giovedì 26 aprile 2018

Wes Anderson, "Io mordo". Tutti nell'Isola dei cani


Il film esce nelle sale italiane il primo maggio

Mariuccia Ciotta

L'”influenza canina” ha influenzato Wes Anderson, a sua volta ispirato da Akira Kurosowa per il suo L'isola dei cani, film d'animazione in stop-motion, il secondo dopo Fantastic Mr.Fox (2009), questa volta ambientato in Giappone. Orso d'argento per la regia alla Berlinale, Isle of Dogs, scritto, diretto, prodotto da Anderson, è una composizione fulminante di segni, un ritratto d'inchiostro di china accompagnato da multi-sonorità che moltiplicano le immagini, a partire dalle voci. Nella versione originale, i cani parlano un inglese forbito grazie ad attori che non temono il facile joke, Bill Murray, Jeff Goldblum, Edward Norton, Scarlett Johansson, Tilda Swinton e Yoko Ono. Mentre Spots, il peloso protagonista, ha il timbro vocale di Liev Schreiber. Eccezione linguistica, l'attore e traduttore Kunichi Nomura, proveniente dal coppoliano Lost in translation e tra gli autori del soggetto, insieme a Roman Coppola.
Formalmente minimalista, è un'opera shakespeariana (Kurosawa insegna) e insieme un dramma politico, violento contro armi atomiche e tirannia Giap e Usa (il film è Pg -13 negli States). Contro l'utilizzo di soldati-robot, qui a quattro zampe, metallici guerrieri dagli occhi rotanti che ricordano la muta bestiale dai collari parlanti di Up (Pixar-Disney) agli ordini di un ex nazista. La “fiaba” comprende un assassinio di stato, la morte per avvelenamento del leader del Partito della Scienza ideatore dell'antidoto all'epidemia canina, e un piano di soluzione finale a base di bombe atomiche. La cronaca a cartoni animati.
Il film è tempestato di piccole, pungenti, disperate avventure, set la Trash Island, un'isola-discarica dove finiscono tutti i “migliori amici dell'uomo” accusati di diffondere un virus letale, segretamente creato in laboratorio per eliminare la specie e smerciare i cani automi. Pulizia etnica. I fotogrammi si inseguono come tavole a fumetti, i cani diritti e impettiti, lontani da Megasaki City, governata da un tiranno amante dei gatti. Siamo in un 2037 molto attuale. Derelitti e criminalizzati, lasciati marcire senza cibo e senza cure, gli espulsi frugano nella spazzatura come i bambini delle periferie del mondo. C'è un cane nero, fiero di essere un vagabondo, disubbidiente agli umani - “io mordo” - e che si scoprirà biondo dopo un buon bagno schiuma, e c'è Spots, il suo ignaro fratello, fedele “guardia del corpo” di Atari Kobayashi, dodicenne pupillo del cattivo governatore, deciso a salvarlo. A bordo di un aeroplano di latta chiamato Junior-Turboprop, Atari si catapulterà sull'isola off-limits. Avrà difficoltà di comunicazione con il branco. Non parla il canino? No, il piccolo samurai non parla inglese. E, da stranieri, bambino e animali si scambieranno emozioni e informazioni per la rivoluzione di Megasaki City.
Il viaggio in fila indiana di Atari e cani alla ricerca di Spots attraversa il film e l'isola, una processione di strambi personaggi alla Buster Keaton, lunari e imperterriti. Il ragazzino ha un ferro conficcato in testa, conseguenza della caduta dall'aereo, impartisce ordini in giapponese e tira fuori dalla sua tuta argentea oggetti di ogni tipo, alla maniera di Harpo Marx. Ma le gag sorridenti finiranno tra inseguimenti, scontri a fuoco, morti e l'assalto al palazzo d'inverno, là dove risiedono i malefici sterminatori di cani, i Ronin, samurai senza padrone, randagi ribelli.
Wes Anderson ritorna nell'incanto di New Penzance, l'isola di Moonrise Kingdom, in fuga dietro una coppia anomala come quella di Atari e Spots, contrastata dagli adulti, poetica e imbambolata. E lo fa con il suo gusto per l'irragionevole e il bizzarro, aiutato dall'animazione a passo uno che dà un effetto inverso all'andamento fluido del film digitale. Anderson vuole i suoi personaggi bidimensionali, rigidi e “burattini” il più possibile, al contrario dei protagonisti di La sposa cadavere di Tim Burton, frutto di tecniche ultra-sofisticate applicate al vecchio metodo della stop-motion (pupazzi fotografati a ogni posa). I cani si muovono invece in uno spazio vuoto, definito da movimenti a scatti comico-disturbanti, secondo la tradizione ceca di Jan Svankmajer.
Narrazione ellittica, primi piani e piani sequenza, Isle of Dogs si discosta dal tocco dark di Nightmare Before Christmas firmato da Henry Selick, che Anderson avrebbe voluto per Fantastic Mister Fox, ma lo scrittore-regista preferì dirigere Coraline e la porta magica, prodotto dalla Laika di Travis Knight, specializzata nel cinema frame by frame. Meglio così. L'isola dei cani è un film d'animazione speciale che risucchia lo spirito dell'innocenza resistente al cinismo e lo infonde nei corpi senza organi, lontani dall'antropomorfismo disneyano, eppure in trasparenza sovrapponibili agli umani, un po' come Pinocchio.

Pubblicato da Alfabeta 2.



martedì 17 aprile 2018

Cratere. Non reale, ma inverosimile plausibile










Roberto Silvestri

Un vero manifesto teorico, forse troppo esplicito e gridato (l'intenzione sembra buona: indicare un sentiero per uscire dalla morsa “verismo, naturalismo, realismo, neo-neo realismo e cinema del reale” che paralizza il nostro immaginario) era stato scelto dalla gang della Settimana della critica per aprire provocatoriamente la sezione di frontiera della Mostra di Venezia. E in questi giorni esce nelle sale italiane questo Ufo, Il cratere. Usiamo in senso affettuoso il termine "Gang" per definire gli esperti raccolti da Giona Nazzaro, come l'avrebbe detto Nagisa Oshima. Ricordate quando il cineasta giapponese mai riconciliato affermava che fare un film è sempre “compiere un atto criminale”? Si riferiva anche a una industria chiusa a riccio intollerante a tutto ciò che la mette in discussione. E non parliano poi di farne la critica. Cosa c'è di più criminale che fiancheggiare un crimine con  una argomentazione retorica (e dunque ingannevole)?    
Il cratere (niente a che fare con il Vesuvio, come sembrerebbe) è opera di coppia, diretta, prodotta e scritta con straordinaria strafottenza narrativa e spettacolare, anche nel rapporto tra finzione e documentario, da Silvia Luzi & Luca Bellino.  


Girata in digitale nei veri luoghi dell'azione (suburbi poveri di Napoli e Senigallia), è la radiografia implacabile, a camera sfacciatamente intrusiva, di un rapporto di coppia estremamente strano. Tra un padre che vende alle fiere pupazzetti in lotteria e la figlia adolescente, talento canoro naturale, una Maria Nazionale in erba, che potrebbe essere la soluzione di ogni problema finanziario ed esistenziale (se non psicotico). Sharon, sempre perseguitata dal padre, come Jerry Lewis in Quel fenomeno di mio figlio, tratta però il suo dono come qualcosa di giocoso non di professionale, vista la sua giovane età. Incide dischi, va in tv, certo, ma qualcosa non funziona ancora. La ragazza è troppo distaccata, non mette tutta se stessa nell'interpretazione, non arriva al cuore delle persone. Bisognerà addestrarla. Si distrae troppo. E allora. Niente amiche. Niente gioco con le palle. Va seguita. Va addirittura controllata con quattro telecamere.... A questo punto dovrà diventare invisibile, proprio come Cratere (che è una costellazione che, propio a causa della sua esagerata luminosità, svanisce alla vista) per sfuggire alla prigione edipica in cui lei e lui sono invischiati...


Padre e figlia sono gli stessi interpreti, Rosario Caroccia e Sharon Caroccia, indivisibili, inseparabili. Ma in maniera differente dal film, più convenzionale nello sviluppo narrativo, e molto meno perverso, che fu bocciato a Venezia due anni fa ma poi fece indigestione di premi perché le gemelle siamesi erano mozzafiato. 
Già la prima scena di Il cratere, infatti, svela tutto. Sharon, allo specchio, ripassa, ma danzando come fosse in uno show tv, la lezione di italiano e di francese: cos'è il verismo? cos'è il realismo? 
Verga e Flaubert (e Balzac, Zola, Courbet, Grosz, Stroheim, De Sica, Visconti... 
L'oggettività della raffigurazione, il non prendere posizione, da una parte, privilegiando la marginalità, la povertà e l'oppressione (che se non ci fosse bisognerebbe inventarla). Palazzeschi direbbe la "bellezza del derelitto".  E, dall'altra, lo scavo psicologico del personaggio tipico, che ci introduce fin nelle parti più intime della sua interiorità o spiritualità e invita a prendere posizione. E nel fuori campo uno pensa già alla contrapposizione tra tipi sociali, alla lotta di razza e di classe, ai cambiamenti epocali reali, ovvero al cinema “europeo” che gira sempre attorno al concetto di realismo (da Aristarco a Lars Von Treir, passando per Bazin), contrapposto al cinema dei Miti, dei modelli ideali, che, dall'antica Grecia, Hollywood classica ha saputo così bene riciclare in più generi, fino ai Marvel, per affermare, back to the future, alcuni concetti trascendenti, ereditati dalla cristianità, per esempio i valori irrinunciabili ed eterni della libertà (anche di sfruttare) o della sacra proprietà privata (da difendere armi in pugno)..
Che il mondo immaginario dell'arte possa produrre un forte effetto di realtà è l'obiettivo delle numerose tendenze realiste (o che ne subiscono l'egemonia, astrattismo compreso), tutte, contraddittoriamente, tese all'idealità (il rispetto per ciò che si “sfrutta”, la non-manipolazione visiva, la tensione problematica, la serietà oggettiva, il fastidio per l'intrusione degli elementi comici e satirici alla Michael Moore...) per dire qualcosa sulla realtà non solo momentanea (ed ecco il “realismo socialista” e il “realismo poetico”) e non solo “umanistica”. 
Insomma mi pare che Cratere prende di petto sia il cinema della trasparenza, estremizzazione realistica che inneggia al piano sequenza e al “montaggio proibito”, perché trufferebbe il senso di realtà - il cinema del reale in realtà, se è fuori norma, è solo quello nel quale il regista guarda guardarsi, e ci mette lo sguardo, in maniera che lo spettatore possa giudicarne la moralità -  sia quello di chi afferma che il mondo ha la virtù di parlare da sé (il cinema diretto). 
Dunque non siamo solo dentro un labirintico intrigo di editing, ma anche in pieno “regime cristallino”. Se si rompe il tempo cronologico, se non è il movimento senso-motorio che fa andare avanti la storia, ma “situazioni sonore ottiche” esplorano il tempo e lo rendono visibile, ecco apparire il carattere, almeno duplice, del presente, che è sempre passato nel momento in cui sembra “just in time”. L'immagine-cristallo è la metafora di questa coincidenza tra reale e virtuale. Trattare tutto questo con umorismo partenopeo e serietà Farocki è fecondo.


martedì 3 aprile 2018

“Charley Thompson” e il suo cavallo oltre i cancelli del cielo




Il film, passato in concorso a Venezia, esce nelle sale italiane giovedì 5 aprile

Mariuccia Ciotta

L'obiettivo è puntato sulla geografia emozionale dell'attore Charlie Plummer, protagonista del romanzo di Willy Vlautin, ballata di un quindicenne in viaggio reale e interiore da Portland, Oregon, a Laramie, Wyoming, piccola città celebrata da Anthony Mann con James Stewart in sella, mentre qui Charley non sale mai in groppa al suo amato stallone da corsa Lean on Pete. In concorso alla Mostra di Venezia 2017, il film scambia il nome del cavallo (titolo originale) con quello del protagonista, Charley Thompson, una specie di Huckleberry Finn destinato a perdere uno dopo l'altro gli adulti, buoni e cattivi, che lo circondano. Parlerà di sé - madre volubile e assente, padre viveur - solo a un cavallo da corsa destinato al macello in Messico, e rubato a Steve Buscemi, amabile e cinico allenatore, in tandem con la fantina disillusa interpretata da Chloé Sevigny.
Il regista britannico Andrew Haigh ha distillato sensibilità speciali nello scandagliare sentimenti estremi in Weekend e in 45 anni, e qui sprofonda dentro lo sguardo annuvolato del quindicenne, presenza fantasmatica sullo sfondo dei paesaggi americani. Essere soli. Il vagare di Charley senza soldi, senza benzina (Lean on Pete non ce la fa più), affamato vira da “romanzo di formazione” a dimensione esistenziale. Il diritto di sopravvivere, di prendersi quel che ti spetta, scorre nel viaggio alla ricerca di un approdo. L'orfano e il cavallo persi in una dimensione di abbandono, immersi in un'aura di santità. Invisibili a tutti, tanto che sarà facile impadronirsi del necessario. Una mappa rubata in uno store per trovare la strada giusta per il Wyoming, un giro di lavatrice in una casa vuota, quasi fossimo dentro un'ossessione di Kim Ki Duk, una bottiglia d'acqua, un doppio cheesecake... E se Charley sarà spogliato di ogni cosa, sotto la t-shirt mantiene sempre un'altra chance, il riflesso dei campi verdeggianti e del deserto, un percorso attraverso stagioni e stati fino al touch-dawn (era ottimo cornerback del liceo), alla simbolica Public Library, la biblioteca pubblica di Laramie. Qualcuno l'aspetta.
In Charley Thompson soffia il vento di altre praterie e di un altro cinema, l'epopea di Steinbeck tutta nello sguardo del teenager scolpito nel cielo, la linea dell'orizzonte bassa, lo schermo inondato di luce. Accolto con entusiasmo dalla critica internazionale a Venezia (dove Plummer ha vinto la coppa Mastroianni), il film, distribuito dalla Teodora, è tra le uscite imperdibili di questa primavera.