parla delle interferenze che a lui piacciono (per esempio in Painter painting lascia nello studio di Jasper Johns la radio acceso mentre il pittore spiega la sua pittura, perché lo spettatore deve voler capire, anche se ha difficioltà. “Non ho niente contro il cinema di intrattenimento ma io non voglio farlo”. A proposito del film sul Vietnam parla di missaggio di mix dei differenti suoni dell’elicottero. Sembra già Stockhausen, e Apocalypse now di Coppola.....

* rielaborazione di un articolo scritto nel 2009

martedì 20 dicembre 2016

L'inventore del Brasile. E' morto a 72 anni il cineasta totale Andrea Tonacci





di Roberto Silvestri

Girare un film in sette sequenze in modo tale che, montandole differentemente, e non per colpa del proiezionista distratto, funzionassero sempre. Ecco l’idea. Bella no?
L’ironia era la sua forza. Oltre che una buona conoscenza del cinema giapponese, perché a San Paolo c’è un grande e attiva comunità (e il neorealismo a lui non piaceva molto). E quel certo sguardo camp sulle cose che lo avvicinano più ai cineasti paleolitici come John Waters che a quelli intellettuali, severi e “protestanti” come Glauber Rocha.

Bang Bang (1970) di Andrea Tonacci
Chanchada, clichés da film d’azione, noir, Iron Butterfly e pop art (la parodia del Pianeta delle scimmie) sono materiali eretici (e molto prima di Tarantino) che pochi registi bricoleur sanno incorporare e sovvertire come lui ha fatto nel suo primo lungometraggio di finzione in 35mm girato in 11 giorni a Belo Harizonte, e che fu alla Quinzaine di Cannes, Bang Bang, dopo aver fatto: il fotografo di scena; l’assistente del direttore della fotografia Dib Lufti; l’operatore di Sganzerla (l’entomologo di Orson Welles in Brasile) per il suo corto d’esordio Documentario (che poi avrebbe ricambiato il favore montando alcuni suoi film);  il regista dei corti Occhio per occhio  (1966), del film politico Bla Bla Bla (1968), girato a Rio, che avrebbe grande successo oggi perché fa la parodia del parlar senza dire nulla, cioè della retorica dei professionisti della politica di destra, sinistra e centro (e così che è costretto all’esilio sei mesi in Uk e sei in Italia: lo minacciano); l’insegnante di pratica cinematografica nella scuola di San Luigi  (1969-1970); l’autore di video musicali per Miles Davis e Milton Nascimento. Molta pubblicità...

Tonacci con Karapirù in "Montagne del disordine"
Per poi scappare un po’ dal paese, come tutti quelli che ci riuscirono, per le ragioni che si sanno (il fascismo militare) e tornare con Novos Baianos,  Hermeto e Macalé (1978) e una serie di mediometraggi per la tv Bandeirantes in 16mm (serie Araras) realizzati tra il 1980 e il 1983. Ha insegnato cinema a New York  (78-79 e 82-83). E’ stato sceneggiatore di Sylvio Lanna per Sacra Famiglia (1970) e montatore di Diacuì, a viagen de volta, del ceco esule Ivan Kudrna (’83).  Suoi anche i documentari Interprete mais, ganhe mais (’75), reportage sulla tournéé della troupe teatrale Oriente media di Ruth Escobar che ebbe notevoli grane censorie; Conversas no Maranha  (1977), sulla popolazione indigena di Canela, primo di una lunga serie di opere di antropologia patafisica sulle popolazioni native del Brasile. Dopo il video Biblioteca National (1997) gira infatti in 10 anni e oltre 150 ore di riprese il pluripremiato Montagne del disordine (2006), sul massacro degli indios Awa-Guja attraverso gli occhi di uno di loro, Karapiru, che dal 1977 al 1988 percorse a piedi duemila chilometri in fuga dal suo villaggio. Infine Jà visto jamais visto (2014), invitato alla Festa di Roma.


Immagino che la sua vita sia terminata, a soli 72 anni, con una grande risata rivolta verso tutti noi. Simile a quella del suo attore Paulo Cesar Pereio, che dallo schermo investe il pubblico, inusuale happy end per chi ha coinvolto la sala tutta, alla Godard (regista che Tonacci ha sempre amato), nelle sue avventure in taxi, in quel capolavoro metropolitano del cinema latino-americano che si intitola Bang Bang e anche se è pieno di piani sequenze (utilizzati soprattutto per non spendere troppi soldi) e travelling. Strana scena finale, da cinismo ridanciano romano. Già. Tonacci era nato a Roma nel 1944 ed è stato portato via dalla famiglia in Brasile nel 1953. Poi gli studi di architettura. C’è un po’ di commedia romana in quell’opera prima.
Ma il film è una ermetica “metafora del potere”. C’è il cieco, che è il boss armato, il più spietato; il travestito che si cambia, da bianco in nero, a seconda delle opportunità; il grassone, che è la madre dei due banditi… e Pereira che è l’uomo qualunque, colui che non sa mai cosa sta succedendo… Ermetica perché a Tonacci non piaceva  dire il già saputo, ripetere il già visto. Per fabbricare poesia e liberare la fantasia delle persone la sua tecnica era eliminare dalla sceneggiatura tutto ciò che fosse ovvio, tutto ciò che poteva essere facile come “Ah! Questo vuol dire questo!”.
Racconta a Marco Giusti: “ No. Volevo lasciare sempre del vuoto, dello spazio per l’immaginazione dello spettatore, una chance dove tutto è possibile”. Tra Zen, Artaud e Sergio Citti.
Bang Bang
Ho incontrato il cineasta totale (fotografo, montatore, sceneggiatore, regista, documentarista, rivoluzionario, antropologo…) Andrea Tonacci, autore di quel mitico Bang Bang (1970) a San Paolo nel 1993. Mitico quel film, e gli altri di Tonacci, perché il sabotaggio alla progressione, alla continuity, di una storia, mai è stata condotta con tanta sapienza e ferocia, e che si simulasse un film in quel modo, esibendo la messa in scena in tutta la sua macchinosità da set,  perfino Brecht l’avrebbe trovato esageratamente straniante. Ma mitico solo per un ristretto numero di persone sparse per il mondo per i mangiatori di film che adorano le opere aperte e iper-frammentate, la cinepresa coinvolta nel gioco come uno di noi, la temporalità reversibile e il gioco della ricezione che trasforma un puzzle in allegoria comica ma niente affatto apologetica dell’esistente. Soprattutto dopo le delucidazioni critiche dei teorici brasiliani, esegeti attenti di Tonacci, Ismail Xavier e Jaro Ferreira. 
Occhio per occhio di Andrea Tonacci
Anche in Italia, non fosse per il bellissimo necrologio sul manifesto del 20 dicembre di Marco Giusti, che con Marco Melani gli rese un fondamentale omaggio a Torino in una fantastica monografia sui brasiliani sovversivi del 1995, e per qualche incursione di Fuori Orario (che la direttora di Raitre Bignardi dovrebbe sbrigarsi a riempire di nuovo di fondi, se no muore), nessuno conosce bene il cinema di Tonacci, e gli altri paulisti radicali del cinema marginal, che fu un movimento atipico, di singole personalità anarchiche, che in comune avevano sensibilità, visionarietà,  consapevolezza politica e una estroversa simpatia: Carlos Reichenbach, Julio Bressane e Rogerio Sganzerla…. Più alla mano e meno potenti socialmente di Nelson Pereira dos Santos, Joaquim Pedro de Andrade e Glauber Rocha (i pilastri del cinema novo “che aprì la visione nazionale delle cose, dei problemi politici, sociali, economici…” come ricordava con rispetto Tonacci). Ma intanto c'era stato Jimi Hendrix.
L’occasione di quell’incontro con Tonacci (organizzato dagli istituti culturali europei e anche da Amir Labaki, un pioniere del "cinema del reale", era un convegno paulista sulle nouvelle vague europee 50/60 e sulle loro sconfitte strategiche, con Sylvie Pierre e David Robinson, che molto ricordavano gli esiti funebri del cinema novo e della new Hollywood.  Lui e David Neves (che sarebbe morto l’anno successivo) erano i più presenti e appassionati al dibattito. 
Bla Bla Bla di Andrea Tonacci
Ero per la prima volta in Brasile. E lui, bello, magro, arguto e asciutto come Caetano Veloso, dopo avermi parlato del suo progetto nuovo (un film sulla paternità, in cui si racconta tre volte la stessa storia, e anche l'emigrazione italiana) che non so se abbia mai realizzato,  mi fa: “Se vai solo a Rio, dopo San Paolo, non capirai niente del Brasile. Il Brasile è immenso, e va conosciuto dal di dentro”.  E al Brasile pre-cristiano e pre-portoghese Tonacci ha dedicato la penultima parte della sua ricerca, tanto che il capitolo a lui dedicato da Jairo Ferreira nel suo libro sul cinema marginale, Cinema de invencao,  si intitola proprio “Andrea Tonacci, o guaranà aos guaranis”.   Nella intervista che Giusti ha fatto con Tonacci per il catalogo della retrospettiva sul cinema brasiliano Tonacci a proposito di quella esperienza e del suo cercare di far girare direttamente film da indios mai stati in contatto con i bianchi, ricorda che ha passato molti anni in Amazzonia ma ha compreso che si correva il rischio di trattarli, nonostante le migliori intenzioni, come oggetti da entomologo, “anche perché la tecnologia, se si mette in mano a qualunque persona, diventa una forma di dominio”. Come noi tra le mani di facebook. Già.
Bang Bang
C’è il cinema emerso, della professione, della perfezione, del just in time. La ricca cosmopolita Hollywood – modo di produzione seriale, fordista e post fordista - ne è la capitale.
E c’è il cinema povero e sotterraneo, dell’imperfezione, asincrono, della  marginalità come aspirazione, insomma “dell’invenzione”, per ricordare il titolo di un bel saggio del cinecritico brasiliano Jaro Ferreira, pubblicato trent’anni fa. Il cosiddetto terzo cinema – modo di produzione caotico/moltitudinario- una delle cui capitali è stata negli anni 60 e 70 Rio de Janeiro/Sao Paulo, tra atmosfera “cinema novo” porno chanchada e oltre.

Bang Bang
Sono due maniere di intendere il cinema di sperimentazione commerciale e di sperimentazione “celibe” e d’avanguardia (non rappresentazionale, direbbe Hans Richter, altrimenti narrativo), quel che si sperimenta è in sostanza la decostruzione del Mito, a mezzo icona, la scoperta dei territori postumani, al di là delle gabbie sessuali e razziali e di gender definite, dell’artisticità accademica e dell’autorialità feudal-europea, che, per smentire molti luoghi comuni, si intendono piuttosto bene tra di loro, si sovrappongono, giocano spesso insieme. Sono il sovrumano e il subumano dell’immaginario. A proposito di subumano. 1964. José Mojica Marins presenta al cinema Art/Palacio di San Paolo A Meia Noite Levarei Sua Alma. Non si è mai visto nulla di simile, e non solo nel limitato ambito del cinema di genere horror, che Marins maneggia come all’Universal Studios, e l’enfant terrible della critica paulista, il ventenne Rogério Sganzerla ne sottolinea le qualità esplosive e l’oltranzismo etico, e in un suo corto del 1966, Documentario ne farà la cine-critica. 

Bang Bang
Oltre a lui che ci darà un capolavoro assoluto di cinema imperfetto meraviglioso (O Bandido da Luz Vermilha) altri paulisti diventeranno i militanti del cinema udigrudi, e ci sono ancora ignoti, Ozualdo Candeias, Julio Calasso jr., Joao Callegaro, Walter Hugo Khouri (un cui film giace nei cellari della Rai senza che si sia ma proiettato), Luiz Rosemberg Filho…..

domenica 18 dicembre 2016

Joaquim Jordà, lo sguardo libero. Ricordo, a 10 anni dalla morte, del grande cineasta e militante catalano, europeo e mondiale


Roberto Silvestri (*)




Dante no es unicamente severo è il migliore film spagnolo che abbia mai visto”    (Jonas Mekas, a Pesaro nel 1967)




Ho conosciuto ‘dal vivo’ la gentilezza, la cultura cinematografica radicale, l’umorismo e la passione politica del cineasta catalano Joaquim Jordà nel 2000, a Bilbao, dove era, e molto omaggiato, il perfetto presidente della giuria di Zinabi 43, festival internazionale dei corti doc e fiction.
Tre anni dopo Il vangelo di Pasolini, nel 1967 Enrique Irazoqui interpreta "Dante no es unicamente severo" di Jordà
Jordà stava terminando allora una sceneggiatura di Carmen per Vicende Aranda, che sarebbe uscito nelle sale nel 2003, ed era, come sempre, attivissimo e polivalente: continuava nel lavoro critico, faceva l’attore, si impegnava nella produzione, nella polemica teorica e scriveva molti copioni, progettava documentari, insegnava alla scuola di cinema, ma era piuttosto negativo sullo stato di salute del cinema avanzato e di ricerca del momento (cose tipo Dogma non lo entusiasmavano), e catalano in particolare (criticava perfino gli ultimi lavori del suo allievo Chus Gutierrez). 


La soddisfazione professionale scavalcò d’un pelo, comunque, la sua proverbiale modestia per la retrospettiva che Euskadi gli aveva organizzato, parallelamente al festival, anticipando persino i più recenti omaggi di Madrid e Barcellona.
Abbiamo visto in 5 giorni, tra indimenticabili libagioni basche, e anche una ‘Noche de vino tinto’ (parafrasando il titolo di un film del ‘66, del portoghese José Maria Nunes, antesignano della Scuola di Barcellona), un’infinità di pellicole. E premiato, grazie a un deviante gioco di squadra (complice il cineasta argentino Settimio Presutto), che quando scatta sbaraglia qualunque architettato buon senso, un poema hip-hop sulla rivoluzione messicana riletta in chiave Gianikian-Ricci Lucchi (I sandali di Zapata, di Luciano Larobina), dando due menzioni, a un Bartleby lo scrivano della critica d'arte neozelandese Miro Bilbrough, capace di tramandare la tecnica del saper dire di ‘no’ e a un audace e insostenibile ritratto di homeless messicana devastata, La virgen Lupita di Ivonne Fuentes.
Jorda amava particolarmente il cortometraggio su Zapata, costretto a fare i salti mortali per attenuare l’esiguità dei materiali filmati e fotografici sopravvissuti, forse perché gli ricordava il suo Lenin vivo, montato utilizzando, tra didascalie, molto silenzio e suggestivi neri, solo tre reperti audio e 22 piccoli filmati, e tra questi i funerali di Jacov Michajlovic Svertlov e Petr Alekseevic Kropotkin, le uniche registrazioni audiovisive in vita rimaste dell’uomo (anche se progressivamente, stranamente, sempre più malato, a poco più di 50 anni) che aveva sconvolto il mondo, creando un’alternativa bolscevica al capitalismo nella sua fase monopolistica e imperialistica, ma che era morto troppo presto per far riprendere il mondo da quello shock, e per fare funzionare davvero l’economia (perché no, anche di mercato) dei soviet. 
Lenin vivo era un corto prodotto nel 1970, durante l'esilio di jorda in Italia, dall’Unitelefilm (grazie all’aiuto di Gianni Toti), ed è ora all’Archivio del movimento operaio e democratico (aggiunta imposta in epoca Craxi dalla necessità di accedere a finanziamenti pubblici) di Roma, realizzato nel centenario della nascita dello stratega principale della rivoluzione russa, senza alcuna traccia di retorica apologetica. E’ piuttosto una appassionata ed estrema lettera d’amore per sole immagini, un canto visuale molto circostanziato (di ogni reperto Jordà spiega esattamente senso politico e data) per quel pioniere dell’emancipazione internazionalista, per quel viso ‘euroasiatico’, per quegli occhi acuti e concentrati, per la voce che declama una rarissima poesia di sua composizione; per l’umiltà di un leader politico che odia il culto della personalità e urla a Eduard Tissé, il gigantesco operatore che si fa largo tra la folla esultante per riprenderlo: ‘non inquadrare me, piuttosto registra i volti soldati che vanno al fronte’; per quel nodo elegante alla cravatta, lungo e cilindrico, e per quei cappelli e berretti, anche celtici, che Jordà utilizzerà identici (il colbacco, per esempio) per combattere una calvizie simile.  Ma anche i segni di quelle terribili operazioni subite da ragazzo, dopo un infarto cerebrale, anche attraverso la lobotomia  dopo la quale Jordà perse la facoltà di vedere a colori, accontentandosi del bianco e nero.

Il documentarista Martì Rom e Joaquim Jorda (a destra)
La lobotomia è appunto il soggetto e il nemico del suo pamphlet anti-psichiatrico Monos como Becky, del 1999 (visto alla Mostra di Pesaro del 2002) che racconta i primi esperimenti scientifici di rimozione di parti del cervello effettuati sullo scimpanzé Becky dal neurologo portoghese, premio Nobel 1934, Egas Moniz. Un altro documentario ‘improprio’, quasi un mockumentary (visto che comprende la messa in scena di un ipotetico assassinio di Moniz che coinvolge un gruppo di degenti gravi della comunità terapeutica di Maresme, in Spagna) dove il quoziente di difficoltà è alto perché manca il materiale di repertorio portoghese, se non audio, sufficientemente valido. Come se i lusitani fossero a disagio proprio davanti a una loro gloria nazionale. Eppure la celebrazione in negativo dello scienziato salazariano che voleva calmare gli schizofrenici violenti, togliendogli pezzi di cranio, oltre a essere uno degli esempi più commuoventi e ‘obliqui’ di cavalcata tra i generi, è anche il segno che l’antipsichiatria non è una moda che fu, ma continua a smantellare crimini tuttora protetti dalla legge. E che senza affetto sociale e carezze terapeutiche nessuna medicina è mai in grado di curare alcunché.

Sempre sul (e contro il) Portogallo della feroce dittatura Caetano e della estrema povertà nelle campagne, ‘paese coloniale ma colonizzato’, i cui interessi sono cioè legati a filo doppio a quelli delle multinazionali americane, tedesche e olandesi, Jorda girò un magnifico documentario, più che militante, prodotto nel 1969 sempre da Unitelefilm.
Un lavoro che analizza, pochi anni prima della rivoluzione dei garofani, la possibilità e la legittimità della lotta armata in un paese autoritario, ma sotto stretta tutela Nato, anche come aiuto alle lotte per l’indipendenza nazionale delle colonie africane d’Angola, Mozambico, Guinea Bissau e Capo Verde. Portogallo paese tranquillo comprende schede storiche, grafici, materiali di repertorio anche televisivi, un titolo ironico che si riferisce all’ipocrita slogan della campagna turistica di Lisbona ‘69, e una dura requisitoria contro Paolo VI che aveva appena riempito di onorificenze i petti  insanguinati dei torturatori capo della Pide, la polizia segreta, gli squadroni della morte anticomunisti di Salazar e Caetano, in occasione di una vergognosa visita di supporto al regime fascista. Ma il pezzo forte del film sono le interviste al leader del movimento di liberazione di Capo Verde e Sao Tomé,  Amilcare Cabral, a un Mario Soares dirigente socialista giovanissimo e già grintoso che mai, a militanti rivoluzionari clandestini che teorizzano e praticano l’esproprio proletario delle banche, a gruppi cattolici del dissenso, a studenti protagonisti di clamorose azioni di disturbo e di sciopero, ai coraggiosi disertori dell’esercito coloniale e a contadini poverissimi che giustificano, con la sopravvivenza della famiglia, il loro sì all’invio dei figli nella guerra d’antiguerriglia in Africa: “anche se non sappiamo nulla di quel che fanno e vedono; di nuovo a casa, se tornano, non ci dicono nulla di eccidi e torture, come se gli avessero messo un tappo in bocca”.            
Tornando a Lenin, la cosa che più colpisce in quelle immagini in bianco e nero di repertorio è che in campo, vicino a Lenin, quando non parla al popolo, sgolandosi a destra e a sinistra senza microfono, ci sono sempre ragazzini e donne: che, insomma, il comunismo era ‘a portata di mano’, e ancora un movimento fortemente controllato dal basso, non come durante il ‘machismo’ burocratico staliniano o brezhneviano.
E’ al cuore di quel film, super star assoluta, il comunismo, come programma minimo, ribellione ovvia e quotidiana contro il capitalismo e lo sfruttamento; come autogestione delle fabbrica da parte dei lavoratori, ipotesi di controllo della intera società ‘dal basso’ e passaggio, in metamorfosi, da: 1. forza lavoro imprigionata, devitalizzata e ‘tonta’, a 2. classe operaia sindacalizzata e consapevole, a 3. ‘soggettività desiderante’ rivoluzionaria ed egemonica che controlla danzando la propria vita, guarisce l’abbrutimento della catena di montaggio e l’alienazione, e pratica la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento di quello del piacere. 
Il comunismo è stato lo spettro, oggi demodé (perché l’Europa ha delocalizzato, con le fabbriche, anche le ‘lotte sociali concentrate’ nei tre mondi) che si è aggirato per tutto l’occidente durante il periodo ’68-‘77 ed oggi sta scavando sottoterra da vecchia talpa. E che domina un altro documentario obliquo di Jordà (se non altro per una messa in scena finzionale, più che spettacolare, clownesca, del punto di vista capitalistico), Numax presenta, una sorta di monumento, tuttora vivente alla lotta contro lo sfruttamento. Una fabbrica di elettrodomestici, ventilatori e aspiratori, chiusa dai padroni circa 30 anni fa è espropriata e gestita, dopo uno sciopero, dai lavoratori. E’ ancora in mano operaia (Jorda ne ha realizzato, recentemente, un secondo documentario ‘storto’), almeno nel 2004, non senza problemi, difficoltà di mercato e di rapporti esistenziali e sociali che in quasi due ore vengono analizzati e discussi dai più attivi tra i 120 occupanti. Ma l’esempio Numax ha anche dimostrato possibili, socializzabili (e discusse nel loro vero significato) pratiche come quelle della cooperazione, dell’egualitarismo, degli asili nido e delle scuole anti analfabetismo in fabbrica, e dell’autoresponsabilizzazione. In Francia, in Italia e nel Portogallo della rivoluzione deiu garofani, avvennero esperimenti simili, ma fallirono.   
Jordà, alto, robusto, leone, anche zoologicamente, e ‘sessontottino’ con la barba folta, conosceva molto bene l’Italia della dura dominazione Dc e della sinistra antagonista (e Lino Micciché, Bruno Torri, Paolo Brunatto, Gianni Toti, e molti leader di Potere Operaio come Nanni Balestrini), avendovi vissuto e combattuto per alcuni anni, visto che era stato semiespulso da una Spagna franchista, attorno al 68, particolarmente insopportabile e decadente (‘Questo paese di tutti i diavoli’, come l’aveva definito il suo amico cineasta Jacinto Esteva). Invece le lotte operaie e studentesche della nostra penisola, erano diventate una magia - senza trucco - di livello internazionale affascinante, anche se a volte era ‘magia nera’, per i cineasti rivoluzionari come lui (Godard, Rocha, Polanski, Nelson Pereira dos Santos, Marc’O, Jancso, Mekas e molti altri underground Usa, e perfino i niene affatto militanti Morrissey e Warhol, frequentavano più o meno i suoi stessi suoi bar e vinai romani di campo de' Fiori e dintorni). 
Il concittadino Jorge Grau, che un decennio prima aveva frequentato il Centro Sperimentale di cinematografia di Roma, deve avergli passato almeno qualche buon indirizzo e qualche amicizia a Cinecittà (per Vittorio Cottafavi Jorda scriverà il Cristoforo Colombo televisivo), se non proprio la passione per il cinema-diretto zavattiniano o per la messa in scena barocca e per la ‘recitazione accurata’ tutti difetti che Jorda non ha mai voluto condividere, vista la sua famosa battuta che ne definisce la poetica: ‘se non possiamo fare Victor Hugo perché c’è la censura, allora facciamo Mallarmé”.   
El encargo del cazador
Certo la ‘scuola di Barcellona’ era collegata all’ ‘insoddisfazione colta’ di Tàpies, al gruppo 63 conosciuto attraverso conferenze catalane di Umberto Eco e al movimento neodada di Dau al Set, ma in sostanza era FilmsContacto, ovvero i soldi del papà di Esteva, l'amico e sodale di Jordà. Però i 9 punti del manifesto Jorda (formalismo; sperimentalismo visuale e narrativo; modo di produzione cooperativo e intercambiabilità dei ruoli professionali; autofinanziamento; soggettività desiderante da dispiegare; utilizzo di attori non professionisti; formazione non accademica né professionale dei registi; disinteresse per il cinema neorealista di Madrid e per i distributori ignoranti) bastarono per creare censure e grane. Il corto di Jordà Día de muertos fu censurato perché si inquadrano le tombe di famosi intellettuali di sinistra. L’attrice Serena Vergano fu arrestata durante il festival di Sitges. 200 mila pesos di multa a Jordà furono imposti daò governo di Fraga Iribarne perché alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro il cineasta non si era espresso in lingua castigliana ma catalana. Dialoghi censurati in Dante, censure a due copioni di Jorda, El jardín de los ángeles e Cosmos, da Gombrowicz, censure a Raimon, il corto di un allievo di Jordà, Carlos Durán, e anche a Liberxina 90 (1970)…   
El encargo del cazador
In quella settimana basca di Bilbao, Jordà riscì a trovare anche una sala fuori mano dove far proiettare, per la sola giuria che l’aveva perduto, El encargo del cazador, il commuovente elogio funebre di Jacinto Esteva Grewe, suo strettissimo amico e membro della ‘Escuela de Barcelona’, battezzata così in un articolo di Fotogramas da Ricardo Mũnoz Suay il 5 agosto 1966, appassionandoci al clima esistenziale e creativo della Catalogna anni sessanta e a quel cineasta così originale, una specie di Paul Gégauff, ma rosso e ricchissimo (e anche architetto, urbanista, pittore, e feroce ‘King Kong dal cuore d’oro’, ma di insopportabile, insostenibile carattere) che si era suicidato troppo giovane, lasciando un vuoto incolmabile nelle parti vive della metropoli e interminabili, mai montate testimonianze filmate di caccia al leone e all’elefante. La sua droga trasformata in arte huston-eastwoodiana (Cacciatore bianco, cuore nero). Con questo “dilettante che faceva tutto abbastanza bene, a parte uccidere gli elefanti perché quello gli piaceva davvero e lo sapeva fare ottimamente”, Jorda ha scritto e diretto il suo primo film indipendente di successo mondiale, e che possiede anche il titolo (tratto da Ehrenburg) più bello della storia del cinema, Dante non es únicamente severo (1965). Un poema visuale dadà e libero in cerca di fabula (ma il principe azzurro ha davvero la faccia colorata di azzurro); a tasso alcolico alto e nicotinamente più che corretto; che urla con humor all’estinzione dell’inferno fascista; tra documentario ‘udigrudi’, reversibilità del tempo, jazz locale alla Tete Montoliu; moda Tuset Street (o Callet Tuset), sguardo e sensibilità androgena (una protagonista è la modella pubblicitaria e mannequin Carmen Romero detta Romy, moglie di Esteva), omaggi all’occhio tagliato del Cane andaluso di Bunuel, a Cortazar, al Godard di Due o tre cose che so di lei e Baudelaire (declamato da Serena Vergano), e teatro ‘on the road’ in cerca di esodo, ma anche a proprio agio nell’uso e abuso delle tecniche pubblicarie (‘un’immagine può condurci verso una storia, una storia mai verso un’immagine’…). Il tutto vinse il premio di Filmcritica a Pesaro 1967. 

Dante no es  estremamente severo
Nel film è contenuta anche la classfica generale dei gusti cinematografici di Jorda (Straub e Skolimowski a parte, sempre molto stimati dal cineastia: 1. Pierrot le fou di Godard, voti 4. 2. My Fair Lady di Cukor, voto 3; 3. Ascensore per un patibolo di Malle, voto 2; 4. Don Chisciotte sovietico, voto 1; 5. Mientras haia salud di Pierre Etaix, voto 0. Una classifica che è anche autoparodistica perché non tollera le gerarchie scolastiche (anzi si potrebbe perfino capovolgerla). Jerry Lewis (adoratore di Etaix) sarebbe molto dispiaciuto per questa apparente retrocessione, anche perché non manca in quel film una sequenza iconograficamente distorcente, come piacevano a Jordà, quando improvvisamente appare un volantino con su scritto: “si sospende la proiezione della pellicola fino al totale ristabilimento dell’ordine. Le autorità confidano che il buon senso della maggioranza non tarderà a imporsi sulle intenzioni sovversive dei pochi”. Per non parlare di quell’animale mangiapietre che vive a 10 metri sotto terra e che sembra proprio una creatura di Fontcuberta...

* L'articolo, pubblicato nel 2004 dal manifesto, è alla base di un intervento durante l'omaggio del Torino Film Festival 2006 a Joaquim Jorda, organizzato il 16 novembre da Nuria Vidal e Roberto Turigliatto, con interventi, nella sala Massimo 3,
di Nanni Balestrini, Jordi Balló, Edoardo Bruno, Daria Esteva, Isaki lacuesta, Laia Manresa, Marc Recha, Gloria Salvadó. Nel 2001 Martì Rom ha realizzato un documentario, Joaquin Jordà, dedicato al grande cineasta nato nel 1935 e morto dieci anni fa, nel 2006. Il film è stato prodotto dal Collegi d'Enginyers Industrial de Catalunya all'interno di un progetto volto a rendere omaggio alle grtandi personalità della cultura catalana dai musicisti Carles Santos e Josep Maria Mestres Quadreny al fotografo Catala-Roca, allo scrittore Joan Perucho, allo studioso di Picasso Josep Palau i Fabre, al musicista Riudoms Joan Guinjoan, alla scrittrice Marta Pessarodona, all'architetto e poeta Joan Margarit.