lunedì 13 febbraio 2017

Prequel, sequel e requiem. Arrival, la Fantascienza sofisticata di Denis Villeneuve




di Roberto Silvestri 


Amy Adams
Alieno incontra uomo. Arriva dentro gigantesche uova antracite oblunghe, a prova di ombra (per risparmare sulla Computer Graphic?) che planano a un passo da terra. E si fermano, come dirigibili alti 500 metri ma verticali, in 12 località sparse, dal Montana alla Siberia, dal Sudan alla Groenlandia, dal Venezuela a Hokkaido, da Perth alla Cina... E siccome non siamo più negli anni 50, e fa più realismo che i “mostri” non parlino fluentemente inglese, né terrestre, c’è un certo problema di comprensione nel contact.  Sbagli una sfumatura e…


Jeremy Renner
Il Pentagono, come sempre, freme, soprattutto dopo la debacle di Mars Attack! Cosa sono venuti a fare questi extraterrestri? Hanno buone o cattive intenzione?

Bruscamente il colonnello G.T. Weber (Forrest Whitaker) riunisce e spedisce via elicottero scienziati di ogni risma e eccellenza per decifrare al più presto, in un Montana che in realtà è Quebec, anzi precisamente Bas-Saint-Laurent (Saint-Fabien), cacofonie che neppure Isadore Isou avrebbe potuto vocalizzare così stranamente…  



Ma il materiale esterno alla navicella spaziale - dal design quanto di meno fallico si possa concepire - è grigio scuro Kiefer, elegante e rilassante come quello le pareti dipinte dei bagni moderni. Eppure, reduce da un viaggio cosmico più veloce della luce, sembra materiale resistente a qualunque bomba N.



Ma c’è anche “uomo incontra donna”, single incontra single, scienziata del linguaggio si coalizza con scienziato degli astri, e dall’amore con gli altri nasce l’amore tra i nostri, nel film di fantascienza, “intelligente” e “dirty”, Arrival di Denis Villeneuve (in concorso alla mostra di Venezia 2016 e adesso in lizza per 8 Oscar tra i quali migliore film, regia, sceneggiatura non originale, fotografia, montaggio visivo e sonoro…), dal romanzo di Ted Chiang Storia della tua vita (1998). Intanto a Londra il film ha già vinto il Bafta Award per il “sound”.




"Se potessi vedere tutta la tua vita scorrerti davanti, dall'inizio alla fine, reggeresti lo shock? E cambieresti qualcosa?” chiede lei a lui. Lui è il fisico teorico di Los Alamos Ian Donnelly (Jeremy Renner, un cognome palindromo) e risponde “non lo so” (se una persona potesse vedere tutta la propria vita in tempo reale in realtà la vivrebbe, e quando finisce, morirebbe). Ma non infierisce e aggiunge, per far colpo sull’avvenente docente in linguistica a Berkeley, la poliglotta, giovane e bionda, Louise Banks (Amy Adams), che ama perché utilizza come lui procedimenti matematici, “comunicherei di più cosa provo dentro. Per tutta la vita ho osservato le stelle e scrutato lo spazio. Ma quando finalmente ho incontrato gli alieni, la cosa che mi ha sconvolto di più sei stata proprio tu”.




Louise è la vera eroina del film. E’ la più creativa, estroversa e coraggiosa. Ma, anche se sa comunicare con chiunque, per professione, e parla perfino mandarino, è lo stesso single. Poi, come un fisico quantistico crede che bisogna forzare sempre la scientificità del proprio procedere, per andare avanti. Non esiterà a spogliarsi della tuta anti-radiazioni per comunicare meglio con i “mostri” venuti dallo spazio, così alti che non entrerebbero neppure nei bar di Guerre stellari, e che sembrano un po’ piovra, un po’ elefanti e un po’ balene. Ma gigantesche. Eptapodi li chiamerà, per via dei loro sette tentacoli, dai quali emettono nuvole d’inchiostro che poi diventano circoli misteriosi che un po’ fanno senso ma sono esempi di action painting dotati, eccome, di senso. E Louise  personalizzerà perfino quelle due cose accettando i nomi che gli darà Ian, “Gianni” e “Pinotto” (strano questo ri-citare Abbott & Costello, il più glottologo dei comici, dopo Paterson), quando l’intimità sarà cresciuta.




Donna radicale (rimprovera alla madre di seguire le news menzognere della Fox e polemizza con il generale Weber per i suoi passati metodi repressivi), ma estremamente ben pagata dall’università pubblica di San Francisco (la sua villa sul lago è mozzafiato), Louise considera il linguaggio, e non la scienza, l’origine e il collante di ogni civiltà. In filologia è imbattibile: Gavisti in sancrito significa guerra, ma – ci spiegherà il polemica con un suo collega di Harvard -  il vero significato della parola è “desiderio di più mucche”. E saprà raccontarvi che il linguaggio era considerato un’arte nel medioevo, quando in Galizia nacque il portoghese, originale risorgimento del latino.  Ecco perché comprenderà immediatamente l’aliena comunicazione non verbale: “non c’è corrispondenza tra ciò che dicono e ciò che scrivono. Qui si tratta di una ortografia non lineare. Comunicano per logogrammi: come le loro navi e i loro corpi la loro lingua non scritta non ha né forma, né direzione”. Louise, infine, novella Bataille, acccetta la vita fin dentro la morte. E ha stranissime visioni, profezie, vede bambine, mariti, giochi, disegni, ….



Amy Adams e Forrest Whitaker
Prodotto dalla multinazione Sony, riscritto da Eric Heisserer, questo apologo femminista e “marziano” si avvale delle armonie minimaliste di Johann Johannson: un  flusso continuo (che utilizza e riplasma registrazioni subacquee delle balene e altre armonie disumane), rotto da impennate suspense, che ipnotizzano lo spettatore abituandolo al fatalismo benigno striato da improvvise impennate “suspense”, a rievocare forse il libero arbitrio.

Le luci di Bradford Young scelgono la strada del tonalismo drastico e cool, un fluido azzurrognolo-dark da crepuscolo o da tramonto che avvolge il tutto in maniera spiritualmente corretta. Villeneuve ha detto a Young di ricostruire le atmosfera cupe delle tristi mattinate piovose d’inizio settimana, quando si andava tristemente a scuola da ragazzi. E di studiare le foto della scandinava Martina Hoogland Ivanow, in particolare del libro e della mostra “Speedway”, e di rifarle. 




Villeneuve inoltre ha l'originalità di proseguire l'intuizione di Steven Spielberg. Negli “Incontri ravvicinati” quel che conta era trovare il contatto con chi è diverso, capirsi, poter toccarsi in qualche modo, dialogare con ogni mezzo necessario. Lì ci si comprendeva, grosso modo, attraverso la musica. Ma qui le astronavi ovaloidi che scendono sulla terra pretendono di più di una carezza (ci sarà) e all'apparenza sono molto più minacciose. Dodici giganteschi baccelloni, dotati di stratosferica, invisibile tecnologia che planano ovunque, e ovunque scatenano le sommesse delle moltitudini dell’anti-politica al grido: “I governi non ci proteggono. Obama (sottineso) è troppo mollaccione”. Minaccioso, a un tratto, sarà il vero motivo della visita: “Tra 3000 anni gli umani ci salveranno. Ecco perché oggi li dobbiamo slavare noi”. Mmmmmmmm.



I veri avversari di Louise sono però, per il momento, (ovviamente) i fin troppo agguerriti e guerrafondai(?) cinesi. E in particolare il minaccioso comandante dell’Armata Rossa, il generale Sheng. Che, davanti alla lingua semiosomatica degli extraterrestri (cioè non quella che rappresenta un suono ma quella che trasmette significati complessi), coi quali solo Edgar Varése o un filosofo Zen potrebbe colloquiare, fa giocare ai suoi esperti, giocolieri dell’ideogramma, una partita di mahjong con gli alieni. E, proprio come la semiologa americana, esperta in linguaggi non verbali, i cinesi sfiorano la verità quando si avvicinano a qualcosa che ha a che fare con il concetto di “guerra”. Chiaro che per un militare guerra non è parola ambigua. Soprattutto se abbinata a divise, onori, fiori…Ma quel concetto “usare arma” può significare troppe altre cose, perfino antitetiche. Louise ne è convinta, seguace come è dell'ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui una lingua sconosciuta può cambiare la nostra percezione della realtà e impadronirsi di un idioma diverso rivitalizza le nostre facoltà, compreso il modo di sognare, in sonno o svegli, come fosse una droga estetica. Quale sarà l’arma di cui si parla è il McGuffin del film. Che scodellerà una serie di cose divertenti come il concetto di “gioco non a somma zero” e quello, opposto, di "szalámitaktika (in ungherese "tattica del salame") cioé dividere l'opposizione per affrontare i nemici più deboli (usata dagli inglesi in India, dai tedeschi in Ruanda, come ricorda a Louise il perfido agente della Cia Alpern). Inoltre si esagererà con il condimento introducendo aneddoti falsi (come quello riferito a a James Cook, all’incontro con gli aborigeni australiani e alla nascita della parola “canguro” e  a percepire il tempo non lineare, quando per esempio vediamo il nostro futuro ben dietro le spalle. 



Siccome, infine, il mercato cinese è indispensabile, perfino i cinesi diventeranno comunque buoni. Ma non vi sveliamo come. E come la prenderanno gli ufo e i sudanesi. Il messaggio finale è pacifista. “Le guerre non hanno vincitori, ma solo vedove”. Sarà questa la frase chiave. Gli alieni la sentono e la diffondono. Altro che Privacy. Altro che Putin. Altro che Snowden o Assange o Facebook. Inarrestabile sarà la decifrazione di tutti i nostri idioletti più segreti. Sussurrati. E perfino telepatici.   

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