venerdì 4 settembre 2020

L’importanza di Gianni Serra nella storia del cinema occidentale

La ragazzi di via Mille Lire di Gianni Serra (1980) 

Roberto Silvestri 

Nel 1980 vennero presentati nella sezione Controcampo italiano della Mostra di Venezia La ragazza di via Millelire di Gianni Serra e Razza selvaggia di Pasquale Squitieri. E ci sono state alcune divergenze tra il compagno Alberto Farassino (l’indimenticato maestro della critica e co-fondatore delle Brigate Rossellini)  e noi. Tra Repubblica, dove scriveva Farassino e il manifesto. 

Fu a proposito del bel film di Serra, non amato da una sala misteriosamente astiosa forse perché stanca di Mirafiori sud come i 35mila colletti bianchi e forse di nuovo fiera della "razza padrona". 

Farassino lo amava “quel poema dai contenuti ribaldi ma dalla metrica classica”. A noi però piaceva del film di Serra proprio la metrica ribalda, i contenuti classici e un’immagine pop street pre-Bansky, ovvero un pro e prefilmico denso e profondo, le analisi socio-antropologiche e le consulenze sociolinguistiche del fuori campo, le inchieste preliminari con il videotape su come veniva gestito e perché e da chi il traffico dell’eroina, i personaggi reali che recitano se stessi, la propria miseria e la propria bellezza. Insomma quasi una applicazione del disinteresse rosselliniano per i trucchetti del cinema-spettacolo. Squitieri, tra i pochi firmatari di un manifesto di pro-arrestati del 7 aprile, era stato solo in quella occasione politicamente corretto - in politica si fanno compromessi - ma aveva poi confuso le cose: in quel film ci sembrava pronto al compromesso estetico e presto in politica ci apparve glacialmente opportunista (sfruttando Tatarella, Petacci e Berlusconi).


Gianni Serra in Africa sul set di Progetto Atlantide (1988) 

Nel reportage dalla Mostra di Venezia La Repubblica, e in parallelo anche Guido Aristarco, appoggiò dunque Razza selvaggia, che sempre della Torino degli immigrati e degli emarginatissimi trattava (ringraziando però entrambi il sindaco Pci Novelli), accontentando i palati melò del grande pubblico (non a caso produceva la Titanus pre-berlusconiana). Invece il manifesto si schierò con Gianni Serra, e con il piccolo film no budget, anche se condividevamo i limiti delle produzioni povere “statali e televisive, protette da tante mamme e funzionari”. Serra pensava più ai palati popolari delle generazioni future, a quello di un altro popolo possibile, a venire. Il film “duro” di Serra fu poi invitato dal più rigoroso London Film Festival mentre quello “sconcertante ma mai timido e insipido” di Squitieri dal più brezneviano Moskow Film Festival…. 

Erano gli anni in cui, parola di un caro collega di Gianni Serra -  l’altrettanto militante ex documentarista Rai Antonello Branca - viale Mazzini effettivamente censurava la sostanza e i dettagli delle cose vere, e perfino la parola cancro non si poteva pronunciare nei servizi (meglio zuccherarla con “il male incurabile”, come imponeva il ligio responsabile Angelo Guglielmi). Ma di cose vere si poteva trattare. 

Il quotidiano del futuro partito unico della sinistra, la Repubblicascalfariana, comunque ebbe la meglio. Di Gianni Serra non si parlò quasi più. E proprio di cancro è morto Gianni Serra il 3 settembre 2020. 




Gianni Serra? Ma chi era costui? E Stavros Tornes oggi ci dice qualcosa? E Gioia Benelli? Cinema del secolo scorso,  troppo pericoloso. Da nascondere, cancellare. Eppure qualcuno ricorderà, almeno vagamente, Z l’orgia del potere.  E che nell’Europa moderna e fiera di essere nella Nato era intollerabile il fatto che si potessero tranquillamente tollerare i colonnelli golpisti di Atene e i loro fetidi agenti segreti del Kyp. L’anticomunismo è ancora merce benedetta, e non solo da Padre Pio.

Uno dei tre, 1970, film d’esordio cinematografico del comunista Gianni Serra,  regista visivamente colto e eticamente coraggioso, oggi totalmente espulso dalla memoria, raccontava un misfatto di cronaca vera. La morte drammatica di un antifascista greco fuggito in Italia. L’inchiesta su quello strano suicidio-non suicidio. Il padre che arriva da Atene. I depistaggi, l’ambiente della sinistra non parlamentare… Lo stile era spoglio, severo, rosselliniano. La costituzione d’oggetto seria, meticolosa, fattuale, mai ideologica. Gianni Serra non a caso veniva dall’alta scuola del giornalismo di inchiesta televisivo, da TG7. Oltre che dalla Domenica sportiva, Campanile sera. Aveva lavorato e apprezzato le qualità comunicative di Mike Bongiorno e di Enzo Tortora. Aveva portato nelle sue immagini gli isotopi della pittura e della moda moderna più segretamente conturbante (anche grazie alla costumista Stefania Benelli).  Da tanti film tv d’impegno : Primo trimestre (167), Un caso apparentemente facile (1968); La rete (1970), Progetto Norimberga (1971), Dedicato a un medico (1973), Diario di un no (1974), Il nero muove (1977). Fascismo, ospedali, divorzio, scuola, tragedie storiche. Fatti, ma trasformati in cinema, fatti immagine. Nessun orpello, nessuna pornografia espressiva, nessuna rappresentazione di un testo. Videotape e nagra avevano azzerato il dibattito sul realismo. Nei nuovi documentari non erano gli esperti a spiegare, come oggi in tv. Era la vita e le pulsioni dal basso molto ben articolate in un “corpo superiore”. Nulla restava - in quel film politicamente realizzato, e scritto con la compagna della vita e cineasta Gioia Benelli - del fascino ipnotico, spettacolare e coinvolgente (che allora consideravamo pericolosamente autoritario) di Costa Gavras, geniale nell’aizzare a forza di semplificazioni popolari alla dicotomia da stadio, al “noi contro loro”.  No. Serra-Benelli si rivolgevano invece a spettatori, non al “pubblico” delle curve. Come Bergson ci ha spiegato che lo spirito è prodotto dalla materia, così Serra, Benelli e Stavros (il regista indie greco esule in Italia che in quel film era attore e consulente) che lo schermo produce mutazione, spesso crudele, nell’incontro/scontro con l’immaginario dallo spettatore, mai piacere zuccherato iniettato a forza di format nell’occhio alienato. L’amico e sceneggiatore di Serra, l'ex architetto e assistente teatrale di Giorgio Manganelli  Tomaso Sherman, avrebbe applicato lo stesso rigoroso metodo in Ho visto uccidere Ben Barka  (1978), su un altro delitto di stato, ad avvertirci sull’estremismo fanatico dei moderati (in questo caso arabi). Straub-Huillet avevano estremizzato quel procedimento nell’analisi del riarmo tedesco d’epoca Adenauer.  Gioia Benelli (nipote di Sem Benelli, La cena delle beffe)  estremizzò quel procedimento nell’analisi delle stratificazioni esiziali famigliari. Cuore di mamma, 1987, è un gioiello sepolto del nostro cinema. Il primo Vintemberg non è andato molto oltre. 

Fortezze vuote (1975) 

Infatti Gianni Serra, morto ieri a Roma a 86 anni, è un cineasta importante, coltissimo, schivo, dimenticato, ma di bruciante attualità. Esordisce nella regia in un anno maledetto ma cruciale per il cinema italiano, il 1972. E non solo per il cinema. Mentre nel fuori campo internazionale Nixon sta bombardando la Cambogia clandestinamente, e senza che nessuno lo fermi (Trump non è un Lex Luthor inedito), facendo diventare pazzo Pol Pot, e il Cile di Allende è sotto stretta osservazione, che succede in Italia? Contestazione generale. Femminismo. Smantellamento del codice fascista Rocco. Divorzio. Aborto. Piazze furenti che terrorizzano i potenti. Perfino Il Corriere della Sera diventa (ma sarà miracolo effimero) quasi leggibile tanto che Indro se ne va. E l’odiato nemico di classe cosa fa? 

Oltre ai licenziamenti nelle fabbriche indocili delle teste più calde. Oltre alle stragi à gogo pianificate dall’Innominata vestale del plumbeo e maccartista decennio precedente (1948-1958). Oltre alle denunce e ai processi a valanga per reati di opinione (che colpiscono già, non a caso, Potere Operaio e il direttore Tolin). Oltre all’uso della manovalanza nazifascista nei licei e nelle scuole,  come in Furore di Steinbeck e Ford, per picchiare, provocare, schedare, arrestare e intimidire la moltitudine ribelle o depotenziarla, deviandola verso il vicolo cieco BR. Oltre alla diffusione capillare di droga (prima leggera, poi pesante) per confondere le acque e barattare con qualche dose di lisergica distrazione, porno e coca una tregua sociale. Oltre alla ramificazione della Gladio di Kossiga in ogni prefettura e questura (che film politico sull’Italia è stato Magnum Force ovvero Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, scritto nel 1973 da Milius e Cimino!), il periodo che va dal 1972 al 1978, fase finale della ‘dittatura del proletariato’ in Italia iniziata nel 1968, è stata la distruzione tattica del cinema italiano. Bruciare gli esordi con ogni mezzo necessario. L’art. 28 ne manderà al macello tanti. Bloccare la produzione di documentari e film sperimentali. Bloccare l’università popolare di scienza delle comunicazioni anarchiche e libertarie di Trastevere, dove tra Carmelo Bene, Grifi, il Filmstudio, Brocani, Braibanti, il teatro sperimentale e la musica concreta era tutto un fuoco d’artificio di creatività, era come vivere al Greenwich Village.  Bloccare per estinzione dei finanziamenti (solo 32 milioni il budget annuo!) gli Sperimentali Rai2 che Italo Moscati impone in prima serata tv e che provocheranno la messa al bando degli “indici di gradimento” perché se si scopre che si gradisce di più un no budget firmato Gianni Amelio tutto il sistema mangia soldi a tradimento che vivacchia ai confini di un colossal tv, che fine farà? L’invenzione di Berlusconi e di quella tv commerciale non sarà affatto un non sense.   Che film sono quelli Sperimentali? “Sono pellicole - scrive Moscati -  che parlano di ragazzi in istituti di correzione, di giovani operai nei quartieri dormitorio, di adolescenti nelle metropoli in sviluppo, di sognatori che aspirano a creare nuove condizioni di vita, di fanciulle che scoprono la realtà dei nuovi regni dei consumi, di persone che amano le armi…”. Fortezze vuote del 1975 girato in un ospedale psichiatrico (sempre assieme a Gioia Benelli) diventa una bomba spirituale di immensa potenza lanciata nell’immaginario perché la riforma Basaglia vada a buon fine. Sono film imposti dal contropotere sociale di quel decennio, ideati e diretti dalla generazione di artisti che vengono dal Csc, ma soprattutto dalla pittura o da altre arti, da scuole di cinema straniere o virtuali, come la scuola Trastevere-Campo de’Fiori (in Italia il cinema è pericoloso, considerato arte extraparlamentare, non si studia ancora all’Università o nei licei…). Romano Scavolini, fotografo di guerra in Vietnam,  Mario Schifano, Giosetta Fioroni e Sandro Franchina, ovvero, la scuola di piazza del Popolo, Peter Del Monte è californiano ma viene dal Csc rosselliniano come Franco Brocani, Tinto Brass invece direttamente da Langlois, Maurizio Ponzi dalla più sofisticata rivista di cinema italiana, Cinema&Film, Bertolucci ebbe come istitutore privato Godard e Pasolini… 

Gianni Serra che era nato a Montichiari (Brescia) il 14 dicembre 1933 aveva abbandonato gli studi universitari di giurisprudenza e di filosofia alla Statale per dedicarsi alla pittura. Nei primi anni 50 pittura vuol dire Parigi. A Parigi frequenta il pittore ed ecologista viennese, anzi “medico dell’architettura”  Friedensreich Hundertwasser (1928-2000) e il cineasta ed ex partigiano George Franju (1912-1987), cofondatore della Cinémathèque Française, che lo incoraggiano a imbracciare la macchina da presa per "filmare la terra dal cielo", tema di molti suoi dipinti, il primo, e a trattare il fantastico come i neorealisti facevano con la strada e le sue tragedie, per non lavarci le mani di fronte ai massacri inauditi e “fuori dal mondo” che avvengono nel mondo, il secondo, maestro di Leos Carax e Gaspar Noè, maestro del cinema come arte sovversiva. Ecco cosa i decenni successivi hanno cancellato. Film come Sang des betes, il documentario della crudeltà, insostenibile, sui mattatori di Parigi (1949). La violenza che c’è non è né finta né eccitante, ma reale, bunuelliana. Si veda il controverso Una lepre con la faccia da bambina (1988), con Franca Rame, Amanda Sandrelli e Lydia Alfonsi, dove Gianni Serra e il romanzo della scrittrice e poi senatrice Pci Laura Conti non vuole e non può dimenticare il (rimosso) disastro di Seveso, la nube tossica, gli orrori pianificati del capitalismo reale (si può vedere su You Tube) e si piazza come un intruso fertile in pieno decennio di edonismo reaganiano (si vedano le furibonde polemiche che ha suscitato sulla stampa reazionaria) . O, del 1984, l’ affascianante Progetto Atlantide, con Daniel Gelin, Paolo Bonacelli e Marpessa Dijan che utilizza il tono patafisico di Alaister Crowley per un’incursione profetica tra i Tuareg, i servizi segreti, il nord Africa turbolento e i fanatismi religiosi a venire. Insomma. Se il nostro cinema fosse stato in grado di coniugare Serra e Squitieri, forse saremmo stati competitivi con Lucas e Spielberg, che quanto a sostanza storico-scientifica forte dei loro film non hanno rivali. Un esempio personale. Un giorno Gianni Serra che veniva spesso a trovarci al manifesto mi confessò desolato che dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo e  Guerre stellari il cinema europeo non aveva futuro. Tutto è finito. Il matrimonio tra Enrico Fermi e Mario Bava qui non era avvenuto. In California sì. Era però ben consapevole della sostanza conoscitiva e culturale spessa dell’epopea lucasiana. Come Elias Canetti aveva spiegato in Massa e potere andava decostruito al cinema il mito dell’eroe, la metafora del capitalista che diventa sempre più forte sul sangue del lavoro vivo che il mercato cannibalizza. E George Lucas aveva ben spiegato che bisognava farla finita con quel tipo di eroe, che dietro il mito appare la maschera della morte nera. 


 


Gioia Benelli, cosceneggiatrice compagna di Gianni Serra