di Roberto Silvestri (*)
“Un marxista americano negli
anni 50 era come un marziano…” (Emile de Antonio)
“Prima di vedere Mr Hoover
and I, credevo che, più che un artista, Emile de Antonio fosse un
intellettuale coraggioso e radicale, un polemista pungente, un inestimabile
protagonista degli anni 60 e 70, anche se i miei amici non americani, le cui
posizioni politiche e estetiche stimavo moltissimo, lo giudicavano il più
grande e nobile documentarista che viveva in America”.
(Jonathan Rosenbaum)
"Non si vonce mai una guerra ingiusta" (Sam Fuller)
Ma il documentario non fa l’apologia di Eugene McCarthy, candidato della sinistra democratica, e politico estremamente particolare, alle elezioni presidenziali in Usa del 1968. E' piuttosto lo studio del fallimento di quella campagna elettorale - nata in maniera entusiasmante in New Hempshire e Wisconsin dopo il ritiro di Lyndon Johnson. Del perché di quella bruciante sconfitta finale alla Convenzione (mentre la polizia massacrava brutalmente chi manifestava fuori contro la burocratisissima vittoria di Hubert Humphrey e dei bonzi di partito) e di simili campagne ‘liberal’ di sinistra facilmente prefigurabili negli esiti (come quella, disastrosa, del 1972 di George McGovern).
La domanda che si pone inizialmente il regista del film è: ‘è possibile lavorare così, all’interno del sistema, per modificarlo’? Il filo di pensiero che attraversa il documentario, dopo essersi data una risposta (“no, non è possibile”) è: Eugene McCarthy che esige l’immediato ritiro delle truppe dal Vietnam, che ha costretto Robert Kennedy a inseguirlo e a mimarne il programma, è stata l’ultima speranza di uso del sistema elettorale per cambiare l’America, per poter intraprendere “una lunga marcia all’interno delle istituzioni”...
Forse oggi, anche dopo l’assassinio di Martin Luther King e di Robert Kennedy, e nonostante sia riapparsa una speranza, con la doppia vittoria di Barack Obama, centrista di sinistra, ma ben più egemonico e seduttivo, non è più possibile pensare di rompere il giocattolo soltanto dall’interno (la via crucis della riforma della sanità riaddomesticata lo ha dimostrato)…
Eppure il tono del film è ottimista, pop. Questo film, come Underground, fa parte della parte ‘positiva’ del cineasta (mentre Out of Order, e In the year of the Pig sarebbero nel blocco decostruttivo ‘negativo’). De Antonio è come McCarthy. Sono entrambi ‘fuori moda’. Sono due perdenti. Sono indipendenti e intellettuali ‘astratti’, sempre dalla parte ‘del torto’ e delle minoranze. E quella precisazione del senatore: “Ho Chi Minh non si può certo paragonare a Adolf Hitler” ci ricorda anche più recenti e sinistre dichiarazioni di un presidente di opposta sensibilità, Bush jr., a proposito dei modelli di Saddam Hussein. Con l’idealismo donchisciottesco non si vincono però le elezioni, soprattutto di fronte a un elettorato impaurito per la guerra, per lo sviluppo che lo ignora, per la mobilità sociale vorticosa che lo beffa, e per il ‘relativismo culturale’ che smantella efficacemente, pezzo per pezzo, l’identità religiosa e comportamentale e etica, fondamentalista e oscurantista, della ‘profonda America’ (quella che, lo raccontava Minervini in Louisiana, vuole giocare duro come si faceva nell'800, quando ogni presidente era un pescecane voglioso di divorare ogni concorrenza capitalistica, altro che donne).
Però si radiografa in quel film del 1970 anche un’America forte e antagonista che non utilizza tutta la sua potenza di fuoco, che forse saprà agire e reagire anche in modi ‘underground’ , nuotando a lungo sott’acqua. Come ricorda Haskell Wexler (nella monografia su de Antonio, curata nel 2000 da Douglas Kellner e Dan Streible) era quella la specialità subacquea di de Antonio, soprattutto dopo che l’onda forte del Movimento è diventata un ricordo, così come i beat, gli hippies, i maoisti, i simbionesi, l’lsd come programma minimo, le pantere nere e i Weathermen and women…
Martin Sheen in "In The King of Prussia" di Emile de Antonio (1982) |
Come gli aveva suggerito il suo amico e vicino di casa più zen, John Cage, spingendo de Antonio a lanciarsi nel cinema: "devi iniziare a avere paura solo quando sei sicuro di poter controllare tutte le tue paure". Il documentario ha però anche un tono classico: è cinema dei fatti e della persuasione, eccitante e didattico, secondo la lezione anni 40 di Grierson e prima ancora dei registi sovietici degli anni venti, e anticipando il più comico, a volte proprio farsesco, Michael Moore. Non fosse per il racconto di un punto di vista, in ‘prima persona singolare maschile’, del regista (che ‘parla’ quasi in dissolvenza incrociata sul candidato), con la rabbia, l'umorismo e l'intelligenza dei suoi antenati anni trenta, i membri marxisti dell' 'American Film and Photo League', senza però alcun uso della voce off a ipnotizzare o addestrare il pubblico alla giusta linea. Il metodo de Antonio è molto polemico con il 'cinéma vérité' dei colleghi Leacock e dei Meysles brothers (pur apprezzati per il contributo tecnico, parco luci maneggevole e sincronizzazione del suono, che hanno dato al cinema indipendente), che butta in evasione (o nel rockumentary, genere promozionale) dominando con la cinepresa - che esprime non cose vere ma la 'loro verità' - la povera gente infelice e debole, invece di confrontarsi, a quel punto, con attori veri, persone molto più difficili da plasmare e dominare.
Millhouse: a White Comedy (1971) |
Poin of Order (1962) su Joseph McCarthy, il cacciatore di rossi |
Rush to Judgment (1966) |
De Antonio, Haskell Wexler e Mary Lampson davanti ai Weather Underground (1976) |
"Vogliamo fare film non di colore rosa ma di colore sangue" (Manifesto del New American Cinema)
2. Credo che
oggi sia molto importante occuparsi, nell’Italia di Berlusconi e dei suoi succedanei,
di Emile de Antonio (padre cristiano torinese, madre cattolica lituana), uno
dei fondatori con Jonas Mekas del New American Cinema, il ‘cineasta della
Storia’, della consapevolezza dei processi autoritari non visibili a occhio
nudo da isolare, smascherare e combattere con tutti i mezzi necessari. Per
cambiare modi di vita, mercato e mondo. Ma soprattutto un filmaker capace di
scrivere con le immagini, come affermò il critico Jimmy Wechsler sul New York
Post: “lettere d’amore a Miss Libertà” (riferendosi al film sul maccartismo, Point of Order). I valori dell’ex cattolico de Antonio sono proprio quelli
che oggi troviamo dal raccoglitore di ferrovecchio: la compassione, la
coscienza sociale, la devozione alla giustizia...
Non solo perché, da comunista
perseguitato negli anni 50 e da militante di prima linea del Movement anni 60
contro la guerra del Vietnam, de Antonio riuscì a radiografare perfettamente
nei suoi collages (che tanto somigliano alla ‘propaganda appassionata’ del
cubano Santiago Roman Alvarez e tanto hanno ispirato Blob) la geografia
emozionale dell’America più oscena del secolo scorso, dal Maccartismo all’Fbi
di Hoover, da Nixon al doppio Reagan-Bush, ovvero la fenomenologia di una
potente ma malata democrazia che, schiacciata dagli interessi delle big company, del complesso
militare industriale e dalla droga assuefante della crescita del saggio di
profitto, e attraverso l’uso autoritario e spionistico dei media, della
pubblicità e del consumismo che incapsulava ogni nucleo familiare
nell’individualismo più celibe, stava lobotomizzato i suoi cittadini
illudendoli di far parte del migliore e più opulento dei mondi possibili,
invece che di uno spettrale e nauseabondo spettacolo di varietà razzista.
In the year of a pig (1968) |
Ma
perché de Antonio e la sua piccola grande band riusciva contemporaneamente a
risarcire e evidenziare l’esistenza vitale dell’altra America, quella
altrettanto potente forza antisistemica che fermò il segregazionismo razziale e
sessuale, l’aggressione in Vietnam, il genocidio in centro e sud-America e che,
da Wallace a Stevenson, dai Kennedy a Malcolm X, da McCarthy alle Black
Panther, dai Weathermen (and women) a Obama, ha ribadito, da sinistra, ora in maniera
liberal, ora radical ora ‘progressive’ e perfino rivoluzionaria, quasi sempre
perdendo (anche la vita) che cambiare resta però possibile. E ha ripreso il progetto
della ‘seconda carta dei diritti americani’ promulgata da F.D. Roosevelt nel
1944, promettendo ai suoi cittadini, anche poveri e non wasp, la lucida utopia
nietzschiana di ‘salute, casa e istruzione’ garantita per tutti e che tutti
devono pretendere.
De Antonio |
In Italia, periferia del
mondo, stiamo vivendo con decenni di ritardo, e gli anticorppi non sono stati
ancora trovati, un processo autoritario ‘virale’ simile e assai più drammatico
a quello dell’America anni 50 e 80. Il ‘maccartismo-spaghetti’, che in questi
mesi fiancheggia uno stato di polizia che alterna patologie razziali come il
‘reato di clandestinità’ alla ‘caccia
all’omosessuale, al rumeno o allo zingaro al giornalista, allo stipendio dei giovani, al comunista o alla
‘escort che parla troppo’, sta spadroneggiando in una democrazia resa ancora
più fragile dalla presenza perversa di un padrone dei media e del parlamento
spudoratamente orwelliano. Anche in Italia la virtù si misura dai soldi che
hai, i ricchi sono i soli virtuosi, tocca ai poveri servirli…. Non siamo più
solo al trionfo dell’arte della pubblicità, e della sua tecnica di lavaggio dei
cervelli, ovvero all’apoteosi dell’arte ‘di non dire assolutamente nulla’, al
primato della tecnica sui contenuti, dell’offesa sul ragionamento, della
violenza fisica sulla mediazione e il dialogo, del giustizialismo sulla
politica, della censura preventiva e fanatica su ogni ipotesi di democrazia che
si basa sulla partecipazione nopn solo elettorale, sul rispetto delle minoranze, sull’uso pluralista dei territori
comunicativi e sul rispetto dell’altro e del ‘fatto’. Il pubblico dei
telespettatori, che ormai trova le immagini della guerra confortevoli, se
montate tra due spot pubblicitari, non si deve chiedere più: ‘perché noi stiamo
facendo tutto questo in Iraq o in Afghanistan o in Yemen o in Siria?’. Non è più un
cittadino o, peggio, un elettore che pensa. Ma si illude di farlo. E’ puro
zombie teleguidato e addestrato dai media a proferire solo opinioni di ‘senso
comune’, terrorizzato dal ‘buon senso’ e dal ragionamento individuale, e
omologato a mode, consumi, comportamenti morali e tabù preconfezionati. “Noi
oggi abbiamo la censura dei padroni. Chi domina il paese domina i media –
scriveva de Antonio – Non è più ‘il medium è il messaggio’. Ma: “chi possiede
il medium possiede il messaggio”.
Emile De Antonio |
"Imporre una narrazione è un gesto fascista" (De Antonio)
3. Non
filmare la verità, non imporre una narrazione, ma una ‘linea di pensiero’. Non
farsi domande, ma considerare importanti le risposte che ci si dà, e il modo di
manipolarle. La verità nell’arte è
interiore, personale. E si offre al giudizio non degli esperti ma di tutti, una
volta che è messa in forma. Certo. Le idee rivoluzionarie vanno espresse in
forme nuove. Ma non se sono solo esercizio masturbatorio. O, come si dice di
Dogma, non si può riprendere con la mano destra e masturbarsi con la mano
sinistra….Non se sono solo grida di angoscia.
Se non esprirmono un ‘punto di vista’.
Se de Antonio non è stato un
affiliato della gang del ‘cinema diretto’ o del ‘cinema-verità’, cos’è stato
questo gigante del documentarismo politico americano lontanamente torinese (e
Turin Film Corporation si chiamava la sua società di produzine)?
Quale
l’originalità e importanza di un filosofo marxista laureato a Harvard, gran
edonista e bevitore (Drunk è il titolo del film di 66’, inedito, che l’amico
del San Remo Café, Andy Warhol, ha girato con un de Antonio super star nel
1965), capace di affermare che ‘imporre una narrazione è un gesto fascista’?
Con chi si può accostare (con il solo Robert Kramer? con Alberto Grifi?), chi affermò che tutti i film di Hollywood sono prodotti industriali come i Twinkies, le merendine d'America, e che
se didattica ci deve essere al cinema deve essere ‘democratica’, suggerire i
perché di un fatto, muoversi al di là delle apparenze, ‘fare in modo che il
pubblico arrivi da solo alle stesse mie conclusioni’ ?
Il dvd Usa con quattro film di de Antonio |
Filmmaker indipendente e
‘leggero’ per eccellenza (non possedeva neanche un suo equipaggiamento
tecnico), ‘un tipo anarchico che va a ruota libera’, come si definiva, Emile de
Antonio, detto dagli amici “D”, aspettava sempre dal pubblico una ricezione
intelligente, la capacità costante di mettersi in discussione. Non avrebbe mai
semplificato i suoi film o fatto concessioni di nessun tipo: “Il solo vantaggio
che ho nel realizzare film a basso costo è, a parte l’equiparazione con i
cineasti del terzo mondo (‘dobbiamo fare film come se vivessimo nel terzo mondo
e avessimo quel punto di vista”), che almeno non raggiungo il pubblico che
Hollywood raggiunge”. Faceva però ‘appello alla ragione’ (proprio questo questo
era il titolo di un famoso periodico socialista, anche satirico, di fine
ottocento, quello preferito dal padre di Walt Disney) e alle emozioni della
platea. “Non voglio insegnare niente, voglio svelare”. In fondo conosceva bene
il piacere collettivo di fare e di vedere film, perché i suoi primi passi nel
mondo del cinema (che non amava ancora quanto la pittura) - lui che considerava
John Ford un regista tanto quanto Gerry Ford uno statista, “perché la maggior
parte dei film americani sono fatti come alla Ford, in catena di montaggio”
- li aveva compiuti proprio da
distributore di due mediometraggi a basso costo che lo avevano ammaliato, Pull
My Daisy di Robert Frank (1959) e Sunday di Dan Drasin (1961), sulle rivolte
di Washington Square, che aveva anche prodotto. Due capolavori, degni del suo
film preferito, L’Age d’or, che tutti i newyorkesi ‘avrebbero dovuto
vedere’. Faceva film con la speranza di
sollevare emozioni e passioni e “svelare alle persone cose o sensazioni che non
hanno mai conosciuto prima”.
Dvd Usa di "In the year of the pig" |
de Antonio in Film Forum di
Ellen Oumano, 1985)
Certo il cinema è un’arte
sociale, e per un marxista come de Antonio anche frutto di un lavoro
collettivo. Molti furono i giovani e le giovani cineaste (soprattutto della
comunità black o ispanica) che vennero assunti da De Antonio. Che oltre alla
breve parentesi del New American Cinema firmò tra il 1989 e il 1990 anche il
manifesto ‘per un cinema dal basso budget ma dalle alte ambizioni’, assieme
all’etiope Haile Gerime, al californiano nero Charles Burnett e a Jacqueline
Shearer, Allan Siegel e Jack Willis. Però la loro unità produttiva, The Film
Collective Inc. ebbe breve vita.
Ma Mister D ha sempre voluto
affermare di aver girato documentari prima di tutto per se stesso (e per i
pochi giovani, inesperti collaboratori creativi alle prime armi, vogliosi di
farsi le ossa, e che lui metteva sotto contratto, spesso senza autopagarsi). E
siccome era tanto un ‘comunista (senza party)’ quanto un cineasta fortunato nel
trovare budget (riusciva a coinvolgere magicamente sempre finanziatori
entusiasti, ricchi e ‘libertari’), le sue opere erano fatte anche per il
pubblico: l’obiettivo era ‘ricrearle’ assieme a lui, seguendo il metodo
postumano Duschamp della creazione, per crash, dell’esperienza d’arte, unica
via per innestare, istigare e produre irreversibili ‘cambiamenti’.
Arrivato tardi al cinema, a
40 anni firma Point of Order, D si annoiava per gli aspetti tecnici di un
film, anche se si eccitava molto quando, prima di montare i suoi film e
pianificare le sue interviste, visionava, spesso con la montatrice e fonica
Mary Lampson al fianco, ore e ore di materiali di repertorio a caccia di
parole, espressioni, immagini inusuali che avrebbero costruito il senso e il
senso in più dei suoi ritratti interiori dell’America e dei suoi mali e delle
sue grandezze sepolte, negli archivi newyorkesi Upi, Hearst o Paramount/Abc
(chi volesse poi vedere dove finiva tutto quel materiale preselezionato, e dove
dava forma alle sue creature, deve andare a Manhattan, tra la undicesima e la
dodicesima avenue, nel Movielab Building, dove aveva affittato due sale
montaggio…).
4. “Tutti i
miei film sono film-collages. Classici collages”
(Emile De Antonio)
America Is Hard to See è
dunque un film sul fallimento della scalata ‘liberal’ al potere….Come è duro
‘cambiare’, nel paese di dio. Millhouse (1971), il doc di de Antonio che seguì,
quasi parallelamente, la campagna elettorale del partito repubblicano e del suo
leader di destra, Richard Nixon, possedeva molta più forza umoristica e
sarcastica (quasi alla Marx Brothers, e così venne lanciato nei flani) del
predecente, che andò molto male, non fu neanche
un oggetto sperimentale e originale come gli altri, né fu mai
distribuito. E perfino il mensile barricadiero di estrema sinistra Cineaste,
appena nato, non ne fu entusiasta (‘tedious’, e materiali di repertorio
‘ripetitivi’, ‘montaggio senza immaginazione e struttura’, scrive la critica
Joan Mellen nel 1971)…
Nel 1968, l’anno dei porci,
tutto il mondo, cioè il movimento studentesco antagonista, tifa per il
democratico più che liberal, quasi ‘radical’ Eugene McCarthy (come farà nel
1972 con l’altro candidato che, questa volta, arriverà allo scontro sulla
presidenza, McGovern, perdendo), che si presenta alle primarie democratiche per
la presidenza degli Stati Uniti contro Richard Milhous Nixon.
Verrà sconfitto, prima ancora
dei repubblicani, dall’establishment del suo stesso partito democratico, dai
professionisti che scoraggiano la presenza diretta dei cittadini alla
vita partecipata del paese, anche perché McCarthy è un outsider, un uomo
politico atipico e ‘movimentista’, troppo ironico, meditabondo e intelligente
per vincere la convenzione di Chicago, contro il vice presidente di Johnson,
Humphrey, l’uomo dell’apparato, dei poteri
forti (come si dirà di Hillary) e del sindacato. E sarà dunque il trionfo del ‘nucleo forte’ del
partito, guidato a Chicago dal sindaco, figlio di sindaci e nipote di sindaci,
Richard Dailey, contro ogni posizione estremista.
Intanto il movimento
studentesco, fuori dal Palazzo, si scontra violentemente e ripetutamente con la
polizia, nella notte della definitiva sconfitta del movimento nato a Berkeley
nel 1964…ci saranno pestaggi e arresti eccellenti di tutto lo stato maggiore
del Movement, da Jerry Rubin a Tom Haiden, da Bobby Seale a Abbie Hoffman. Ma de Antonio non dedicherà molto tempo al fuori, concentrandosi sul ‘dentro’, sulla contestazione stupefatta della burocrazia esiziale americana che va
placidamente alla sconfitta. Il suo stesso entusiasmo politico (della prima
parte del film, costruito con interviste e materiali di repertorio) per il
pupillo McCarthy viene progressivamente meno. Anche se alla fine è la
bancarotta del Partito dell’asino, incapace di rispondere alle domande del suo
elettorato, ad essere analizzata, criticata e presa maggiormanete in giro, anzi
mostruosizzata. Il mostro centrista e
moderato quando non è tempo per essere centristi e moderati. Biblicamente, c’è
un tempo per tutti….
L’obiettivo politico
principale della candidatura di McCarthy era stato infatti quello di fermare
immediatamente l’aggressione militare in Vietnam. Il profilo politico del
senatore del Minnesota McCarthy, i suoi discorsi, le primarie vittoriose in New
Hampshire, la scesa in campo del senatore Robert Kennedy, poi assassinato, e i
caotici avvenimenti di quei mesi, montati vorticosamente da Mary Lampson, dalle
rivolte dei ghetti neri e nelle università all’omicidio di Martin Luther King,
sono l’argomento di questo quinto suo film, che ruba il titolo a Robert Frost, da un poema anticolonialista su Cristoforo Colombo pubblicato nella raccolta In the Clearing (1951). Il
documentario dura 101’ (ma una versione, pur con l’aggiunta di una sequenza a
colori, rimontata nel 1988, dal titolo 1968: America is Hard to See, con la
voce fuori campo del regista, è ridotta a 90’) ed è prodotto dalla Turin Film
Co. e dalla March Twelve. Intervengono nel film, che si avvale di interviste e
materiali di repertorio, oltre al senatore Eugene McCarthy, il compositore e
direttore d’orchestra Leonard Bernstein, l’economista John Kenneth Galbraight,
che appoggia McCarthy, i politici di primo piano Richard Nixon, Lyndon Johnson,
il vincitore Hubert Humphrey (di cui si ascolterà il discorso d’accettazione),
Robert Kennedy e il sindaco Richard Dailey, l’attore e militante politico Paul
Newman, e inoltre E.W. Keinworthy, Richard Goodwin (manager della campagna di
McCarthy), Martin Peretz (l’editore di New Repubblic e produttore esecutivo
del film), i supporter Arthur Miller, e poi David Hohe, Gerry Studds, Sam
Brown, Arthur Herzberg, Geoffrey Sperling e Curtis Guns. Tra i collaboratori di de Antonio Allan Siegel (poi documentarista per la Third World Newsreel), Mary
Lampson (montaggio, poi lavorarerà con Barbara Kopple nel doc Oscar Harlan
County e con lui in Underground), Richard Pearce (operatore), Stephen Ning, Lori Hiris. La prima si
svolse a Hanover (New Humpshire).
5. “Le
uniche società che fecero soldi a palate durante la depressione furono le
compagnie cinematografiche” (Ellen Oumano, Film Forum 1985).
Appunti sparsi, qui. Con De Antonio John Cage
ha girato un film biografico in cucina, raccontandosi mentre il dio dell'alea fa il cuoco. E' il suo ultimo, nel 1989, Mr Hoover and I (che poi il feroce boss dell'Fbi perseguitava come nemici pubblici numero uno dell'America proprio i 5 ragazzi e ragazzi Wheater...). Cage era il suo vicino di casa a Rockland County,
stato di New York, dove De Antonio viveva con la terza moglie, ubriacandosi in tre spesso
("Cage, la persona più importante della mia vita, dopo mio padre") e, da
buddista zen quale era, e come abbiamo già scritto, fu lui a spintonarlo verso la produzione, a osare, a
buttarsi e a realizzare Point of order,
visto che nessuno se la sentiva, neanche, contattato, Orson Welles, che forse
non aveva capito bene il progetto suo e di Dan Talbot.Questo e tutto il resto che vi interessa su De Antonio lo troverete in un libro curato da Federico Rissin che si intitola American collage-Il cinema di Emile de Antonio (2009 Agenzia X) che costa12 euro e fu voluto da Film-makers.
"Credo nel lavoro indipendente con il controllo totale del proprio materiale" (Emile de Antonio)
“Per esempio sapevo molto
sulla struttura dei quadri, mentre ero relativamente innocente - confessò De
Antonio - sul cinema, e non credevo che fosse una brutta introduzione. Quello
che succede nelle scuole di cinema è che la gente impara così tanto sulla
tecnica da dimenticare che scrivere un libro o girare un film ha molto più a
che fare con le tue convinzioni, sensibilità, concetti, passione e la voglia di
esprimere se stessi, piuttosto che di far funzionare un meccanismo”.
C’è un pezzo sul sound a
proposito di Point of order che è il
primo doc senza voce off, narrativa. Poi parla delle interferenze che a lui
piacciono (per esempio in Painter
painting lascia nello studio di Jasper Johns la radio acceso mentre il
pittore spiega la sua pittura, perché lo spettatore deve voler capire, anche se
ha difficioltà. “Non ho niente contro il cinema di intrattenimento ma io non
voglio farlo”. A proposito del film sul Vietnam parla di missaggio di mix dei
differenti suoni dell’elicottero. Sembra già Stockhausen, e Apocalypse now di Coppola.....
* rielaborazione di un articolo scritto nel 2009
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