venerdì 12 gennaio 2018

Grazie cugginu. La guerra dei cafoni. E come distruggerli per sempre.

Lu cugginu. Il giustizie della notte del film 
Stasera e domani all'Apollo 11 di Roma da non perdere

Roberto Silvestri

La guerra dei bottoni, certo. I ragazzi della via Pal, pure. Chi non ha fatto parte di bande da piccolo? Mods e rokers, poveri drastici contro poveri in stato d’allarme. Straccioni fieri di esserlo contro straccioni ripuliti che non si compiacciono della loro degradazione. Le pink ladies di Grease… Raramente poveri contro ricchi. Ma di tanto in tanto si fanno incanti e tradimenti. Epici e poetici. La grande tradizione dei paladini e dei saraceni. Degli ariani e dei caucasici. Del cinema di prosa che si inquina con il cinema di poesia.


Prendete una spiaggia elegante del sud, tallone d’Italia. Immaginaria. Chiamata Torremata. Fatene uno spazio astratto formato dalla confluenza di Manduria / Cesarea Terme / Otranto / Torre Guaceto / Vernole / Torre Chianca / Melendugno / Grotta della Monaca. Perché la segnaletica turistica è vera e vegeta. Se ci fosse l’odorama, si sentirebbe il profumo nordico, in senso barese, di Nico Corasola, delle sue masserie, dei suoi olivi, dei suoi pozzi, del suo tufo, del suo mare, delle sue viti, delle sue barche (qui fotografati da Duccio Cimatti, con adorazione degna del governatore Emiliano).

Prendere la parola e riprendersi il desiderio di urlare 
Ci sono le torri spagnole del 500 lungo tutta la costa salentina. E ci sono i bunker nazisti sradicati, ma sopravvissuti alla seconda guerra mondiale. Come allora. Ma c’è gente, ancora oggi, che non ha problemi a pagare 50/100 euro al giorno per ombrelloni e lettini. Tutti gli altri si mettano attorno, al di lù del “muro”. Gratis. Appollaiati sulle rocce. A guardarci. Per esempio vicino a Otranto. Dove Ennio Capasa e Costume Nationale hanno la sua beach-chic. Si chiama sudore di classe. Tutto, però, viene affogato dalla musica sparata a oltre 90 decibel per la delizia dei bagnanti (borghesi o meno). Nessuno si lamenta… Le orecchie non hanno più coscienza di classe.



Si aggira nelle sale italiane di primavera uno strano e indecifrabile film-commedia, o film-fiaba, o film-lotta-di-classe, o film-Giffoni, o film-romanzo di formazione, o film-Romeo&Juliet, d’ambientazione balneare salentina da delirio di film commission, diretto nel 2015 da una coppia di registi molto amati negli ambienti underground e del cosiddetto cinema del reale, Lorenzo Conte e Davide Barletti, al loro secondo lungometraggio di finzione, 10 anni dopo Fine pena mai. E da tempo non leggevamo recensioni così libere e penetranti, poetiche e argute, capaci di risalire il corso del Mito, dell’acqua, del fuoco, della terra, su una nostra produzione (che ha già conquistato molti festival europei importanti, come Rotterdam).

La Mela della discordia 
Già questo è sintomo di un oggetto d’affezione che si colloca nel “fuori schema” e fa bollire le penne. Non è cinema carino. Non è commedia da prime time tv. Non è la scoperta di un nuovo comico. Niente di tutto quello che vediamo di solito.
La guerra dei cafoni, intanto, è il suo titolo. Fuorviante. Perché di cafoni ne abbiamo talmente fatto indigestione da oltre 20 anni in tv e sulle radio pubbliche e private, dove si sono arrampicati fino ai vertici creativi, e regnano a Sanremo, che l’idea di vederceli glorificati e addirittura romanzati sul grandissimo schermo turba non poco. E’ un promemoria per il pubblico, certo, ma potrebbe sembrare controproducente. Se.


Però qui si tratta di cafoni in senso stretto, “classico”, pre-pasoliniano catapultati quasi ai giorni nostri (c’è un flipper Williams, addirittura… un’Ape, un culto demodé per le bandiere rosse o nere … insomma siamo alla metà degli anni 70, della vil razza pagana, dell’operaio-massa che vuole tutto e subito, qui rappresentato dall’incursione feroce del Cugino (lu Cuggino è Angelo Pignatelli) operaio contro il lavoro, con la grana, che rompe, definitivamente, crudelmente, sadianamente, il balletto del consociativismo imperfetto tra le due società che si prendono a pietrate ma in fondo rispettano le rispettive collocazioni.

Davide Barletti (a destra) e Lorenzo Conte (a sinistra) 
E si tratta della versione cinematografica di un romanzo omonimo scritto da Carlo D’Amicis e pubblicato da Minimum Fax (13 euro), la casa editrice resa celebre per aver scodellato in Italia la narrativa americana contemporeanea minimalista e per alcuni magnifici saggi e interviste sul grande cinema hollywoodiano e non. La vendetta, o giustizia proletaria, nel film non viene vista con simpatia. Salvo essere responsabile (post hoc ergo propter hoc) di una serie di avvenimenti miracolosi e benemeriti (la resurrezione del cane, l’epifania del santo pescatore, l’esplosione dell’energia sessuale tra i giovani….), la definitiva messa in soffitto del rispetto tra le classi, ovvero della sottomissione di una all’altra.

Tonino e Scaleno
Minimum Fax, ormai attiva nel business audiovisivo (suo anche il bel doc Blow up su Blow up di Valentina Agostinis) più Rai Cinema, più Amedeo Pagani (prestigioso produttore salentino), più Apulia Film Commission, più una ritmica impostata dal montatore più punk che abbiamo, Jacopo Quadri, e una colonna sonora dalle suggestioni zingaresche e balcaniche di David Aaron Logan, espellono dall’inquadratura ogni arricchito mal ingioiellato, e regalano i primi piani ai soli ragazzi, ai teenager. In banda, da soli, in duetto, in terzetto… Rissosi o innamorati. Riflessivi o infuriati. Incorporati nel reciproco lignaggio o pronti all’esodo e alla fuga definitiva. Insomma. Come succede abitualmente nelle produzioni scandinave e del nord europa (ma qui sembra scandaloso) il film è in mano completamente ai  dodicenni e alle loro energie desideranti (in questo senso il grande attore dell’intero lotto, la rivelazione del film è sicuramente il piccolo Piero Dioniso nella parte di Tonino innamorato perso della solare Sabbrina, Alice Azzariti che come tutti gli altri ragazzi del film tranne Tonino ha accettato una postura brechtiana, rigidamente non espressiva).

Pasquale Patruno (Francisco Marinho) il capo dei ricchetti 
Insomma. E’ un apologo per adolescenti. E oltretutto per metà questi ragazzi sono figli di braccianti, pescatori e poveri. Che parlano una certa quantità di indecifrabili lingue e slang pugliesi, non solo salentino. Inaudito. Non ci fossero i sottotitoli. L’altra metà sono i borghesi del leccese. Altrettanto incomprensibili, per l’idioma. Non poco odiosi e razzisti, come i loro progenitori (in cameo Claudio Santamaria ci ricorda di che pasta etica criminale erano fatti i latifondisti della zona, che poi diventavano ministri come i Malfatti, i Codacci Pisanelli, i Reale…).  Quelli che abitano a Lecce. Quelli che non tifano Lecce (squadra amata dalla sola provincia, di cui porta i colori). Che sono cosmopoliti (e juvetini nei colori), che adorano Francisco Marinho, quel terzino del Botafogo e della nazionale brasiliana piuttosto indcile alle discipline, e molto attratto dalle sostanze proibite, che litigava con il suo portiere perché, troppo visionario e avveniristico, interpretava il suo ruolo, allora, come un tornante sempre all’attacco, come Stephan Lichsteiner oggi. Dunque Francisco Marinho (Pasquale Patruno) è il capobanda dei ricchi. Scaleno (Donato Paterno) il suo avversario, povero ma leale.

la banda dei poveri 
Letizia Pia Cartolaro (Mela) la donna che ha altri sistemi di una violenza più sottile e mediata, per scompaginare le carte sul tavolo. Ma mai così rosselliniano come il training de Lu Cuggino. Prendere la parola. Osare urlare al vostro nemico chi siete. Mai più prendere il cappello in mano, imbarazzati e sottomessi. Quella scena vale tutto il film. E popi, postilla. Il cinema italiano, per avere finanziamenti, era obbligato a inserire un cane e un prete. Se no via della Ferratella urlava. Adesso finalmente i cani si possono uccidere e i preti vengono tenuti ben controllati nel fuori campo. Giusto a dare qualche assoluzione off. Certo poi i cani risorgono. Ma non possiamo mica davvero essere ancori rivoluzionari drastici, no?







giovedì 11 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Lettura "official" e lettura "provisional"


Midred (Frances McDormand) in azione 


Roberto Silvestri
Una mamma bianca, Mildred Hayes, chiede da mesi giustizia per la bionda figlia quindicenne, stuprata e bruciata viva una notte di ormai troppi mesi fa. Passa il tempo e… nessun indiziato, nessun denunciato, nessun arresto.  Rabbia e dolore.
Così, come avrebbe fatto Judy Holliday tanti decenni fa nella metropoli, Mildred affitta allora per un anno tre cartelloni pubblicitari giganteschi fuori città e fuori vista, dove incolpa con nomi e cognomi gli inetti inquirenti: “Stuprata mentre moriva”; “Ancora nessun arresto” e “Che fai sceriffo Willoughby? 
L'atto, megafonato in tv, genera scandalo e polemiche crescenti, non solo tra i rozzi poliziotti piccati ma nell’intera comunità perché lo sceriffo è una persona seria, un padre di famiglia rispettato, onesto e scupoloso (oltretutto in fin di vita per un cancro). Non inventa mostri da sbattere in prima pagina, come di solito si fa. Ma l’impasse e l’ostilità che circonda la donna, minacciata e colpita subdolamente nelle amicizie più care, accentua il suo furore vendicativo psicotico, da “giustiziera della notte”, causato anche dai sensi di colpa (per un litigio quella notte fatale Mildred aveva negato l’auto alla figlia), dai crescenti conflitti con l’ex marito, che l’ha lasciata per una diciannovenne dalla bellezza dell’asino, dall’incomprensione del figlio e dall’odio che le riserva il cop Dixon, uno dei personaggi cattivi più affascinanti e sfaccettati del recente cinema, innamorato com'è dello sceriffo Willoughby e che lei crede abbia bruciato i suoi (costosissimi) manifesti.
Così la vecchia signora indegna buca un dito con il trapano al dentista nemico, picchia due liceali, incendia con 5 molotov (imitando un black block) la centrale di polizia e brucia quasi vivo, ma involontariamente, quel razzista di Dixon, minaccia con una bottiglia di vino bianco semipiena l'ex marito e resta gelida di fronte al fatto che lo sceriffo si fa saltare le cervella. Però fa crescere tanti fiori rossi sotto i suoi cartelloni pubblicitari  (come se fosse Morgan matto da legare nel film di Karel Reisz) e un giorno viene a farle visita proprio lì sotto un piccolo Bambi sperduto.
il regista irlandese Martin McDonagh

Tre manifesti a Ebbing, Missouri, il film (irlandese) del momento, in uscita anche in Italia, si può raccontare anche in altri tre modi.

Mildred, una signora sessantenne con  tuta da metameccanico incorporata, combatte sola contro tutti,  polizia compresa. Ma questa donna è uguale a John Wayne. Cammina come lui. Guarda come lui.  Implacabile per il 99%. Tenerissima per tutto il resto. Non lotta per sé stessa e per la sua famiglia. Che anzi si defila. Ma per un principio etico.
E anche. Una riflessione acida sulla sindrome Barack Obama President e i suoi effetti boomerang sull'immaginario sadico del profondo sud. Però il film è stato scritto otto anni fa….
Infine tre manifesti contro: il machismo, la violenza alle donne e il femminicidio, riprendendo il discorso da Coraggio… fatti ammazzare, 1983, Clint Eastwood: “solo violenza aiuta dove violenza regna”.  Un caso di stupro e uccisione lì. E qui. Just in time.
Frances McDormand e Harry Harrelson (lo sceriffo Willoughby)
In genere i britannici che si impicciano troppo delle interiora America vengono guardati con antico sospetto. A Hitchcock non è mai stato consegnato un Oscar. E diffidano anche degli europei. Quando Roberto Minervini e Gianfranco Rosi hanno indicato troppi nervi scoperti in Usa sono stati snobbati. Però adesso le cose stanno cambiando. Perfino nelle terre dei redneck. C’è un nemico interno e potente, pericoloso e imprevisto. E allora. 
Il baricentro del film di Martin McDonagh è infatti la scena della cacciata di padre Montgomery dalla casa di Mildred. Una sequenza che si ispira a un film precedente di suo fratello, John Michael McDonagh, Calvario (2014), in cui un prete buono viene minacciato di morte come capro espiatorio per essere stato abusato da un prete maniaco, e che andrà di traverso, in Italia, a tutti coloro che trovarono il teorema Calogero digeribile, anzi ingegnoso. Quella dove Mildred, per rintuzzare una predica fuori luogo, fa un ardito parallelo tra chiesa cattolica e “Crips & Bloods”. Attenzione. Da come si interpretano le leggi di emergenza, e questa scena, si aprono per lo spettatore due vie opposte di ricezione.
“Se per sbaragliare quelle pericolose bande di Los Angeles (costrette alla criminalità dalla desertificazione sociale e economica pianificata dalle big company per distruggere i quartieri african-american e approfittarne urbanisticamente ndr) si incriminarono tutti i membri di quelle gang per i delitti commessi solo da uno o alcuni di loro - sostiene Midred - perché non applicare lo stesso bizantinismo oggi contro i sacerdoti cattolici (una conventicola che ugualmente lotta contro la desertificazione spirituale con ogni mezzo necessario, no?) visto che un bel po’ di preti si sono resi responsabili di crimini giudicati altrettanto abominevoli e per di più sono stati protetti dalle alte gerarchie per decenni?”. Isomma prete, fuori da casa mia. 

Se si stracciano platealmente i principi etici dello stato di diritto (quel che fa l’Italia quando chiede l’estradizione di Battisti, imbarazzando i giuristi brasiliani) ogni mezzo necessario, pacifico e non pacifico, deve essere usato dal cittadino consapevole per ristabilire un patto di convivenza civile. Se no – fa capire indirettamente Mildred - si assiste inermi alla fine della direzione democratica e al sopruso del dominio di governi illegittimi che, proprio come succedeva nell’Ottocento, erano guidati da giganteschi magnati tesi solo a eliminare la concorrenza piccola, media e grande e a gonfiare i propri profitti. Contro questi governi e chi li rappresenta qui nella mia cittadina – dice Mildred - non si può che essere duri e spietati. Quando il gioco si fa duro….
Da una parte allora si glorificherà Mildred come simbolo dell’individualismo celibe e della cattiveria liberista, tanto alla moda oggi tra i fanatici del polically uncorrect. Quella di qualunque libertarian, né di destra né di sinistra, convinto che uccidere con le proprie mani chi attenta ai grandi principi, proprietà privata compresa, non sia vendetta ma giustizia. E si scambierà Mildred per Olive Kitteridge, la protagonista anti politica della serie omonima diretta da Lisa Cholodenko nel 2014.
Dall’altra si ammirerà in Mildred una sorta di giustiziera Marge o di Mildred Pierce mai doma, e assolutamente scandalizzata (e non gongolante come Bannon) dal fatto che lo stato si è estinto, lasciando ai più rapaci il campo libero e senza legacci e impedimenti. Il simbolo stesso, quasi rooseveltiano, della liberazione indisciplinata dalle gabbie ottuse della bigotteria della comunità wasp e della riconquista di un campo etico comune incurante dei valori dela tradizione (imperituri e errati), proprietà privata e dominio sui figli compresa. Insomma secondo questa interpretazione Mildred (che non è poi sola nella lotta perché la comunità african american e i “diversi” sono con lei) è il ritorno della politica dal basso contro l’antipolitica.
Io sono per questa seconda lettura (*).

Anche perché il regista del film Martin McDonagh, al terzo film dopo In Bruges e 7 psicopatici, ha 48 anni e dalla sua filmografia e da una serie di dettagli e sottintesi di questa opera (il più importante sottinteso riguarda una certa copertura imposta dai piani alti al presunto colpevole del crimine efferato) si comprende che ha ben metabolizzato il recente passato storico, dal Vietnam all’Iraq. E fa capire che più pericolosi dei Crips e del Vaticano è la gang dei generali che cercarono di coprire Abu Ghraib. Oggi troppo promossi. Finora i suoi lavori erano tutti incentrati su personaggi maschili (Colin Farrell e Brendan Gleason) ma questa volta con la mascolinità ha esagerato.  Mildred ricorda infatti, più che gli ecoterroristi del film di Kelly Reichardt Night Moves (2013), più del pastore protestante impazzito di verità in First Reformed, un altro super mito macho, Gary Cooper che con la dinamite fa saltare i palazzi da lui progettati e orrendamente costruiti in La fonte meravigliosa di King Vidor. 


Grande successo mondiale (4 Golden Globe, 8 candidature ai Bafta e tra i favoriti all’Oscar) e ben tre applausi a scena aperta (quando l’esibizione di umorismo nero diventa esibizionismo punk) in occasione della prima mondiale al festival di Venezia 2017, Tre manifesti a Ebbing, Missouri che ha vinto il Leone d’oro per la migliore sceneggiatura, è una tragedia (o una commedia nera e obliqua)  dedicata platealmente a Shakespeare e a Oscar Wilde, e ai bruciati vivi innocenti di tutte le guerre d’aggressione. Ma è ambientata oggi nel cuore d’America, anzi nello stato più sudista di tutti, il Missouri. “Stato carogna”, secondo il Naacp, che sconsiglia agli african-american di recarvisi, come se fosse l'Iraq, se non “a proprio rischio e pericolo”. 
Peter Dinklage e la "bombarola"
Three Billboard Outside Ebbing, Missouri, scritto e diretto a tratti con scioltezza comica imprevista, da un drammaturgo pluripremiato (e che ci sembra un Sam Mendes di sinistra), è innanzi tutto una sfilata di attori supersonici, tutti in odor di premi a ripetizione: la rediviva Calamity Jane è Frances McDormand, era la poliziotta incinta Marge di Fargo, fantastica quando riesce a liquefare un perenne ghigno stampato in faccia, da antisociale drastica, che scandisce il suo secco “preferirei di no”. Come si fa a non essere manieristi recitando con lo stesso timbro per tutto il film resta un mistero. Certo Frances che viene dal teatro newyorkese underground non frequenta la macchina hollywoodiana e i suoi tic recitativi e esistenziali. Il film è proprio stato cucito e imbastito sul suo corpo. Poi uno strepitoso Sam Rockwell che è Dixon, l’agente della polizia locale diversamente geniale, di fuori ottuso e di dentro “diverso”; il “rosso” è Caleb Landry Jones, e affitta a Mildred gli spazi pubblicitari per i suoi tre manifesti “di fuoco”, mettendo a repentaglio la sua vita, perché il mercato sa essere meno statico dei pregiudizi della comunità; l’ispettore di polizia “che sussurra ai cavalli” è un Harry Harrelson mai così poetico e inverosimile capace di occuparsi della comunità con la stessa dolcezza e sapienza con la quale tiene a bada le sue due bambine scatenate; la mammina nazi di Dixon è una Sandy Martin di ghiaccio e il nano inguaribilmente “innamorato infelice” è Peter Dinklage. Nani, gay, neri, Mildred. Sono loro, gli emarginati, che spostano il sistema nervoso del paesello sperduto nel nulla, addormentato in un rude paesaggio ex western. Mentre una banda di poliziotti si vanta di torturare “la gente di colore”:  “mai dire nigger, perché negri è espressione razzista”. 

(*) Ovviamente non siamo più ai tempi di Robert Aldrich che pretendeva per i sui film solo critiche politiche. E il regista irlandese intervistato da Sight and Sound (gennaio 2018) a proposito delle implicazioni politiche del film, così come è di moda si schernisce: "no, non  potevo fare otto anni fa alcuna allusione ai tragici fatti capitati in Missouri negli ultimi due anni". E aggiunge che non condivide troppo la speranza che c'è nel film, "quella luce alla fine del tunnel". E' molto più pessimista: "C'è molta rabbia e disperazione in questo paese, oggi". Per quqnto riguarda il titolo ricordiamo che l'esercito clandestino dell'Ira si divise verso la fine degli anni 60 in Official (socialisti) e Provisional (più cattolici che socialisti).

venerdì 5 gennaio 2018

TOP FIVE LA CLASSIFICA (IMPOSSIBILE) DEI MIGLIORI FILM DEL 2017

A Ciambra di Jonas Carpignano


di Roberto Silvestri

Radio Onda Rossa come ogni anno chiede a un mucchio selvaggio di critici italiani (per lo più uomini perché radio onda rossa non rispetta il politicamente corretto e le quote, per far piacere a Tom Wolfe, il rapporto è 12 a 3) quali sono i cinque migliori film del 2017 usciti regolarmente nelle sale, anche off off. (*)
Spielberg e prima ancora Welles ci hanno però sempre messi in guardia da questo giochino utile semmai a ricordare e riassumere l'annata, e spiegato che l'arte non ammette classifiche generali, alla faccia dei grandi festival (Cannes, Berlino, Rotterdam, Venezia, Toronto, Locarno e Telluride) e delle loro giurie di super star, e checché ne dicessero ad Atene i fan delle olimpiadi culturali.
I film potrebbero essere sì giudicati da esperti esterni, teorici e critici d'arte, direttori di festival, cioé da un pubblico particolarmente consapevole e onnivoro (a parte i premi Oscar che sono premi aziendali, assegnati per ogni categoria dai rispettivi colleghi) solo se differenti registi partissero dallo stesso copione. Se no come pesare l'originalità e l'unicità delle opere d'arte? Comunque qualche film si imprime nella memoria più di altri. E non sempre questo vuol dire che sia più artistico e affascinante di un altro, che magari si introduce in parti del cervello molto meno esibizioniste, ma è sempre pronto a esplodere, prima o poi. Comunque.
Radio Onda Rossa chiede anche un giudizio sull'annata. Più il cinema, inteso come sala, è in crisi più si vedono film, attraverso una molteplicità di supporti inimmaginabili pochi anni fa. Dunque la situazione è eccellente. Si producono molti film e si possono vedere ovunque opere da tutto il mondo. Anche se aspettiamo ancora il Lav Diaz che ha vinto Venezia 2017. Altro dato interessante. I primi tre film nella classifica Usa di incassi vedono tre donne super star protagoniste. E sono tre super eroine che hanno scalzato i Batman e i Superman, i Lanterne Verdi e i Daredevil: Wonder Woman, La Bella e la Bestia e Guerre Stellari Episodio 8: Gal Gadot, Emma Watson e Daisy Ridley. Insomma l'anno è caratterizzato da una certa supremazia simbolico-immaginario delle donne. La conferma arriva anche sul lato del cinema non hollywoodiano. I nuovi film di Claire Denis, Agnes Varda, Lucrecia Martel, Valeska Grisebach, Greta Gerwig, Sally Potter, Valeria Sarmiento, Annemarie Jacir... entrano in moltissime classifiche critiche.

Il Giovane Marx di Raoul Peck

LA TOP FIVE....

Premessa: non ho visto Il giovane Marx di Raoul Peck, sulla vita pubblica e privata di Karl Marx fino al 1848, alle prese con Proudhon e Feurbach, con Hegel e con la prima grande rivoluzione in Occidente. Il film forse uscirà in Italia con I wonder per tre giorni, intanto si può acquistare in dvd all'estero. Siamo o no al bicentenario? Non è un caso che sia un grande cineasta haitiano a ricordarcelo. Toussaint Louverture non è passato invano. Ha guidato la prima rivoluzione proletaria mondiale. Vincente. Nel 1804. E certamente ha molto influenzato non solo l'Otello di Rossini, ma anche il Genio di Treviri.

Premessa n.2. Non ho ancora visto Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino che spero vinca qualche oscar perché credo che Guadagnino sia il cineasta italiano più coraggioso, inventivo e spregiudicato della nuova generazione, meno manierista di Garrone e più colto visualmente di Sorrentino. Lo dimostra il fatto che sia il primo cineasta italiano/italieno che riesce a sfidare i grandi del cinema Usa nelle categorie principali. Non come regista del migliore film alieno. Cosa inedita per un regista italiano. O quasi. Ma il gay movie che avrebbe dovuto dirigere Jams Ivory, non è ancora uscito in Italia.

Premessa 3. Non sono ancora usciti una decina di opere importanti ammirate nei vari festival come:

David Lynch e Harry Dean Stanton in Lucky
Lucky, di John Carroll Lynch, con David Lynch, l'ultimo film, semi autobiografico, quasi un auto necrologio, di Harry Dean Stanton,

First Reformed di Paul Schrader sulla Chiesa Riformata d'Olanda, sui calvinisti d'America che tanto hanno massacrato l'infanzia del cineasta, e sulla interpretazione così inquietante e letteralista della Bibbia da istigare il cristiano dai saldi principi etici a passare alla lotta armata e a inseguire il fondamentalismo talebano sul suo stesso terreno. Perché “bisogna distruggere i distruttori della terra”. Come ci impone di fare il Libro Sacro.

La mini serie tv, molto politica, su una pagina oscura della storia usa anni 60, di Errol Morris Wormwood;

The Nothing Factory, un musical portoghese (trotskista ma senza pasticcini, quasi come lo sognava Nanni Moretti) di Pedro Pinho su una occupazione di fabbrica anti-globalizzazione piuttosto festosa nonostante il tetro clima;

un doc di Barbet Schroeder Le venerable W. di Barbet Schroeder che ha anticipato prima che il mondo se ne accorgesse che in Birmania peggioravano i pogrom contro le minorante musulmane bengalesi dei Rohingya. Aizzati da un monaco First Reformed e Talebano contemporaneamente.

Post di Steven Spielberg, che sta però per uscire nelle sale e probabilmente farà incetta di statuette e di globi..

Premessa 4. Non sono usciti mai in Italia se non nei festival e sono attesi, tra gli altri:

Sinestesia di Maged el Madhi (per capire a pelle, con l'occhio l'orecchio e la bocca, cosa sta succedendo nell'Egitto rimilitarizzato da al-Sisi e perché una sollevazione popolare ha rovesciato i fratelli musulmani)

L'ornitologo di Joao Rodrigues (ai padovani non piacerà perché scopriranno che sant'antonio è portoghese)

Hissein Habré, a Chadian Tragedy di Mahamat Saleh Haroun (forse prima di dire di “aiutare l'africa a svilupparsi” sarebbe bene osservare attentamente questo film che racconta perché gli aiuti europei sottosviluppano ferocemente da più di 4 secoli l'Africa, perché la Francia ha organizzato oltre 60 colpi di stato per tenere tutte le ex colonie sotto controllo neocoloniale e perché Minniti rischia di imitare più Crispi che Zanardelli)


Premessa 5. Tra i film quelli usciti (o in procinto di uscire) che non metto in classifica, una decina di ottimi film visti, conferme ulteriori di altisssima qualità:

Ex Libris di Fredrick Wiseman (anche senza essere esperti in biblioteche 'viventi' si può capire perché questo testo dovrebbe essere conosciuto e studiato da tutti gli assessori alla cultura)

Wonderstuck di Todd Haynes (opera tattile, non è simile a Hugo Cabret, anche se il film è tratto da un romanzo dello stesso scrittore, e anche se racconta l'amicizia a distanza tra due adolescenti che hanno molto in comune, perché tono e timbro restano di Haynes, e i nervi sono meno a fior di pelle, la magia del vedere l'invisibile è più morbida, la profondità storico-politica che circonda l'avventura è più palpabile. Anni venti/anni settanta, stessa epoca di ribellione ad alta tensione.

La vita in comune di Edoardo Winspeare, perché fa capire (anche se il racconto riguarda la giunta di sinistra di un paese dell'entroterra salentino: la cultura, che sembra polverosa, dei suoi intellettuali organici, le strategie economiche per uscire dall'immobilismo e perfino la politica carceraria, che è all'opposto di quella leghista e pentastellata) il miracolo di Lecce, unico comune strappato dal Pd alla destra nelle ultime amministrative, merito di Salvemini ovvero l'estremista che ha quelle capacità di mediazione politica e di rispetto per gli avversari che un moderato non sembra possedere.
Guardiani della galassia 2 di James Gunn, il primo era perfetto, questo troppo identico al primo, anche in perfezione, nel gioco agro-dolce, nel tono brechtiano e super camp....

Personal shopper di Olivier Assayas, migliore film francese dell'anno.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri scritto e diretto da Martin McDonagh (quello che Minervini ha anticipato in poesia, su come è fatta strana l'America redneck, qui viene spiegato anche ai muri e ai cartelloni pubblicitari. Elogio funebre al fondatore di Playboy che, come ha scritto Camille Paglia, ha cercato di strappare i cowboy alla loro rozzezza atavica e brutale, quella di Trump e di Weinstein, senza riuscirci, se non un po' sulle coste est e ovest)

The Other Side of Hope di Aki Kaurismaki, il migliore film comunista

Okja di Bong Joon-Ho il migliore film animalista

Da una storia vera di Roman Polanski, Eva contro Eva, ma come se Norman Mailer (Emmanuelle Seigner) duellasse con Thomas Wolf (Eva Green).

L'insulto di Ziad Doueri (Libano), miglior contributo alla soluzione della questione israelo- palestinese. Se non ci riescono i politici, ci riescono gli artisti a spiegarci attraverso un film uno e bino, commedia feroce e dramma processuale, la strada per superare il conflitto. Riconoscere i proprii errori e massacri e trovare mediazioni e compromessi. L'arte è estremista, la politica deve essere sempre capace di patteggiare con il nemico e ripudiare ogni soluzione finale.

Premessa 6.
MIGLIORE FILM FUORI FORMATO: Twins peaks return, oltre 18 ore che rendono David Lynch imparagonabile, se non a Guerre Stellari Episodio VIIII


Inoltre:

migliore performance attoriale, sia maschile che femminile (a parte i giudizi sconsiderati su Polanski) :
Asia Argento (da Bianca Berlinguer a spiegare davvero cos'era successo 20 anni prima con Weinstein e cioé che non è vero che lo ha frequentato per 5 anni dopo il fattaccio - difficile da evitare perché il boss Miramax è di una grandezza erculea e forza irresistibile, impossibile dargli un calcio alle palle - e che ha accettato lussuosi doni: ma chi ha diffuso queste balle che tutti hanno immediatamente date per vere?)

miglior film IN ASSOLUTO il movimento “me to”, primo tempo, ovvero testimoniare e Time's up, secondo tempo, ovvero creare un fondo di molti milioni di dollari per assistere finanziariamente e legalmente tutte le donne vittime di molestie sessuali soprattutto fuori dall'ambiente del cinema, nelle fabbriche, negli uffici e nei ristoranti e supermercati: l'8 gennaio ai Golden Globes tutte le attrici e tutti gli attori che aderiscono vestiranno in nero.


MIGLIORE DOC

I am not your negro” di Raoul Peck, dall'ultimo libro non finito di James Baldwin, basato su interessanti materiali di repertorio televisivi, come i suoi celebri scontri in diretta con intellettuali reazionari, tutti facilmente distrutti. Il film racconta il rapporto personale dello scrittore e militante nero con tre delle tante vittime del razzismo anti african american negli Stati Uniti degli anni 60 e 70, Martin Luther King, Malcolm x e Medgar Evers. Strano che dal film non esca la polemica contro il black panthers party, di cui Baldwin fu bersaglio prediletto (in particolare di Eldridge Cleaver) non perché fosse politicamente un moderato, ma per essere gay dichiaratissimo. E' uscito anche nella collana doc di Feltrinelli in dvd.
Peck fotografo giornalista laureato in ingegneria, formato cinematograficamente a Berlino, è un regista haitiano che ha alternato doc e fiction, ed è famoso per un magnifico film su Lumumba, preceduto da un doc sull'assassinio di Lumumba visto “in diretta” perché Peck era figlio di diplomatici del presidente della repubblica del Congo appena indipendente, Kasavubu. Suoi anche importanti film sulla comunità haitiana di Manhattan. Suo anche Il giovane Marx.
Non si possono dimenticare infine due ottimi doc statunitensi: I called him Morgan di Casper Collin (sull'assassinio del trombettista jazz Lee Morgan) e Dawson City: Frozen Time di Bill Morrison, prodotti però nel 2016. E tra i doc del Tff (Torino non  Toronto) il russo  Cronaca del tempo dei guai di Vladimir Eisner Evaldovich  Tra i doc italiani da tenere d'occhio nelle sale "normali": Lorello e Brunello di Iacopo Quadri; 77 no commercial use di Luis Fulvo (anche se c'è qualche Cossiga di troppo); Cento anni di Davide Ferrario; Vento di soave di Corrado Punzo (sui disastri ambientali a Brindisi e nel grande Salento).

Alcuni grandi registi come Scorsese, Verhoeven, Gibson, Zemeckis confermano la loro grandezza con film superbi come Il silenzio, Elle, Allied, Hacksaw Ridge..... Ma ci sono 5 film davvero speciali quest'anno, che possiamo isolare perché sono i migliori in ambiti più ristretti:






  1. Detroit di Katherine Bigelow, miglior film rivoluzionario dell'anno perché non è tanto importante la bellissima seconda parte, certo un omaggio a Jonas Mekas, sulla tortura - simil Diaz e simil troppe azioni di sopercheria poliziesca assassina ai danni di tutti i dannati della terra, dall'Illinois a Tehran da Damasco a Mosca - ma per il blocco Motown sound/rivolta della moltitudine: più è potente, accerchiante, organizzata e promiscua la ribellione, ritmata da una musica egemonica mai udita prima, è il suono del 68, più i poliziotti locali pubblici e privati, la guardia nazionale e l'esercito, come tori nell'arena circondati, colpiscono a vanvera e perdono la testa, perdendo. Come in Vietnam (indipendentemente dal verdetto del magistrato). Salvo lasciare un deserto, per vendetta, come in Vietnam (non pagando quel che era dovuto secondo i patti di resa). Come è ridotta oggi Detroit si sa.
  2. Wonder Woman di Patti Jenkins, miglior block buster del'anno. Ovvero tutto sulle spalle dell'attrice israeliana GAL GADOT (è l'amazzone semi dea “Diana Prince”). E' il film fumetto Marvel che rilancia tutta la serie deviandone il baricentro simbolico (La bella e la bestia con Emma Watson, e Guerre Stellari con Daisy Ridley hanno altrettanto forti protagoniste). In più si tratta di una inedita coproduzione Hong Kong, Cina e Usa. Inoltre è il primo film di super eroi diretto da una donna, e la regista di Monster qui è come se si vendicasse in anticipo dell'affare Weinstein che sta per scoppiare e come se fosse la portavoce del movimento nato per mettere fine a pratiche di potere troglodite. Nata nel 1942 Wonder Women è la prima eroina a fumetti della storia, innesto di mitologia greca e eroismo anti nazista. Diventa importante quanto Batman e Superman, ma non in Italia. Simbolo dell'insorgenza femminile nella società americana durante la la seconda guerra mondiale. Era dal 1958 che non primeggiavano nelle top ten film ben tre protagioniste (in quell'occasione erano molto meno muscolose: Auntie Mame di Morton Da Costa con Rosalind Russell e South Pacific di Joshua Logan con Mitzy Gaynor. 
  3. L'inganno di Sofia Coppola, miglior remake obliquo dell'anno, un contro western femminista che divide e ovviamente sa farsi odiare. Via col vento incontra l'horror. Clint il nemico bello da sedurre a tutti i costi qui perde il posto centrale, quello di magnete simbolico dell'horror freddo, che passa a Nicole Kidman, l'ape regina che controlla gerarchicamente, come fosse il generale Lee, tutte le sue ragazze. Ma non per questo è femminista il film. In realtà non si tocca nemmeno il capolavoro di Siegel, ma si ritocca il romanzo da cui L'inganno, The Beguiled, ha origine. Non è tanto la rozzezza yankee contro la raffinatezza southern delle ragazze, il bianco merlettato e ombreggiante, la luce di candela della mansion contro la miserabile astuzia seduttiva del ferito prigioniero, ma rozzo e macho, che interessa Coppola, ma decostruire i capisaldi della cultura americana: né pragmatismo industriale e cultodel profitto né decadentismo schiavistico e culto della rendita. Uscire dalla contrapposizione originaria tra piantagione e fabbrica, per rifare daccapo l'America. Senza mostri. Questa la rilettura storico politica femminista. 
  4. The shape of water di Guillermo del Toro, miglior film-saggio. Un classico horror di Jack Arnold adorato, adornato e rispettato dal cineasta messicano, entra nell'immaginario fantasy più conturbante del momento, e come in una nota a piè pagina se ne spiega lo sfondo, accuratamente: la guerra fredda, l'idiozia della Cia (non a caso formata da ex stalinisti pentiti, ma rimasti identici “dentro”) e dell'Fbi.
  5. A Ciambra di Jonas Carpignano. Migliore trasformazione di un corto in un lungometraggio. Il meno italiano nei nostri cineasti da molti anni è un cittadino di Manhattan che passa metà dell'anno in quel pezzo di Calabria (anche mafiosa) che bloccò il petrolchimico (dando una certa indicazione umanista non raccolta dall'Ilva) e che si chiama Gioia Tauro, dove attraverso il lungo sodalizio con Pio, il piccolo rom, adolescente, il peggiore dei peggiori distrugge ogni conformismo scolastico di regia, entra ed esce dalla finzione come solo Rossellini sapeva fare, e ci dà un esempio di “cinema falsità” che è più vero di ogni cinema del reale. 

A Ciambra ha vinto il referendum di Rasdio Onda Rossa.
In attesa della top ten di Film Parlato, a cura di Lorenzo Esposito, diamo alcune interessanti classifiche.
Per i Cahiers du cinema ha vinto Twin Peaks Return.
Per Sight and Sound Get out.
Per Raymond Bellour: I had nowhere to go di Douglas Gordon; Western di Valeska Grisebach; Zamas di Lucrecia Martel; Ex Libris di Fredrick Wiseman; Domain et tous le autres jours di Noemie Lvovsky.
Per Carlo Chatrian (direttore del festival di Locarno): Twin Peaks: Return; Zama, Call me by Your Nome, Three Billboard Outside: Ebbing, Missouri; Jeannette di Bruno Dumont.
Per Molly Haskell (critica statunitense femminista): Lady Bird di Greta Gerwig; I, Tonya di Craig Gillespie; The Meyerowitz Story di Noah Baumbach; Logan Lucky di Steven Soderbergh; One Mississippi di Diablo Cody e Tig Notaro.
Jonathan Rosenbaum (critico Usa): 24 Frames di Abbas Kiarostami; Let The Sunshine In di Claire Denis; Mudbound di Dee Rees; Faces Places di Agnès Varda; Twin Peaks: Return
Noel Vera (critico filippino): Twin Peaks: The Return; Silence di Martin Scorsese; A Quiet Passion di Terence Davies; Respeto di Treb Monteras II; Okja di Bong Joon-ho

(1) Federico Raponi, redattore della trasmissione di Radio Onda Rossa "Visionari" che ogni anno organizza la classifica, e ha chiesto anche i miei 5 titoli, mi ha mandato due precisazioni:
"la prima, da ascoltatore: un redattore e una trasmissione (Visionari) non rappresentano un collettivo redazionale, come è quello di ROR che tra l'altro vanta da anni una trasmissione autogestita da femministe e lesbiche, e sfido a trovarne un'altra nel panorama dell'etere nazionale.
La seconda, da giornalista: i criteri nella scelta del "mucchio selvaggio di critici italiani" sono stati sia personali (amicizia/stima) sia professionali (precedenti partecipazioni - a vario titolo - alla trasmissione/autorevolezza/visibilità di chi muove il cinema in Italia oppure ne scrive e ne parla). Questo tenendo anche conto della parità di genere, cosa che del resto faccio per tutto il resto dell'anno. In questo caso, però, non ho trovato alternative convincenti alla scelta finale, con un rapporto di 12 a 3 ".

Bisogna riconoscere che non è un problema solo dei Visionari e dell'Italia. La classifica di "Sight and Sound" è stata redatta con un rapporto simile: 12 critiche e 28 critici.