lunedì 27 febbraio 2017

Moonlight vince l'Oscar. Non senza qualche piccolo problema tecnico....




Roberto Silvestri



Come Three Times di Hou Hsiao Hsien, Moonlight  è in tre atti. Fanciullezza, adolescenza e maturità. Tre attori diversi. Come se il film lo cominciasse Harold Nicholas in Pie Pie Blackbird e lo chiudesse Jim Brown  di Black Gunn. La storia di Chiron, gracile ragazzo african-american di oggi, timido per natura, che diventa maggiorenne e sopravvive a Miami, nel quartiere invivibile di Liberty City.  Quello dove visse Muhammad Alì, il più delicato dei colossi, e dove, nell’agosto 1968, esplose la rabbia antirazzista (e qui i bianchi sono proprio fuori campo, inesistenti) perché ai neri perfino accostarsi a Miami Beach era proibito.



Tre attori, Alex Hibbert (“Little”, a 9 anni), Ashton Sanders (Chiron, teenager dai sentimenti eretici) e Trevante Rhodes (l’uomo, muscolarmente indurito dal carcere), costruiscono sul dramma di Tarell Alvin McCraney  una “suite di formazione e di resistenza” non lineare e a tratti anche fisionomicamente spiazzante, ma capace di cogliere in azione gli elementi più emozionanti, sensuali, culinari e balneari della complessa Mascolinità nera, in stato d’allarme e pronta alla metamorfosi: “al chiarore della luna ogni nigger diventa blue”. 

Il regista e sceneggiatore Barry Jenkins e l'autore del romanzo Tarell Alvin McCraney
La dolcezza, la gentilezza, addirittura il cuore sopravvivono a tutti i cliché del ghetto-movie o della ritrattistica pittorica di Kehinde Wiley, attraversati scrupolosamente e un po’ distorti: il bullismo scolastico vigliacco; le ‘esecuzioni’ per strada; un padre svanito nel nulla; la crudeltà di Paula, la mamma drogata amata e odiata; la partita di football che il direttore della fotografia James Laxton trasforma in danza; il bagno nell’oceano, che diventa, come il primo bacio sulla spiaggia, esperienza zen; la tempesta ormonale e l’amor fou di Chiron per il coetaneo Kevin (tre attori anche per lui), dal sorriso lascivo; incarcerazioni; tradimenti; la traumatica perdita anche del mentore Juan, lo spacciatore di droga cubano del quartiere che assieme alla dolce moglie Teresa lo protegge e gli insegna a nuotare e cucinare (è Mahershala Ali, in stato di grazia, che sa svelare la femminilità dei John Wayne: dentro il vero macho c’è sempre un micio). “Che cos’è un frocio?” chiede l’intimorito Little a Juan: “è la parola utilizzata per fare del male ai gay”. La ricerca di una identità perduta finirà cin la conquista: c’è del tenero in chi ha coraggio.



L’acido affresco storico sul pastore ribelle Nat Turner, Nascita di una nazione, doveva essere l’antidoto black a La la land, la notte degli Oscar, ma Nate Parker, fatto fuori dalla macchina del sangue, viene sostituito da questa produzione di Brad Pitt (un 12 anni schiavo spostato nel ghetto southern), versione queer di Boyz n the hood, un Boyhood nero pece. Anche se Barry Jenkins, al secondo film dopo un esordio in stile Linklater, imbratta di affondi cromatici-lisergici e ralentì poetici anche indigesti il naturalismo austero di Singleton. E non ha certo potuto contare sulla dozzina d’anni di riprese con uno stesso protagonista, come Linklater. 

Il direttore della fotografia James Laxton
Questa confusione di registri, di corpi e di luoghi comuni a volte davvero strabici, ha inebriato la critica Usa (e infatti il film ha sconfitto La La Land anche se con dopo non poche difficioltà procedurali) e spiazzato quella europea, meno sconvolta dall’escalation di violenza contro i neri e consapevole di quanto le atmosfere dei romanzi di James Baldwyn (Go Tell It on the Mountain, per esempio) contribuiscano a far giocare la cinepresa con gli elementi più volatili dell’animo, gesti, tic, sguardi, rap. 

A proposito di Baldwyn. Il documentario di Raoul Peck su di lui, I’m not your negro, anche senza vincere la statuetta, dà un senso in più, politico-culturale, alla vittoria di Jenkins. E non solo perché racconta lo scontro secolare della comunità african-american per affermare i propri diritti, diventare uguale tra diversi e conquistare pari dignità. E’ stato proprio lo scrittore e intellettuale radicale la vittima preferita degli strali lanciatigli durante le lotte del 68 non tanto dai colleghi bianchi (e Norman Mailer soprattutti) ma proprio dall’ala più maschilista e “armata” della controcultura nera. Se andiamo a rileggerci il saggio di Eldridge Cleaver in Anime in ghiaccio ci renderemo conto di cosa voleva dire essere nero, gay e rivoluzionario proprio tra i rivoluzionari dell’epoca.   Rispetto a loro Mahershala Ali rappresenta l’evoluzione della specie. Come nel passaggio tra Sonny Liston e Muhammad Alì.


Naomi Harries
Alla fine il film ha vinto tre statuette. Miglior film (i produttori sono Brad Pitt, Sarah Esberg, Dede Gardner, Andrew Hevia, Jeremy Kleiner, Tarell Alvin McCraney, John Montague, Veronica Nickel, Adele Romanski), sceneggiatura non originale (Barry Jenkins) e attore non protagonista(Mahershala Ali) 
Suicide Squad oscar per il trucco


































Nella lista dell'Academy Awards anche due italiani che vincono per il migliore make-up, Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini, insieme a Christopher Nelson per Suicide Squad. Per i costumi vince Animali selvaggi (Coleen Atwood). Montaggio sonoro Arrival (Sylvaine Bellemare). Sonoro e montaggio Hacksaw Ridge (O'Connell e Gilbert), Viola Davis di Barriere vince come migliore attrice non protagonista, Il Cliente di Farhadi come migliore film straniero, Piper di Barillaro come migliore corto d'animazione; Zootropolis di Moore-Spencer-Howard miglior lungometraggio di animazione; Il libro della giungla migliori effetti speciali ; The White Elmet di Einsiedel è il migliore documentario corto; Sing di Deak è il migliore corto live o soggetto; Manchester by the sea vince due statuette: a Casey Affleck come miglior attore e a Lonergan per la migliore sceneggiatura; infine le sei statuette di La La land: a Damien Chazelle per la regia;  Raynolds-Wasco per la scenografia; Linus Sandgren per la fotografia; Hurwitz per la migliore colonna sonora e per la migliore canzone (City of Stars) e Emma Stone come attrice protagonista.






domenica 26 febbraio 2017

Notte degli Oscar. Fuocoammare ha già vinto, anche senza statuetta




Roberto Silvestri 


L'allora primo ministro Matteo Renzi lo distribuì in blue-ray ai 27 colleghi d'Europa. Meryl Streep ne ha fatto una promozione formidabile. I critici londinesi lo hanno premiato come miglior documentario dell'anno. Così l'Europa. 
Anche se perde questa notte non si può dire che Fuocoammare, questo piccolo film di 114 minuti a colori, già insignito dell'Orso d'oro 2016, non abbia comunque già vinto la sua scommessa, e conquistato artisti, colleghi, critici, politici e grande pubblico. Infatti è uscito dappertutto, proprio come succede alle opere (qui nascoste) di Michelangelo Frammartino e a pochi altri cineasti italiani: in 23 nazioni, Giapppone e Hong Kong compresi. Per ora.
Ma cosa ha di speciale? Possibile che sia solo stato merito del buon uso di una videocamera, la ARRI Amira, che permette di catturare tutte le sfumature del buio, perfino senza il lume di candela usato da Kubrick per restituire il 700 senza elettricità di Barry Lyndon
Sarà perché, dopo lo spettro di Fellini evocato da Sorrentino, il mondo è stato riconquistato dalla "classicità-neorealista delle immagini belle, misteriose e commuoventi" di Gianfranco Rosi, come scrive The Guardian? O è per quello che ha scritto Hollywood reporter: "dove il giornalista sparisce, ecco che arriva Fuoammare".... Perché il cinema dimostra di avere occhi che penetrano perfino dentro i corpi, le rocce, i suoni, le acque e l'invisibile indicibile?

In pieno Mediterraneo, a un passo dalla Tunisia, nelle terre lontane e nei mari che solcò Ulisse, l’isola di Lampedusa, 200 chilometri a sud della Sicilia, 6000 abitanti, è l’avamposto della cattiva e della buona coscienza europea. 
In 14 anni quel mare è diventato il cimitero assurdo per 24 mila cittadini sprovvisti di visto. Centinaia di migliaia le persone accolte. 400 mila negli ultimi 20 anni. I pescatori pescano come da secoli, in barca o, in apnea, e staccano ricci dalle rocce. 
Un dottore (Pietro Bartolo) non si abitua all’orrore. Dentro e fuori il suo studio medico. Tra i superstiti, divisi in classi, i più poveri arrivano ustionati e soffocati. Gli schiavisti di una volta rispettavano di più la merce. 

Le donne del luogo spiegano il senso delle canzoni popolari, che una radio trasmette, con dedica. La marina militare si ferma a 20 miglia dalle coste libiche… Il corridoio umanitario è proibito dall’Europa. Esistono anche i crimini di pace. Non ci si può esimere dal darne testimonianza filmata, per quanto insostenibili siano certe immagini. E' l'alta lezione morale lezione recentemente traghettata da Ciprì e Maresco.
Il malessere di un dodicenne dal nome biblico, Samuele (Samuele Pucillo), è come la metafora di tutto questo. Non respira bene, ha paura del mare, ha un’occhio pigro, odia l’inglese e ama appassionatamente solo la fionda e il desiderio di vedere meglio e diventare maturo. Lo farà anche l’Europa? Che, come lui, gioca intanto alla guerra. Samuele nel frattempo cresce e diventa amico intimo degli uccellini nei boschi…Capispo trasformava tutti gli uomini che le si avvicinavano in porci e bestie feroci. Non si sa mai.


Il poster tedesco del film
Il “cinema del reale”, molto storpiato e strattonato rigeometrizzato perché non diventi un'ideologia estetizzante (e ciò irrita solo i fondamentalisti della critica), rovescia la formula del cinema commerciale (rubandogli però tutti i pregi): utilizza il procedimento documentaristico - rigorosamente senza voce fuori campo a spiegare e addomesticare ciò che si vede - che permette una conoscenza approfondita e microscopica di un territorio.  Suscita così una narrativa emozionale densa e non convenzionale, una drammaturgia raddoppiata dall'intevento attivo, anzi disputante, dello spettatore. E scodella sullo schermo (il cinema non è stilizzazione radicale di tipo teatrale) personaggi della vita di tutti i giorni, con effetti strepitosi di naturalezza. Edoardo Bruno direbbe che "abbatte la prigione della realtà, il cinema del reale, allargando i confini del reale sino al margine bianco dei sogni". Quattro fonici catturano ogni sussurro di quegli spazi e Jacopo Quadri al montaggio crea l'effetto visuale heavy metal, una potenza crescente implaccabile e implacabile.
Il lieto fine è catturare il sapore autentico di un luogo (il procedimento che adotta Jim Jarmush in Paterson, parodia del cinema-film-commission) . Non riprende la grafica dell’eroe che supera prove di fuoco quasi insuperabili e indifferenti al set, via via sfruttato, per arrivare all’happy end. 

Esperto in geografia emozionale e tra i migliori esponenti di questo genere, Gianfranco Rosi dopo l’India, Ciudad de Juarez, il deserto californiano, il raccordo anulare di Roma (che gli è valso un Leone d’oro) ha girato a Lampedusa un anno intero. L'idea questa volta non era stata sua ma, di Carla Cattani, la funzionaria che smista con perizia i nostri film in tutti i festival del mondo, e da anni. Ma di tempo in tempo un film popolare su commissione (coproduzione Rai Cinema, Arte, Cinecittà: Del Brocco e Palermo, ma anche i francesi, Oliver Pére, Martin Saada) si può trasformare in una miracolosa visione da "commissario del popolo" (la mitica figura di tutela e controllo dal basso del Soviet Supremo, cancellato da Stain e trasformato in spionaggio del basso). Non sarà un caso se i grandi cineasti italiani, da Alessandrini a Fenech, da Cardinale a Rosi (nato ad Asmara, Eritrea) siano  nati fuori dallo stivale? 
Ed è nel centro d’accoglienza provvisorio  che il film trova il suo punctum, quando cattura un indimenticabile oratorio nigeriano per voce solista inglese e coro yoruba che riassume, in pochi minuti, la tragedia del mondo.  

ps. il titolo si riferisce non solo a una vecchia canzone siciliana, che il dj di una radio pirata trasmette e che raccontava i bombardamenti alleati del 1943 contro il porto di Lampedusa, e le fiamme che lampeggiavano nel buio: Che fuoco a mare che c’è stasera. Ma ovviamente anche ai pescatori che raccontano il pericolo del mare e ai migranti. 


Notte da Oscar. Cinema d'animazione al Kubo

Mariuccia Ciotta

L'Oscar 2017 per il miglior film d'animazione è conteso da Zootropolis (Disney), Oceania (Disney), La tartaruga rossa (Francia, Belgio Giappone), La mia vita da Zucchina (Svizzera, Francia). E da Kubo e la spada magica (Usa), che, nello scarso interesse del box-office, ha già vinto due statuette d'oro “alternative”. Kubo è stato premiato, infatti, dal National Board of Review, l'Oscar di New York, e dalla British Academy Film, l'Oscar britannico, mentre concorre per l'Annie Award, l'Oscar del cinema d'animazione Usa, con tre nomination.
Opera di grande bellezza visiva e spirituale per la ricetta fusion nippo-americana, Kubo fa dell'antica stop-motion una tecnica futuribile in un'altra fusione sinestetica con il digitale dal risultato clamoroso, il movimento fluido dei“burattini”, fotografati qui 145.000 volte.
La metamorfosi prende forme iperboliche organico-inorganico-macchina in un trionfo di ali, pellicce, piume, uccelli di carta e mostri dell'immaginario vicino a Miyazaki.
Kubo e la spada magica, titolo storpiato dall'originale Kubo and the Two Strings, le due corde dello shamisen, strumento musicale giapponese, una specie di liuto che accompagna il teatro Kabuki, è una fantasmagoria di origami viventi, un viaggio verso le tenebre e ritorno di un bambino giapponese accompagnato da un padre-scarabeo e da una madre-scimmia.
Il piccolo samurai-musicista incontrerà nel percorso verso la mutazione e la paura, il pericolo e la vittoria, due zie mascherate da ombre e uno zio-drago sedotto dall'immortalità. Un'originale famiglia assassina, il Giappone avido di ultrapoteri, disposto a sacrificare la generazione dei giovani artisti sognatori.
A bordo di una nave costruita con le foglie (altro che lego) rosso cangiante e le sue vele dispiegate dentro la narrativa fiabesca del Far East, Kubo è un haiku di 101'. Un film che vanta il più grande personaggio animato a passo uno, uno scheletro gigante costruito in 19 mesi di lavoro pezzo per pezzo, più grande del gigante del fantasma del Natale presente di Dickens/Disney e del teschio di cristallo di Spielberg.
Un film imparagonabile ai modesti, arretrati titoli d'ultimo cinema d'animazione - compresi quelli candidati all'Oscar - e impossibile da concepire per una major (troppo alto il rapporto tempo-costo), confrontabile solo con la fabbrica disneyana delle origini quando, tavola dopo tavola, una schiera di disegnatori, animatori e inchiostratori plasmava storie e personaggi. Infatti, a produrre Kubo è la Laika Entertainment di Travis Knight (figlio del boss della Nike) studio specializzato in stop-motion e arrivato al suo quarto film, dopo Coraline (2009), ParaNorman (2012) e Boxtrolls (2014).




sabato 25 febbraio 2017

La nuova ricchezza degli Appennini. Quattro giornalisti e il loro primo scoop. I migrati di Francesco Paolucci



Benito Marinucci come Sergio Zavoli

di Roberto Silvestri 

Fare i turbanti per chi fa chemio
I migrati. Lavoratori immigrati dal sud e dall’est del mondo e disabili in stato d’allarme si incontrano comunicano e discutono in Italia. Per la prima volta. In un film che ha avuto  la sua anteprima mondiale alla 25ma Biennale d'arte di Osijek, in Croazia "Borders of visibility", con una menzione della giuria.
L’iniziativa, appoggiata dalla Rai, dai giornalisti del Tg2 e in particolare da Angelo Figorilli (che adesso torna negli Stati Uniti per racocntarci un pezzo di America Trump) è della Comunità XXIV Luglio, volontari aquilani che svolgono attività di assistenza, ricreazione e formazione diurna di ospiti con problemi fisici e mentali (tra l'altro dal terremoto del 2009 lavorano in un prefabbricato dopo che la loro sede storica è stata dichiarata inagibile). Davide Sabatini e Letizia Ciuffini, della Comunità 24 luglio, si sono occupati della produzione del film.
Gli ospiti, che tornano a dormire a casa, si ritrovano ogni giorno, assistiti da volontari e partecipano a corsi di recitazione, fotografia, teatro, giornalismo, ma anche semplicemente pranzano tutti insieme, organizzano visite guidate e cose del genere.
Contadini provetti
Tra le altre visite quella di un lontano 24 luglio quando molti di loro per la prima volta nella vita andarono al mare. E dal mare arrivano in questi anni molti cittadini in cerca di aiuto. E non arrivano tutti quelli che sono partiti dalle loro case…. 
Se due grandi forze si incontrano, scontrano e uniscono per cambiare il mondo, o almeno i loro mondi, e partendo da soggettività diversamente in rivolta, neppure le mura di Gerico riescono a fermarle.

Non lasciatevi ingannare, poi, dalle cattive abitudini o dagli sguardi addomesticati.
Handicap e disabilità sono parole che soprattutto nel mondo post industriale hanno sempre meno senso, perché non è più la fabbrica a regolare eugeneticamente ritmi e gesti millimetrici di produzione. Gli operai quei contenitori giganteschi e putrescenti di zombie asserviti al montaggio in catena, li hanno definitivamente rasi al suolo. Lingotto è quel che è oggi grazie alla vil razza pagana che terrorizzò come fosse più un mostro che uno spettro dal ’69 al ‘79. Nel mondo del lavoro immateriale di oggi non è la meritocrazia perfomativa ripetitiva e sotto servitù che conta, ma il lavoro cognitivo a 360 gradi, la performance inventiva che assoggetta robot a robot e ne crea di nuovi. Inventiva sociale che meriterebbe salario di cittadinanza subito e per tutti, comunitari, extracomunitari e brexitcomunitari (non come urla il leader dei neonazionalisti del M5S) e non lavoro di cittadinanza, quell’incubo minacciato da Renzi e dai suoi critici di sinistra e estrema sinistra. Chi è abituato al dribbling della mente e del corpo, invece, si incontra e allea molto facilmente con chi è costretto ai dribbling quotidiani per scavalcare dogane, predoni, agenti calcisitci e burocrazie di ogni tipo. Lo vediamo perfettamente in questo film. Inoltre.   



E’ la ricchezza dei migranti che fa paura, non la loro debolezza. La loro bellezza, eleganza, energia radiante, non la loro fragilità (confrontate i corpi che scendono dal barcone o dal gommone, pur provati, con i toxic avenger spesso adiposi di chi li avvolge in coperte) che terrorizza il patetico razzista. La strapotenza, interiore ed esteriore, morale e fisica. Un manifesto pubblicitario incontrastabile per la transculturalità è questo I migrati. Rispetto ad altri documentari simili (quello bellissimo di Domenico Distilo, per esempio, Inatteso, 2005) non è la rabbia o il risentimento contro il bizantinismo istituzionale e la durezza concentrazionaria dell’Europa ad essere radiografati e esposti alla pubblica indignazione. Quel che si mette in risalto qui è proprio una  doppia mancanza di risentimento. La voglia di aprire capitoli altro. L’egemonia dei profughi politici stranieri e degli outsider nostrani. Stupefacente.
Quella forza che fa rischiare la vita a uomini donne e bambini perché solo il viaggio omerico (nel senso dell’atto dovuto al richiedente asilo, perché clandestini siamo noi se li aspettiamo a casa col ghigno di Trump) può strappar catene, persecuzioni, carestie prodotte da chi sottosviluppa da almeno 5 secoli le loro terre. Ma anche quella vis multifamiliare che connette la maggioranza dei profughi afroasiatici a chi resta a casa, in Camerun, Gambia, Senegal, Nigeria, Burkina Faso, Gabon, Costa d’Avorio, Bangladesh, Pakistan, Siria…. Una rete più potente di ogni social network. Una bomba atomica spirituale d’immane potenza, come fu quella delle nostre famiglie pugliesi, friulane, siciliane, toscane, campane, calabresi che protessero il ciclo dell’emigrazione italiana non solo in America e Nord Europa nel secolo scorso, ma anche in Africa. Ricordiamoci che in Tunisia c’erano più italiani che francesi. E non era nostra colonia.   Non ci credete che è questa strapotenza che terrorizza? Eppure vediamo in un attimo degli esuli politici del Bangladesh giocare a cricket. Se fossimo un po’ più scaltri, e trattassimo meglio i richiedenti asilo, potremmo oggi contare su una squadra transnazionale di cricket da sei nazioni e che tremare il mondo fa come West Indies o Pakistan. Invece. Addirittura a Lecce ricordo che li hanno cacciati dall’ex campo sportivo Carlo Pranzo dove si allenavano indiani e pakistani, per fare un parking. E poi i leccesi si meravigliano perché hanno perso contro Matera l’occasione del secolo. Essere capitale della cultura. Ci vuole un po’ di cultura odierna per meritare la cultura passata rigogliosa della Lecce barocca.    
Benito Marinucci al centro
Dunque è un Tg2 Dossier davvero speciale quello va in onda tra poco, oggi 25 febbraio alle 23,50 su Raidue, visto che l’emittente cattolica Tv2000, diretta dall'ex Rai Ruffini, in miracoloso accordo distributivo, replica alle 19.05 di domani. Il giovane filmmaker Francesco Paolucci ha diretto un’inchiesta giornalistica estremamente strana, I migrati. Frutto di un incontro tra professionisti della comunicazione (operatori, fonici, musicisti come Francesco Conatoni e Tommaso Ciotti) e quattro loro allievi addestrati a far domande, col taccuino in mano, come quelle dei giornalisti più saggi, che sembrano inguaribilmente ingenue e invece sono quelle più illuminanti e alchemicamente corrette. I 4 reporter trascinati dal più grintoso di tutti, Benito Marinucci (gli altri sono Barbara Fontanazza, Gianluca Corsi, Giovanni Diletti) girano in piena estate su un pulmino per i paesi dell'Appennino che hanno accolto i migranti, dalle Marche al Molise, all’Abruzzo. E qualcuno di quei villaggi sarà, dopo, anche terremotato per ringraziamento. Fanno domande agli ospiti, agli uomini e alle donne che hanno trovato lavoro e a chi lo sta cercando, alle comunità che li accolgono, ai paesani in piazza, non tutti sempre altrettanto entusiasti e curiosi come i nostri moschettieri, e discutono tra di loro. “Come fanno senza la loro famiglia? Come faranno a girare per l’Italia questi ragazzi senza passaporto? Non potranno trovar salario, casa… E poi sono musulmani. Che vuol dire? Perché fanno il Ramadan?".
Poi arriva la sequenza delle donne. Bellissime. Elegantissime. Coltissime. Affascinanti. E quel frammento coordinato da Barbara Fontanazza vale tutto il film. Quando avviene il contact. Di testa. Di pansia. Di cuore. 








domenica 19 febbraio 2017

Jackie, sotto il vestito (Chanel) niente

Mariuccia Ciotta

Vestita di rosa e rosso Chanel, decorativa first lady resuscitata da Pablo Larrain in un falso reportage in bianco e nero, Jackie, proveniente dalla Mostra di Venezia (esce giovedì 23 febbraio) irretisce lo sguardo nella superba performance di Natalie Portman.
Jacqueline apre le porte della Casa bianca alla Cbs e al regista cileno di Post Mortem che la declina in leziosa, elegante donnina e poi in un'implacabile vedova capace di allestire funerali spettacolari in mondovisione.
Lo stesso trattamento cinico Larrain l'ha riservato al poeta Neruda (2016) presentato alla Quinzaine di Cannes, e anch'esso acclamato da gran parte della critica. A questo proposito cito Goffredo Fofi, che così conclude la sua recensione (benevola) su Internazionale: “Quel che è meno accettabile è (...) la sua presunzione autoriale, il suo scarso o nullo amore per i personaggi che sono ridotti a pedine del suo gioco. Larrain non ha nessuna voglia di spiegare la storia (…) e il suo scopo non sembra essere quello di chiarire ma quello, ancora una volta, di imbrogliare”.
Esteta innamorato dei suoi “quadri”, di un punto di colore che spicca sull'arredamento sfumato in azzurro, Larrain ama orchestrare il set e le pieghe delle gonne. Non ha a cuore né Jacqueline né Neruda (chissà Allende) né John F. Kennedy, un mito di cartapesta, viveur, tombeur de femme, l'uomo con cui Jackie “non dorme più da tempo”, il presidente al centro del film, nascosto dietro la donna-schermo che ne imbelletta il ricordo fino a imbrattarlo davanti al taccuino di un giornalista avido, come il regista, di mondanità e colore, lacrime e cronaca di quel cervello schizzato sul cofano dell'auto per le vie di Dallas il 22 novembre 1963.

Il cineasta cileno al suo primo film americano (prodotto da Darren Aronofsky, regista del Cigno nero, star Natalie Portman) è inebriato dalla contraffazione storica espressa da una così dolce bocca, l'altra parte della coppia patinata, la più bella, la più amata, Jacqueline, che ha la stoffa pregiata dell'alta moda, gli abiti d'oro, di raso, di pizzo provati a ripetizione davanti allo schermo in vista della cerimonia funebre.
Larrain dirige su una sceneggiatura non sua che ha ricevuto diversi no da registi Usa, e dove il presidente Kennedy per tre volte viene definito un “cacciatore di comunisti”. L'autore è Noah Oppenheim, giornalista e presidente di Nbc news, sceneggiatore di diverse serie tv di successo, premiato a Venezia per Jackie, film che arriva all'Oscar con tre candidature, attrice (Portman), costumi (Madeline Fontaine), colonna sonora (Mica Levi).
Abbagliato dalle scenografie del francese Jean Rabasse (Oscar, ha lavorato in due film di Bertolucci), lo sguardo si distrae e si perde nella prova mimetica dell'israeliana Natalie Portman, sovrapposta alla vera Jacqueline, voce stridula compresa, e l'orecchio è inondato dalle musiche della britannica Micachu (Mica Levi) tanto che il suono delle immagini si eclissa in uno splendore formale, grazie anche alla presenza di un altro francese, Stéphane Fontaine, direttore della fotografia, e di un'altra Fontaine, Madeline, celebre per aver cucito i vestiti di Il meraviglioso mondo di Amelie. E ci siamo vicini con Jackie tutta superficie e bagliori nel mondo fatato di Camelot, evocato durante l'intervista rilasciata da Jacqueline a Theodore H. White di Life dopo quattro giorni dall'omicidio, gli stessi raccontati nel film. In quella occasione, la first lady dichiarò che il marito preferiva tra tutti i musical di Broadway Camelot, regno leggendario dominato da bontà e giustizia. “Trovata pubblicitaria” per dare idealità alla presidenza e incoronare il frivolo marito novello re Artù? Sì, dice Larrain, che si rispecchia in quella meravigliosa parata di principi e principesse hollywoodiani, necessari al suo cinema sfavillante dell'apparenza.

Il regista nell'affondare l'America anni Sessanta ama il suo duetto divistico, Jackie e John, sostenuto dalla sceneggiatura premiata alla Mostra di Venezia, che osa il dialogo tra Jacqueline e Robert Kennedy (ucciso cinque anni dopo), il quale confessa, di fronte al carrozzone delle esequie imminenti, che il fratello presidente in realtà non avrebbe agito a favore dei diritti civili (in quegli anni si afferma il movimento per i diritti civili degli afroamericani) e contro la guerra in Vietnam. Quando, parola del vero Robert McNamara, segretario della Difesa, JFK la guerra cercò di frenarla. Il “merito” di combattere i vietcong se lo prenderà tutto Lyndon Johnson, lamenta il Bob di Larrain, che infierisce: l'unico pasticcio risolto l'avrebbe combinato proprio lui, John. Quale? L'assalto alla Baia dei Porci, ovvero il tentativo di invadere Cuba da parte di forze anti-castriste con il sopporto della Cia durante l'amministrazione Eisenhower. Come si sa, John F. Kennedy appena arrivato alla presidenza si rifiutò di appoggiare l'invasione dell'isola. E per questo, probabilmente, fu ucciso. “La soluzione del pasticcio” di cui parla il Bob di Jackie è il “no” di JFK ai bombardamenti delle navi russe durante la crisi dei missili di Cuba, atto che impedì lo scoppio della terza guerra mondiale.
Ma non staremo a badare a queste parole al margine della scena visivamente lussuosa e vertiginosa tra le pareti dello studio ovale, lungo prospettive alterate, quasi un 3D dentro spazi oscillanti tra pop e suggestioni pittoriche. Una scena riempita dalla sofferente Jacqueline Kennedy in tailleur color confetto, ignara dell'uccisione di Lee Harvey Oswald che definirà distrattamente un “comunistello”, ammazzato prima di confessare, dice lei, a causa diquesti servizi segreti così inefficienti”. Più che “inefficienti”, i servizi furono i probabili mandanti dell'assassinio di Oswald, ucciso per impedirgli di parlare da Jack Ruby nella Centrale di polizia di Dallas.

La memoria sfuma nel film che prende a pretesto un'epoca per travestirla di niente e altera perfino il celebre filmino di Zapruder, ricostruito dal regista con angolazioni diverse, in ossequio alla Commissione Warren (“una sola pallottola, un solo killer”). E così in controluce passa alla storia la versione di Pablo Larrain dell'America kennedyana, e anche l'aberrazione di un fotografia iconica, quella di Jacqueline Kennedy con il completino rosa macchiato di sangue sovrapposta all'immagine televisiva in bianco e nero. Ci vorrebbe qui un commento di Serge Daney.
Non è un film su John, ma su Jacqueline? Sull'elaborazione del lutto? Già, per dare sostanza al marito vanesio, Jackie lo imbottisce di Lincoln, non prima, però, ignorantella, di aver letto qualche libro sul presidente che abolì la schiavitù. Jacqueline, come si sa, era stata giornalista, era laureata, veniva dall'alta borghesia, ma secondo il film non sapeva bene chi fosse quel Lincoln che troneggiava nella sua camera da letto su un leggio. E neppure chi fosse John. Il presidente democratico che aveva ricucito il filo spezzato dell'America di Franklin D. Roosevelt, quello che aveva dato una speranza alla generazione uscita dal maccartismo e dalla “caccia ai rossi”.
La stucchevole Jackie avvolta nella carta stagnola fa piangere per un presidente che, secondo Larrain, era solo immagine? Commuove di più la Jackie di Andy Warhol che catturò il suo viso prima con le labbra rosse e gli occhi bistrati, poi sotto il velo nero, senza orpelli, così com'era, ombra sfocata di fronte a una bara.



I classici alla radio. Il matrimonio di Maria Braun, stasera e in podcast


 
Hanna Schygulla in Il matrimonio di Maria Braun (1978) di R.W.Fassbinder


Roberto Silvestri





Stasera su Radiotre



A 35 anni dalla morte – nel giorno di chiusura della Berlinale 2017 – Hollywood Party-Il cinema alla radio, per la prima volta rende omaggio, questa sera 19 febbraio 2017 a Rainer Werner Fassbinder (1946-1982) presentando e commentando Il matrimonio di Maria Braun, con Hanna Schygulla, che a Berlino nel 1979 vinse il premio come miglior attrice (e poi conquistò un David di Donatello).


Una delle prime scene del film, nella Berlino distrutta
Si tratta di un melodramma anomalo, nel senso che le fitte relazioni sentimentali tra i personaggi non prescindono dal quadro politico degli eventi che si sono svolti in Germania dal 1943 al 1954. Insomma è un melo di combattimento, niente affatto consolatorio, con al centro una donna berlinese dal nome qualunque ma che non è una donna qualunque. Travolta come tutti dal tracollo del nazismo e dalla distruzione del paese, Hanna è la metafora della Germania che si ricostruisce, della grandezza e degli orrori del miracolo economico tedesco. Con ogni mezzo necessario, omicidio compreso, tranne quello di mettere in discussione il suo amore perenne per Herman, suo marito (cioè per la patria), Maria passerà dalla più grande miseria alla ricchezza e al potere, simulando l’intera gamma dei sentimenti disponibili. Per questo, pur essendo una donna forte e autonoma, non è una distruttricve di archetipi, come la femme fatale dei thriller noir Usa anni 40 e postbellici in particollare, piuttosto una fedele d’amore, come Rossella O’Hara di Via col vento. Costretta a un surpuls di fantasia per ricostruire la propria identità. Perché anche l’amore nel capitalismo, ci dice Fassbinder, “è un rapporto di produzione e riproduzione da distruggere”.   




Alla fine del film scorrono, non a caso, le foto dei cancellieri del terzo Reich e della Germania federale, da Hitler al primo premier gay, Helmut Schmidt (tranne Brandt).




…chi ama di più è sottomesso all’altro, questo è il problema. E chi ama di meno ha più potere. Quindi tutti i rapporti d’amore sono schifosi.  Ogni scena ha una sola inquadratura.  Ogni inquadratura ha un significato morale. Lo zoom fa immagini morte (Rainer Werner Fassbinder)






Ma chi è questo Fassbinder?



Regista tedesco omosessuale e anche bisessuale, autodidatta, morto di droga a 37 anni.



Jan Dawson, la critica angloamericana che ha più studiato il nuovo cinema tedesco, lo definiva, paradossalmente, e sottolineando più il secondo sostantivo del primo, un “misogino femminista” .



Amava molto andare al Lido Venezia, durante la Mostra, per vedere film e andare a Cannes, durante il festival, per mangiare ostriche con gli amici da Astoux.



C’è però, soprattutto tra i giovani non necrorealisti, chi conosce più Fassbender di Fassbinder. Ma, magari, vorrebbe recuperare, vedendo qualche suo film. Allora, quali sono i film di Fassbinder che Fassbinder consiglierebbe a un giovane cinefilo (Il matrimonio di Maria Braun a parte)?  Questi.



Despair, Lola, Veronika Voss e Il dio della peste. Altri, più importanti che belli, Terza generazione, Nell’anno delle 13 lune e Attenzione alla puttana santa. Poi, ancora belli Effi Briest e le 15 ore di Berlin Alexanderplatz…



“Voglio fare film belli ed entusiasmanti come quelli di Hollywood, ma non ipocriti. Devono essere film che piacciono a tutto il mondo, ma mai concilianti. Nei melodrammi di Sirk per esempio i personaggi non erano felici. Ecco perché mi piacciono più degli altri mélo di Hollywood. Poca natura nei miei film? Sì. La natura in genere è utilizzata per essere bella, rassicurante e consolatoria, per offrire allo spettatore una via di fuga”.



Il remake da Secondo amore di Sirk, Tutti gli altri lo chiamano Alì
Il suo maestro è stato dunque il connazionale di Amburgo Douglas Sirk (Dietlef Sierck) emigrato negli Stati Uniti per ovvi motivi antihitleriani e autore negli anni 50 di film  “belli e entusiasmanti”, ma mai rassicuranti: “nei suoi film i personaggi non erano felici, e il mondo che li imprigionava non era il migliore dei mondi possibili” scrisse in un celebre saggio sul cineasta adorato. Ricordiamo i titoli di questi capolavori: Tempo di uccidere tempo di morire (ambientato in Germania proprio durante la seconda guerra mondiale), Lo specchio della vita, Come le foglie al vento, La magnifica ossessione e Secondo amore, che Fassbinder rifece in Tutti gli altri lo chiamano Alì. La lista dei film preferiti da Fassbinder dimostra  che, come Sirk, preferiva i budget più sostanziosi, anche davanti a esperimenti difficilissimi come Berlin Alexanderplatz, dove ha dimostrato una una sicurezza di fraseggio e una  padronanza strutturale stupefacente.












Il matrimonio di Maria Braun





“E’ un film sull’ambiguità della condizione femminile, sull’aberrazione, la perversione cui l’amore è costretto dagli schemi patriarcali del comportamento sociale e che toglie alla donna ogni libertà, ogni potere di autodeterminazione. In particolare durante la patologica situazione della Germania post 1945”.





Maria e Hermann
Schermo panoramico. 35mm. Fujicolor. 120 minuti.

Berlino 1943. Maria e Hermann Braun si sposano in municipio sotto i bombardamenti. Il funzionario pubblico scapperebbe per la paura, se non venisse costretto a firmare il certificato, bocconi sull’asfalto. I pianti di bambini che si sentono sotto il bombardamento sono un riferimento ai ricordi autobiografici di Fassbinder, nato proprio nel 1945 nella Baviera bombardata.

Titoli di testa rosso sangue, piuttosto impressionante la caduta a pioggia dei nomi, spesso di collaboratori celebri di Fassbinder come Hanna Schygulla, il corpulento Peter Berlin, che fa Bronski, il tenutario del bar per soldati americani, gli sceneggiatori Peter Marthesheimer e Pea Frolich; il direttore della fotografia Michael Ballhaus (che interpreta anche la parte dell’ avvocato di Hermann); il musicista Peer Raben, che interviene in modo parco, con macchie dense e emozionanti che quadruplicano l’effetto delle immagini in una sorta di zoom dell’anima (o dell’inconscio); la madre nella parte della segretaria di Maria Braun nell’industria tessila (con lo pseudonimo di Lilo Pempeit) e lo stesso Fassbinder che nel film è il borsista nero, colto lettore di Kleist….

La radiocronaca di Germania Ungheria, 1954
Una sinfonia di Beethoven viene interrotto dal programma radiofonico “Suchmeldungen” che informava sui morti e sui dispersi. Sui muri di Berlino si legge la scritta LSR che sta per "Luftschutzraum,"  "air raid shelter", quella che segnalava i rifugi anti-aerei della zona.



Si passa alla stazione ferroviaria. Donne e familiari cercano i loro cari, sperando che tornino dal fronte. Hanna cerca il marito disperso con un cartello sulla schiena. La scena sarà citata da Zhang Yimou in Lettera da uno sconosciuto con Gong Li (2014). E anticipa la tecnica polemica delle tante donne di piazza di maggio, a Buenos Aires. Da notare in queste prime sequenze le doti non comuni di cultura e di fermezza morale di Maria Braun, per esempio nei confronti dei militari americani che umiliano gli affamati tedeschi.  Il suo nazionalismo. Non avrà remore neppure a farla finita con le persone che le piacciono, ma che non ama. Lei ama solo, tragicamente, l’ex ufficiale Hermann. Che non è morto. Che tornerà. Che si farà incolpare di un crimine non commesso da lui ma da lei. Che scapperà in Canada per non ostruire una relazione ‘importante’ di Maria con un industriale franco-tedesco antinazista che l’adora. Che tornerà a Berlino solo nel momento giusto. Durante il fatale secondo tempo di Ungheria-Germania ai mondiali del 1954 in Svizzera….




Vita spericolata certificata



Rainer Werner Fassbinder è nato in Baviera, a Bad Worishofen, figlio unico di Liselotte Eder, intellettuale e traduttrice di prestigio (poi quasi sempre presente nei film del figlio, in genere con lo psudonimo di Lilo Pempeit), e di Helmut Fassbinder, presto divorziati. Nel 1965-1966 realizza due corti dedicati a Rohmer e a Godard, Il vagabondo e Il piccolo caos. Diventerà presto, da mangiatore di film, il più prolifico dei registi moderni, dai ritmi produttivi degni dell’epoca muta (40 film in 36 anni di vita, più radiodrammi, regie teatrali, serie e film per la tv, scritti critici e teorici mozzafiato) e sicuramente quello che ha avuto più successo, sia critico che popolare, in Germania Federale, soprattutto dopo il film che presentiamo questa sera.  

Si tratta del primo segmento di un quintetto di film, esplicitamente popolari - a differenze delle sue prime opere, più circoscritte a un pubblico colto e ristretto, dalle esigenze estetiche straubiane - cioè capaci di comunicare con tutti i tedeschi, e oltre, e dedicati alla storia patria, dal nazismo a Helmut Schmidt (Berlin Alexanderplatz, 1980; Lili Marleen, 1981, Lola, 1981 e Veronika Voss, 1982), attraverso la tragica lotta per la vita di indimenticabili personaggi, per lo più femminili. Si tratta anche di uno dei 20 film realizzati con l’apporto centrale di Hanna Schygulla, un sodalizio perenne, quasi una simbiosi, più profondo addirittura di quello tra Marlene Dietrich e Joseph Von Sternberg.



con Andy Warhol sul set di Querelle


L’orribile Rft



Tra i 1001 film da vedere prima di morire c’è, parola di Steven Schneider, proprio Il matrimonio di Maria Braun, fiammeggiante melodramma alla Douglas Sirk che il cineasta e drammaturgo tedesco Rainer Werner Fassbinder diresse a colori nel 1978, e che l’interpretazione della mattatrice Hannah Schygulla trasformò, secondo un altro influente critico statunitense, Roger Ebert, in un capolavoro del cinema. Capolavori, cioé?  Quei particolari film che si “rigenerano” a ogni visione e sono pronti a offrirci sempre nuove e più avvincenti interpretazioni. Come se la storia illuminasse la potenzialità profetica di quelle immagini…  




R.W. Fassbinder voleva fare, con questo film, un bilancio, amarissimo, degli oltre 30 anni di democrazia nella Repubblica Federale: “Non sono state sfruttate tutte le possibilità che la Germania aveva per trasformarsi radicalmente – dichiarò il cineasta bavarese – e alla fin fine le strutture e i valori su cui si basa lo Stato, l’odierna democrazia, sono rimasti fondamentalmente gli stessi di prima. A ciò si aggiunga che stiamo attraversando una fase d’involuzione verso un tipo di stato nel quale non vorrei proprio vivere”.

Sono gli anni della violentissima repressione del movimento anticapitalista e antiimperialista tedesco, armato e clandestino (Raf) ma anche pacifico e franco, che assunse, anche lì oltre che qui, forme assai poco consone a uno stato di diritto.

Sono i mesi di Germania in Autunno, il documentario a più voci girato durante i funerali delle vittime di Stammheim, requiem di un movimento anti-sistemico sconfitto.

Sono quelli i giorni in cui Fassbinder dichiara di volersi trasferire all’estero, negli Stati Uniti, preferibilmente. O a Parigi.

Siamo nell’epoca delle assurde polemiche contro uno spettacolo teatrale di Fassbinder, Der Mull, die Stadt und der Tod (1976), cioè La spazzatura, la città, la morte, che venne accusato di antisemitismo e mai rappresentato in Germania (mentre era una agghiacciante radiografia delle sua pericolosa permanenza nel cuore delle istituzioni di Bonn) dagli stessi organi di stampa reazionari e antisemiti che schiamazzavano, come Bild.

Il 28 gennaio del 1972, il cancelliere Willy Brandt, aveva emanato il Radikalenerlass che, in risposta alle azioni cruente della Raf, non solo esigeva l’espulsione dalle scuole e dalle istituzioni pubbliche di chiunque aderisse a ideologie radicali o a organizzazioni comuniste, ma istigava i cittadini a fare la spia. Come in una replica del maccartismo. Il “berufverbot”, come lo chiamavano gli oppositori di questo decreto che contraddice la libertà di opinione in un paese democratico (e garantita dalla costituzione tedesca) fu abolito nel 1979, ma non in Baviera. E il consiglio d’Europa nel 1995 costrinse la Germania unificata a pagare gli arretrati a una insegnante, Dorothea Vogt,  militante comunista espulsa dall’insegnamento perché “pericolosa”, in base agli articoli 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di organizzazione) della costituzione tedesca. Questo  film è un proiettile di precisione scagliato contro il tentativo dello Stato di uniformare il pensiero e il comportamento dei propri cittadini, rendendoli docili e pronti all’autosfruttamento. Per non  dire e pensare le stesse cose i film di Fassbinder sono tutti un antidoto eccellente.   Anche perché il regista conosceva bene queste pratiche. Ha dovuto rinunciare a molti progetti, considerati film “sovversivi” dai finanziatori pubblici cinetelevisivi, e negli anni della sua prima attività teatrale si era visto chiudere d’arbitrio il suo spazio scenico, l’action theater (poi riaperto e chiamato Anti-Theater), proprio nel maggio del 1968.





Il Nuovo cinema tedesco



R.W. Fassbinder, intellettuale e artista radicale, di rigorosa formazione attoriale e teatrale, cinefilo e autodidatta (non esistevano scuole di cinema in Germania fino agli anni 70…), ammiratore e studioso contemporaneamente di Godard e della Hollywood classica, di Brecht e di Sirk, di infaticabile e febbrile attività creativa, è stato il simbolo stesso del “Nuovo cinema tedesco”, con Wenders, Syberberg, Reitz, Herzog, Schloendorff, Kluge, Helke Sander, Helma Sanders Brahm, Margarethe von Trotta, per non parlare di operatori, sceneggiatori, scenografi, musicisti, fonici e costumisti d’avanguardia. Quel movimento  di rivoluzionari del cinema esploso tra gli anni ‘60 e ’80 che ha modificato il sapore e il tatto delle immagini planetarie. Fassbinder ha operato sempre in stretta collaborazione con la sua Factory, un folto gruppo, anzi una autentica comune sessantottina di artisti, di cui fecero parte tra gli altri l’attrice Hanna Schygulla, i direttori della fotografia Michael Ballhaus e Xavier Schwarzenberger, l’attore e scenografo Kurt Raab, il musicista Peer Raben, la super-star Ingrid Caven (una delle sue due mogli)…



Come tutte le nouvelle vague, dell’est e dell’ovest europeo, dell’est e dell’ovest mondiale, anche quello tedesco, disomogeneo poeticamente e geograficamente, ma radicale artisticamente, aveva l’obiettivo di affondare e ricostruire completamente dalle fondamenta una cinematografia nazionale in profonda crisi di idee e di profitti.

L’industria tedesca del cinema, deformata a puro braccio propagandistico tra il 1933 e il 1945, anche nel secondo dopoguerra per responsabilità dei governi cristiano-democratici di Konrad Adenauer (49-63),  Ludwig Erhard (63-66) e Kurt George Kiesinger (66-69), spesso infarciti di ex gerarchi nazisti riciclati, ormai disinteressati al cinema, aveva vivacchiato solo per iniziativa privata imitando il cinema americano di serie b, prima, e di serie a, successivamente, con risultati di mercato via via sempre più disastrosi.



Sei fattori spiegano l’esplosione mondiale del Nuovo Cinema Tedesco: 1. Il ritorno stilistico e tematico all’eredità nazionale, di un cinema che era stato tra il 1922 e il 1933 ai vertici mondiali, ai  classici espressionisti e anti-borghese di Lang, Murnau, Pabst e Lubitsch… 2. l’accurata ricerca formale, la non rimozione del passato storico, la sensibilità politica acuta e le novità di linguaggio; 3. il basso costo delle produzioni; 4. il legame fortissimo sia con la ricerca teatrale più avanzata che 5. con le televisioni statali, affamate di opere originali e messe in grado di produrre; 6. l’avvio di una politica di finanziamenti pubblici al cinema, in risposta al manifesto di Oberhausen.

Si tratta di un testo redatto da 25 cineasti che il 28 febbraio 1962, durante il celebre festival dell’avanguardia, analizzarono lo stato penoso della cinematografia tedesca, auspicando la nascita di un cinema libero da condizionamenti commerciali, culturali e estetici (dal 1968 si prelevarono così 10 centesimi di marco per ogni biglietto venduto e così finanziare il cinema di qualità tedesco).

I novissimi film tedeschi conquistarono in breve tempo mercati, critica e festival internazionali - Fassbinder collezionò da solo ben 25 premi - e  osarono fare i conti con il passato, senza cedere alla rimozione dominante, e facendo parlare i fatti del presente senza adulazioni né ipocrisia.   




Il matrimonio di Maria Braun, melodramma di straordinaria violenza emozionale e profondamente radicato nella storia tedesca, ambientato tra il 1943 e il 1954 nella Berlino della guerra, della sconfitta, della fame e della ricostruzione, dai bombardamenti rovinosi al riarmo, all’anticomunismo viscerale e alla vittoria “miracolosa” a Berna della Coppa del Mondo di calcio a Berna contro la favoritissima Ungheria di Puskas per 3-2. 



I sottoprivilegiati



Girato nel 1978, il Matrimonio di Maria Braun aveva un iniziale sviluppo di 8 ore (non è solo David Lynch o Lav Diaz o la serialità tv che hanno bisogno per le loro storie di tempi lunghi…) ma il lavoro di pre-sceneggiatura compiuto da Peter Marthesheimer e Pea Frolich è riuscito a sintetizzare le cose e a trasformarlo in film commerciale di qualità. Fu il primo della lunga (e finale, per la drammatica e improvvsa morte del regista) serie di successi internazionali Berlin Alexanderplatz, Lili Marlene, Lola, Veronika Voss e Querelle, che non vinse a Venezia solo per l’opposizione di un cineasta, adorato da Fassbinder, come Tarkowski, scandalizzato dalla sfacciata esibizione di pulsioni omosessuali contenute nel testo origine di Jean Genet.



Il poster polacco del film
Tutti insieme raccontano la storia della Germania dal punto di vista della lotta per la sopravvivenza di quelli che Fassbinder chiamava i sottoprivilegiati, perché i più oppressi e “indeboliti” socialmente, hanno la vista più lunga. Omosessuali, sottoproletari e soprattutto donne.



“Le donne - ha scritto Fassbinder - sentono in maniera più veloce, molto prima, che qualcosa non funziona, che non va… Io trovo che il comportamento forzato della donna nella società dica molto di più su questa società che il comportamento degli uomini i quali preferiscono generalmente vivere come se tutto andasse bene”.  

Dopo un primo blocco iniziale di circa dieci film in bianco e nero legati al periodo dell’Anti-teater, o film sociali ambientati nel milieu piccolo borghese (come Katzelmacher/Terrone; Dei della peste; Attenti alla santa puttana…) o meta-film sul cinema, per lo più ispirati ai noir hollywoodiano, il secondo blocco della produzione fassbinderiana, che arriva fino a Despair, è ispirato a drammi o romanzi (di Cornel Woolrich, Kroetz, Clara Both Luce, Theodor Fontane, Ibsen (Nora Helmer, Lacrime amare di Petra von Kant,  La paura mangia l’anima,  Effi Briest,  Nessuna festa per la morte del cane di Satana, Roulette cinese….) rispettosi fino alla lettera dei testi utilizzati. Il terzo periodo più poetico-politico, comprende anche la partecipazione a un pamphlet visceralmente extra-istituzionale con il suo episodio autobiografico in Germania in autunno, e anche due o tre cose non adulatrici né apologetiche sulla lotta armata di In un anno con 13 lune e La terza generazione). Infine la pentalogia storica, da Maria Braun in poi, ovvero su come la “sindome nazista”, congenita alla borghesia tedesca fin dall’inizio del secolo scorso, non sia ancora stata debellata.  E che un modo per decostruirla era radiografare profondamente le zone dark del soggetto, utilizzando la prima persona singolare maschile omosessuale. Il suo sguardo.






Il gran finale



“Qualcuno che si sforza di trovare la propria identità con ogni mezzo necessario in una società come la nostra. Faccio sempre lo stesso film su questo”. E ancora: “Nel sistema in cui viviano non credo sia possibile amare. Dato che il nostro è un sistema di sfruttamento anche l’amore è sfruttato. Succede. E’ una cosa spaventosa. Posso consigliare il desiderio di amare, non di amare. Nei miei film gli uomini soffrono di più, perché non liberano mai la fantasia che hanno le donne. E cinema per me è qualcosa che ha a che fare proprio con la fantasia. Il desiderio di fantasia delle donne è più intenso di quello dei cosiddetti eroi. Per me è importante il legame che si instaura tra l’attore, il mondo fantastico che riesce a evocare e la fantasia che si sviluppa nello spettatore. Lo spettatore completa il film che io inizio e l’attore prosegue”…






Hanna Schygulla è stata doppiata in italiano da Ludovica Modugno, direttore di doppiaggio Giacomo Magagnini. Klaus Lowitsch fa Hermann. Oswald è interpretato dall'attore di origini franco-russe Ivan Desny; la madre di Maria Baun è Gisela Uhlen (e vincerà molti premi per la sua intepretazione). Gottfried John, del clan Fassbinder, fa Willi il sindacalista di estrema sinistra e marito inquieto di Betti (che è Elizabeth Trissenhaar). Il militare nero che la molesta sul treno è Gunther Kaufman. Altri attori fissi Gunther Lamprecht (che farà Berlin Alexanderplatz nel ruolo del protagonista Franz Biberkopf), Hark Bohm che è il fido partner di Oswald, il commercialista Senkenberg, Gerog Byrd che è Bill, il sottufficiale african-american che frequenta il locale per militari Usa ripieno di dischi di Glenn Miller, Moonlight Serenade, In the mood, Sunrise Serenade, etc...Isolde Barth è la collega di lavoro al bar di Maria, Vivi. Le musiche sono di Peer Raben (il sonoro della versione italiana molto complessa mi pare semplificato nel missaggio), ma si intrecciano con molta musica classica tedesca, da Beethoven a Mozart (conerto per piano n.23). Frasi celebri del film: Maria al marito in carcere: "Lacché si dice in Grecia, ma io non sono il tuo lacché, sono tua moglie". Nella scena tradotta in italiano dello scontro sindacale, piuttosto efficace nello spiegare la cooptazione dei sindacati operai all'interno della logica capitalistica, grazie a un regime salariate più alto che nel resto d'Europa (è l'ordocapitalismo del compromesso padroni-operai) Maria a un certo punto afferma: "Sono una maestra nella simulazione. Di giorno plutocratica agente del capitale e di notte reazionaria agente delle masse. La Matha Hari del miracolo economico tedesco". Quel reazionaria della tradiuzione italiana nell'originale non c'è. Da notare nella stessa scena l'ironia sui giornalisti. Lei cosa ne pensa di questo accordo? "Non ho opinioni, sono un giornalista!". La canzone cantata nella festa di compleanno della madre di Maria è Capri Fisher eseguita dal celebre tenore Rudi Schuricke, una delle tante canzoni po esotiche sull'amicizia tra il popolo tedesco e quello italiano che fu tra i dischi requisiti dagli alleati dopo la sconfitta dei nazisti. Invece quando Willi e Maria passeggiano tra i ruderi della vecchia scuola è Caterina Valente che canta in tedesco I love Paris di Cole Porter, Ganz Paris Traunt von der liebe. A Willi che fa la battuta femminista "la coscienza sociale arranca dietro gli sviluppi della realtà, Maria replica: "Sono gli sviluppi dlela realtà ad arrancare dietro la mia coscienza".