Benito Marinucci come Sergio Zavoli |
di Roberto Silvestri
Fare i turbanti per chi fa chemio |
I migrati. Lavoratori immigrati dal sud e dall’est del mondo e disabili in stato d’allarme si incontrano comunicano e discutono in
Italia. Per la prima volta. In un film che ha avuto la sua anteprima mondiale alla 25ma
Biennale d'arte di Osijek, in Croazia "Borders of visibility", con
una menzione della giuria.
L’iniziativa, appoggiata dalla Rai, dai giornalisti del Tg2 e in particolare da Angelo Figorilli (che adesso torna negli Stati Uniti per racocntarci un pezzo di America Trump) è della Comunità XXIV
Luglio, volontari aquilani che svolgono attività di assistenza, ricreazione e
formazione diurna di ospiti con problemi fisici e mentali (tra l'altro dal
terremoto del 2009 lavorano in un prefabbricato dopo che la loro sede storica è
stata dichiarata inagibile). Davide Sabatini e Letizia Ciuffini, della Comunità 24 luglio, si sono occupati della produzione del film.
Gli ospiti, che tornano a dormire a casa, si ritrovano ogni
giorno, assistiti da volontari e partecipano a corsi di recitazione,
fotografia, teatro, giornalismo, ma anche semplicemente pranzano tutti insieme,
organizzano visite guidate e cose del genere.
Contadini provetti |
Tra le altre visite quella di un lontano 24 luglio quando
molti di loro per la prima volta nella vita andarono al mare. E dal mare arrivano
in questi anni molti cittadini in cerca di aiuto. E non arrivano tutti quelli
che sono partiti dalle loro case….
Se due grandi forze si incontrano,
scontrano e uniscono per cambiare il mondo, o almeno i loro mondi, e partendo
da soggettività diversamente in rivolta, neppure
le mura di Gerico riescono a fermarle.
Non lasciatevi ingannare, poi,
dalle cattive abitudini o dagli sguardi addomesticati.
Handicap e disabilità sono parole
che soprattutto nel mondo post industriale hanno sempre meno senso, perché non
è più la fabbrica a regolare eugeneticamente ritmi e gesti millimetrici di
produzione. Gli operai quei contenitori giganteschi e putrescenti di zombie
asserviti al montaggio in catena, li hanno definitivamente rasi al suolo.
Lingotto è quel che è oggi grazie alla vil razza pagana che terrorizzò come
fosse più un mostro che uno spettro dal ’69 al ‘79. Nel mondo del lavoro
immateriale di oggi non è la meritocrazia perfomativa ripetitiva e sotto
servitù che conta, ma il lavoro cognitivo a 360 gradi, la performance inventiva
che assoggetta robot a robot e ne crea di nuovi. Inventiva sociale che meriterebbe
salario di cittadinanza subito e per tutti, comunitari, extracomunitari e
brexitcomunitari (non come urla il leader dei neonazionalisti del M5S) e non lavoro di cittadinanza, quell’incubo
minacciato da Renzi e dai suoi critici di sinistra e estrema sinistra. Chi è
abituato al dribbling della mente e del corpo, invece, si incontra e allea molto
facilmente con chi è costretto ai dribbling quotidiani per scavalcare dogane,
predoni, agenti calcisitci e burocrazie di ogni tipo. Lo vediamo perfettamente
in questo film. Inoltre.
E’ la ricchezza dei migranti che fa paura, non la loro debolezza. La loro
bellezza, eleganza, energia radiante, non la loro fragilità (confrontate i corpi
che scendono dal barcone o dal gommone, pur provati, con i toxic avenger spesso adiposi di chi li avvolge in coperte) che
terrorizza il patetico razzista. La strapotenza, interiore ed esteriore, morale
e fisica. Un manifesto pubblicitario incontrastabile per la transculturalità è
questo I migrati. Rispetto ad altri
documentari simili (quello bellissimo di Domenico Distilo, per esempio, Inatteso, 2005) non è la rabbia o il
risentimento contro il bizantinismo istituzionale e la durezza
concentrazionaria dell’Europa ad essere radiografati e esposti alla pubblica
indignazione. Quel che si mette in risalto qui è proprio una doppia mancanza di risentimento. La voglia di
aprire capitoli altro. L’egemonia dei profughi politici stranieri e degli
outsider nostrani. Stupefacente.
Quella forza che fa rischiare la
vita a uomini donne e bambini perché solo il viaggio omerico (nel senso dell’atto dovuto al richiedente asilo, perché clandestini siamo noi se li aspettiamo a
casa col ghigno di Trump) può strappar catene, persecuzioni, carestie prodotte
da chi sottosviluppa da almeno 5
secoli le loro terre. Ma anche quella vis
multifamiliare che connette la maggioranza dei profughi afroasiatici a chi
resta a casa, in Camerun, Gambia, Senegal, Nigeria, Burkina Faso, Gabon, Costa
d’Avorio, Bangladesh, Pakistan, Siria…. Una rete più potente di ogni social
network. Una bomba atomica spirituale d’immane potenza, come fu quella delle
nostre famiglie pugliesi, friulane, siciliane, toscane, campane, calabresi che
protessero il ciclo dell’emigrazione italiana non solo in America e Nord Europa
nel secolo scorso, ma anche in Africa. Ricordiamoci che in Tunisia c’erano più
italiani che francesi. E non era nostra colonia. Non ci credete che è questa strapotenza che
terrorizza? Eppure vediamo in un attimo degli esuli politici del Bangladesh
giocare a cricket. Se fossimo un po’ più scaltri, e trattassimo meglio i
richiedenti asilo, potremmo oggi contare su una squadra transnazionale di
cricket da sei nazioni e che tremare
il mondo fa come West Indies o Pakistan. Invece. Addirittura a Lecce ricordo
che li hanno cacciati dall’ex campo sportivo Carlo Pranzo dove si allenavano
indiani e pakistani, per fare un parking. E poi i leccesi si meravigliano perché
hanno perso contro Matera l’occasione del secolo. Essere capitale della
cultura. Ci vuole un po’ di cultura odierna per meritare la cultura passata
rigogliosa della Lecce barocca.
Benito Marinucci al centro |
Dunque è un Tg2 Dossier davvero speciale quello va in onda tra poco, oggi 25
febbraio alle 23,50 su Raidue, visto che l’emittente cattolica Tv2000, diretta dall'ex Rai Ruffini, in
miracoloso accordo distributivo, replica alle 19.05 di domani. Il giovane
filmmaker Francesco Paolucci ha diretto un’inchiesta giornalistica estremamente
strana, I migrati. Frutto di un
incontro tra professionisti della comunicazione (operatori, fonici, musicisti come Francesco Conatoni e Tommaso Ciotti) e quattro
loro allievi addestrati a far domande, col taccuino in mano, come quelle dei
giornalisti più saggi, che sembrano inguaribilmente ingenue e invece sono
quelle più illuminanti e alchemicamente corrette. I 4 reporter trascinati dal più grintoso di tutti, Benito Marinucci (gli altri sono Barbara Fontanazza, Gianluca Corsi, Giovanni Diletti) girano in piena
estate su un pulmino per i paesi dell'Appennino che hanno accolto i migranti,
dalle Marche al Molise, all’Abruzzo. E qualcuno di quei villaggi sarà, dopo,
anche terremotato per ringraziamento. Fanno domande agli ospiti, agli uomini e
alle donne che hanno trovato lavoro e a chi lo sta cercando, alle comunità che
li accolgono, ai paesani in piazza, non tutti sempre altrettanto entusiasti e
curiosi come i nostri moschettieri, e discutono tra di loro. “Come fanno senza
la loro famiglia? Come faranno a girare per l’Italia questi ragazzi senza
passaporto? Non potranno trovar salario, casa… E poi sono musulmani. Che vuol
dire? Perché fanno il Ramadan?".
Poi arriva la sequenza delle donne. Bellissime. Elegantissime. Coltissime. Affascinanti. E quel frammento coordinato da Barbara Fontanazza vale tutto il film. Quando avviene il contact. Di testa. Di pansia. Di cuore.
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