lunedì 30 maggio 2016

Tra la terra e il cielo. Un film indiano sui nostri schermi per riappacificare gli animi. Lo dirige Neeray Ghaywan


di Roberto Silvestri


Un film indiano che ha vinto il premio Fipresci (assegnato dalla critica internazionale) e quello dell'Avvenire nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes del 2015 esce finalmente il primo giugno sui nostri schermi, un anno dopo la fortunata uscita in Francia.
Si intitola Tra la terra e il cielo (Masaan), titolo internazionale inglese Fly Away Solo, ed è l'esordio di Neeray Ghaywan. Siccome non si tratta del solito rimescolar le carte posmoderne giocando con gli stereotipi di Bollywood, come avviene nei film di Mira Nair e Peter Boyle, ma di un interessante esperimento controculturale, prepotente e egemonico, il film merita un discorso più lungo e una contestualizzazione più dettagliata. “Il film più acclamato dell’anno negli Stati Uniti” scrive il New York Times non può passare inosservato da noi.

L'India è vicina. Più di quanto noi non pensiamo. Non solo per le 5 caste, lì stabilite religiosamente, qui ereditate da un feudalesimo (più mafia e corruzione) millenario, più invisibile, ma non meno inossidabile (il 25% di super poveri è più o meno una identica percentuale).  Poi per la goffagine speculare delle rispettive istituzioni giuridiche (caso Battisti/caso Marò, appunto). Perché le due società sono patriarcali e, maggioritariamente, conservatrici e diversamente misogine.

Da noi qualche speranza di cambiamento di classe, di salto in avanti, in vita, c'è ancora. Almeno a giudicare dai telequiz e dalle slot machine. Basta scimmiottare idee e valori della classe dominante. Ma in India è inutile fare i soldi, gli steccati aristocratici sono ferrei, la mobilità è morta. Anche chi, come i Sikh, rifiuta il sistema delle caste, si rinchiude nella propria comunità ma non rompe il giocattolo sacro. Non ci fosse la reincarnazione (come da noi il Paradiso dell'aldilà) a premiare con un salto di casta i più pii dopo la morte... Oppure il cinema, che premia sempre, in anticipo, i karma meritevoli.
I problemi bellici in Kashmir, poi, occupata militarmente da Bombay, con il Pakistan che appoggia la lotta armata indipendentista, nonostante un'antica risoluzione dell'Onu, hanno costretto da anni molte produzioni ambientate tra le montagne di Bollywood, Tollywood e Kollywood (ovvero i tre poli produttivi di Bombay, che realizza circa 250 film all'anno, mentre il polo del sud-est indiano, in lingua  tamil e telogu, produce 600 film all'anno, e comprende gli stati Andhra Pradesh, Télangana, Kerala e Karnataka; e infine, ancora più a sud, il Chennai) a emigrare e  cercare location altrove. Svizzera e Austria hanno mangiato in un solo boccone la concorrenza italiana, per la lentezza con la quale le film commission e i politici locali analfabeti di media si sono adeguati agli standard dell'Europa più nordica. Perfino Paolo Sorrentino ha preferito la Svizzero alla Valle d'Aosta, al Veneto e al sud Tirolo /Alto Adige...
Sarà bene occuparci di cinema indiano e seguire annualmente River to River a Firenze e altre manifestazioni simili. Perché anche il cinema indiano, così potente e gigantesco, ha qualcosa in comune con il nostro. E' difficilmente esportabile e ha un design grafico-narrativo incomunicabile (anche se poi quando Francesco Di Pace ha programmato in Rai film indiani il successo di pubblico è stato sorprendente).

Se fossimo stati più rispettosi delle altre culture, per esempio programmando un numero superiore di film indiani in tv, e non solo di Bollywood (Anurag Kashyap, cavaliere delle arti e delle lettere in Francia nel 2013, è un nome proprio sconosciuto alla Rai? Mai sentito parlare di Ugly? E del noir Psycho Raman, sul un celebre serial killer degli anni 60 a Bombay, invitato a Cannes 69 dalla Quinzaine)  ne avrebbe beneficiato di molto il nostro pubblico, il nostro prodotto cinematografico medio, la nostra bilancia dei pagamenti (e anche il trattamento riservato ai nostri marò, più risentito del normale a causa di un crescente disprezzo o disinteresse culturale per un resto del mondo, che si conosce mediamente malissimo anche perché al tg non esiste, cancellato). Possiamo sempre invertire la marcia. "Cambiare di passo", come dice il presidente del consiglio. C'è un'occasione. Masaan.
Il solito match tra modernità e tradizione che da mezzo secolo ossessiona il cinema d’autore dell’est e dell’ovest si ambienta questa volta sulle rive del Gange, a Benares (Varanasi), nella città sacra che più si protegge dagli assalti del nuovo. E intreccia, sullo sfondo dei cadaveri bruciati, i destini di quattro personaggi, la vita, i sogni, i turbamenti, la memoria, le provocazioni, la violenza, gli incubi e i progetti di libertà e emancipazione del giovane Deepak, che che ama perdutamente una ragazza che non appartiene alla sua casta; della studentessa Devi, traumatizzata dopo dal suicidio del suo amante. E poi di Pathak, il padre di lei, vittima della corruzione poliziesca e del piccolo ragazzo di strada Jhonta, genio della sopravvivenza “senza rete”. L’intento è blasfemo, ma ci si muove con cautela.
Anche perché la censura indiana, non sarà proprio come quella dell’Ohio e della Pennsylvania all’inizio del ‘900, ma è implacabile su sangue, parolacce, sesso (fermo o in movimento) e politica, non permette che si sgualcisca l’ordine del discorso e la gerarchia delle idee consentite...
Dunque il consiglio è non fidatevi delle apparenze e vedete cosa c’è di incandescenze e rabbioso sotto quell'aura da film radical chic (a semi produzione francese) che serve a proteggere il film dalle forze maligne, dagli spiriti reazionari. Il cinema non ha valore se non mostra la società così com'è, come funziona veramente e quali contraddizioni produce e come superarle. Ma il fuori campo e l’allusione obliqua, l'astuzia della ricezione e il sottinteso ben congegnato dal regista fanno vedere in più cose che la censura non vede e non sente.
Perfino un film porno, che la protagonista femminile di Masaan, Devi, guarda con tranquillità e goduria sul suo computer a inizio film. L'idea disturbante (che fa volar via il turbante) è pensare a un lavoro di routine da paria come bruciare cadaveri a ripetizione, considerare quei corpi come fantocci inermi o robot tutti uguali (in realtà è proprio la stessa idea di Laszlo Nemes in Il figlio di Saul) e improvvisamente rompere la routine, far irrompere come shock emotivo il corpo della persona amata "al di là della morte". Questa è stata l'immagine "madre" di tutte le sequenze del film di Ghaywan.

Robusta è infatti l'impostazione e l'intenzionalità documentaristica, sottolineata dalle lunghe riprese a  Benares, una delle sette città sante induiste, la località "più vecchia della storia, più vecchia della tradizione" (Mark Twain), nel nord-est del gigantesco paese. Luogo di potenza spirituale immane, a lungo vi ha soggiornato Gianfranco Rosi prima di girare il suo film d’esordio, Boatman.
Centro mistico e funereo (è stata fondata dal dio che probabilmente è il preferito di Berlusconi, Shiva, colui che impersona la distruzione e la ricostruzione del mondo e dei condomini), meta di pellegrinaggio induista (l'80% della popolazione della più grande, anche se castigata, democrazia al mondo), Veranasi (in lingua indù) è il posto dove i vecchi vanno a morire e i vivi si purificano in attesa del salto di casta con la cremazione. La città non è esente, nel frattempo, da laceranti, ben visibili, ingiustizie sociali. Un fiume l'attraversa e sulle rive si accendono i roghi funebri. 50, 60 corpi al giorno vengono cremati. Lo stato di diritto ha non poche difficoltà ad esistere. Se non formalmente. Lo avranno ereditato dal colonialismo inglese che ha distrutto nel profondo una società coesa e organizzata che nel 1700 aveva un reddito pro capite superiore a quello dei sudditi di sua Maestà britannica. La corruzione in India (come alla Fifa) oggi si può combattere, ma non vincere. Per ora. La polizia colpisce i poveri e protegge i ricchi. Anche perché gli eroi del film, una coppia etero, un bambino vispo e un vecchio intellettuale impaurito, vivono sui bordi del fiume Gange nei posti loro assegnati: in alto i potenti, prestigiosi e ricchi, Bramini, Khsatriya e Valshyia; in basso, sui ghat (gli scalini che discendono sul fiume) gli shudras, i servi, e gli intoccabili, i paria dei paria, i senza casta, coloro che bruciano 30.000 corpi dei morti all'anno, e hanno il corpo tutto coperto di nerofumo come all'inferno, come in miniera. Alcuni ghat sono proprietà privata secolare delle famiglie blasonate, dei maraja che hanno costruito sontuosi edifici  e templi sul Gange. Se una cremazione costa 600 dollari, 500 vanno al proprietario del ghat e solo 100 all'operaio che materialmente la esegue.


La diva Richa Chadda e il padre, l'attore Sanya Mishra

Dunque via le canzoni e banditi, per motivi religiosi, i balletti, che caratterizzano il format standard dei bollywood-movies. Resta il melò, ma ha il sapore acre e avulso, dei cadaveri bruciati.

Molti i roghi e i dettagli macabri. Sono i becchini e i figli dei becchini e gli amici dei becchini i protagonisti di queste tre storie intrecciate collegate solo dal fiume che le rispecchia.


Vediamo cosa racconta il film. Un piccolo orfano spiritato, Jhonta (Nikhil Sahni), nuotatore provetto, intraprendente fino all'incoscienza, che cerca affetto e almeno un padrino, sopravvive grazie al giro delle scommesse clandestine (si butta nel fiume e afferra più rupie possibili, lanciate sul fondale dal banditore mentre i maniaci dell'azzardo perdono tutti i loro soldi, come qui alle slot machine). Un professore universitario in pensione, Vidyadat Pathak (Sanya Mishra) è costretto dalla crisi a far traduzioni sottopagate, a scommettere sui bambini sub e a trasformarsi in bottegaio di cianfrusaglie per mantere la figlia Devi (Richa Chadda, l'ex modella lanciata in Gangs of Wasseypur 1 e 2), appena laureata, e molestata e concupita ovunque vada a lavorare, perfino alle ferrovie pubbliche. Inoltre si svena perché lei è sotto pesante ricatto poliziesco.

Scoperta in un hotel a far l'amore con il compagno di studi, fotografata discinta e minacciata di arresto per oltraggio al pudore (sic! neanche negli alberghi puritano-sabaudi succedono cose di questo tipo) è turbata e angosciata dai sensi di colpa perché il suo amante si è suicidato nel corso dell'incursione poliziesca, per non finire in carcere. Il padre di Devi è terrorizzato che la notizia trapeli, rovinandole per sempre la reputazione (altro sic!). E ne approfitta il perfido losco e disonesto ispettore della polizia Mishra.

Infine il romantico futuro ingegnere Deepak Chaudhary (Vicky Kaushal), figlio di becchini, che si è innamorato di Shaalu (Shweta Tripaty), una ragazza di casta superiore che lo ricambia e che ha deciso di fuggire comunque con lui, i genitori lo accettino o no, ma che non potrà avere mai....


Le due tristi storie d'amore di Benares,  scavalcano il dramma (il duro contesto politico) e il melodramma (l'impossibile happy end che scatena le lacrime) perché comunque urlano un formidabile sì alla vita proprio in un luogo che ha un permanente contatto con la morte. Questo è il cuore ritmico del film, un grande sì alla vita fin dentro la morte, come avrebbe definito l’erotismo George Bataille. La tragica condizione della donna viene declinata attraverso l'evoluzione di questi amori impossibili (per veti di casta o di castità obbligatoria). Le due ragazze hanno personalità forti, però, sono intellettuali, raffinate, intuitive, passionali, esperte di poesia e informatica, donne moderne, ma non adeguatamente fiancheggiate dalle istituzioni, che arrancano dietro, senza raggiungerle.

Sappiamo che questa insorgenza femminile in India come altrove sta provocando una reazione di debolezza patetica negli uomini più deboli e insicuri, che reagiscono con buffi travestimenti (le barbone virili alla Moscardelli, il mitra fallico, le bandiera nero-nazi) e terrificanti atti di violenza vigliacca e di stupro squadrista. Ma la distruzione delle due coppie (è lei che muore questa volta, in un incidente di pullman, e il suo anello verrà trovato dal disperato Deepak tra le ceneri di un rogo sul Gange) forse feconderà qualcos'altro.
Sono dieci anni che si parla di nouvelle vague indiana. Sarà la volta buona? In realtà ogni grande industria in crisi produce una generazione di iconoclasti costruttivi (come le new waves anni 60) che rivoluzionano tutto e aspirano a prendere il controllo della macchina e... poi non ci riescono mai. In Francia come in Brasile, in Polonia come in Inghilterra. Appena il restyling è completato ecco che arrivano le superproduzioni fresche a ricominciare da capo.


Richa Chadda

Il regista Neeraj Ghaywan viene dall' università critica dei blogger. Ha scritto su Bela Tarr, i Dardenne, Kieslowski, Pialat che, lui dice, sono i suoi modelli. Presa la laurea in economia e commercio aveva trovato un lavoro molto ben pagato e orrendo. Per fortuna Anurag Kashyap lo ha spinto violentemente alla regia (assumendolo nella sua troupe e dandogli da girare il making off di Gangs of Wasseypur), lo ha costretto a dimettersi dall'ufficio, a rompere con la famiglia e con la promessa sposa che Neeraj non amava, ma gli era stata imposta dalle solite rigide convenzioni sociali e religiose. C'è dell'autobiografia dunque in questa opera prima a basso costo scritta prima da solo poi  riscritta da Varun Grover (di Benares) e di nuovo modificata dopo un lungo soggiorno-inchiesta, ispirato dice il regista al metodo Haneke e Dardenne Bros,  intervistando gli intoccabili becchini del Gange e le it girls scatenate delle cittadine di provincia.


Nel frattempo, scossa dalla crisi di crescenza, il sistema Bollywood-Tollywood-Kollywood deve fare un salto di qualità o entrerà in crisi. La novità arriva dagli studi più grandi del mondo, secondo il Guinness dei primati, Ramoji Film City, proprietà del magnate della stampa Ramoji Rao, il William Hearst indiano, proprietario di una villa da nababbo con un giardino pieno di alberi e cespugli a forma di animali che sembrano opera di Edward Mani di forbici. Negli studi, che si estendono su più di ottocento ettari di terreno, a un'ora dalla quarta città più grande e popolata del paese, Hyderabad, capitale dello stato di Télangana dal 2013 al 2015 si sono girate le riprese  dell'iper kolossal in lingua telogu-tamil Baahubali, un fantasy dalle tinte anche sonore vivacissime, diretto dal quarantenne S.S.Ramajouli, ben 600 addetti agli effetti speciali, che, secondo gli analisti e anche secondo una bella inchiesta del mensile francese Sofilm dovrebbe aver cambiato la storia del cinema indiano. Il regista afferma di ispirarsi alla mitologia, al folklore (non solo indiano) e ai comics e il film è un adattamento di miti e leggende transculturali. Il budget, il più alto fin qui in India, 45 milioni di dollari. Insomma una sfida alla Hollywood dei blockbuster digitali e in 3d. Doppiato anche in malayalam e hindi è approdato nel mondo intero, Italia esclusa (siamo un po’ fredidni con lIndia in aquesti anni). Baahubali: The beginning ha incassato 90 milioni di dollari (di cui 8 negli Stati Uniti) ed  è il lavorazione il seguito, Baahubali: The Conclusion. Sarà per questo che, attoniti, i vicini cineasi hanno improvvisamente cambiato marcia e, abbandonato il cinema controverso d’autore (che è anche troppo sovversivo) si sono dedicati, invidiosi, e rischiando il polpettone storico mitologico noiosissimo, alla sola produzione di manufatti blockbuster per conquistare il mondo come ha fatto Baahubali?



sabato 28 maggio 2016

Olli, la maniera comunista di boxare. Il film finnico che ha vinto Un Certain Regard


di Roberto Silvestri

Un bel giorno Zeman fu esonerato da allenatore del Lecce dopo una sconfitta con il Bari per 4-0. Il suo commento dopo la sconfitta fu: “E’ stata la più bella partita che il Lecce ha disputato quest’anno”. E’ una battuta capace di rendere ancora più folli i fanatici più irriducibili. I tifosi ciechi e furiosi. Ben fatto Zeman.
Questo film racconta un altro sorprendente commento, simile e anticonformista, fatto da un campione sportivo dopo una disfatta.
E’ un film sul pugilato. Ma non è Joan Carol Oates che ha scritto: “la boxe è la celebrazione della religione perduta della virilità”?
E’ meraviglioso veder combattere oggi tante donne, alle prese con la pià nobile delle arti.

Questo è un film sul pugilato di una volta. E un film sui professionisti dell’età d’oro, ce lo ha insegnato Martin Scorsese in Toro scatenato, si fa solo in bianco e nero. Negli anni 60 poi la boxe la vedevamo, in tv, senza i colori. Per goderci uppercut e ko cromatici bisognava inseguire Elvis Presley star canterino, sexy e femmineo, di Pugno proibito (Kid Galahead in originale) e le gaeliche performance dei ragazzi massacrati di botte per volere della Mafia del ring contro cui il regista progressista Phil Karlson (una sorta di Saviano in technicolor) lanciava invettive (in Phoenix City Story contro i ras del gioco d’azzardo e delle slot machine, che sarebbe utile far vedere sulla Rai in prima serata, prima di prendere a martellate e a Stalin tutte le macchinette spilla soldi che stanno rovinando il paese).
Molti però ricordano ancora le romantiche nottate Rai a luce di ring con D’Agata, Burruni, Loi, Benvenuti, Mazzinghi. Le teche Rai ogni tanto le replicano. Con i commenti tecnici e britannici di Adone Carapezzi. Altro che Galeazzi. Quando un pugile era in calzoncini neri, l’altro bianchi.  
Proprio nella città dove il figlio di un altro campione di quell’epoca, il welter Giancarlo Garbelli ha un negozio di gioielli, a Cannes, il film che ha vinto la “palmetta” della sezione Un Certain Regard, sconfiggendo Pericle il nero, è dedicato a un grande pugile europeo. Al peso piuma finlandese Olli Maki che nel 1962 disputò il match valevole per il titolo mondiale dei pesi piuma a Helsinki contro il detentore della cintura, l’african-american Davey Moore. Siamo dalle parti dei 56 chilogrammi circa. Non facili da raggiungere per Olli (che parte da 60…).
Scorsese (e anche il ciclo Rocky) ci ha insegnato anche che il mondo della boxe, arte e tecnica pugilistica a parte, fa vedere meglio e in controluce la scultura interiore di un momento storico, lo spettro sociale e politico di un’epoca. Quando il presidente Carter perde il combattimento con l’Iran, nasce l’epopea Rocky: si può perdere un incontro, ma non la voglia di combattere per un obiettivo giusto….
Non solo palestra, allenamenti, guantoni, giochi di corda, lunghe corse, l’incontro, il rapporto con il manager e l’avversario, l’ossessione della vittoria, l’occhio della tigre, ma gli sponsor, gli interessi commerciali di un match, la strumentalizzazione di un campione, le culture che si azzuffano fuori dal ring.   
Il regista Juho Kuosmanen, di 37 anni, all’esordio nel lungometraggio dopo aver vinto premi nella categoria dei corti, ed è una scoperta della Cinefondation di Cannes, ha diretto senza grandi competenze sportive ma con stile provocatoriamente classico Il giorno più felice nella vita di Olli Maki, partendo proprio dai ricordi del protagonista dell’avvenimento, storico, perché era la prima volta che la Finlandia sfiorava la gloria pugilistica ma non proprio mitico per come è finito il combattimento. Olli (interpretato da Jarkko Lhati, esordiente, biondo e preciso tecnicamente come un Ed Harris) veniva dall’ambiente operaio e si trovava circondato e appestato da orrendi borghesi o opportunisti leccaculi come il suo manager. E’ comunista, in pieno maccartismo. Innamorato perso della sua futura (e attuale) moglie, Raija (l’esordiente, altrettanto tecnica Oona Airola), in piena preparazione dell’incontro; distratto da cose prioritarie rispetto alla sua professione, perché è un giovane che cerca la sua strada verso la felicità, e solo una visione semplicistica della vita fa coincidere questo obiettivo con la vittoria, la supremazia, l’annichilimento dell’avversario. Il titolo. L’ossessione di mourinho. Vincere, invece, non è tutto. E neanche partecipare, a giudicare dal fastidio per le feste, le interviste con i giornalisti, l’elemosinare soldi al desco dei borghesi, la fama e la simpatia “superficiale” che lo circonda e lo sciovinismo che lo inchioda, prima dell’incontro, a esagerate, se non ridicole, responsabilità. Olli sarà un campione lo stesso e diventerà anni dopo campione d’Europa. Oggi ricorda benissimo quel giorno. Ha l’Alzheimer, ma continua a dire che fu “il più bel giorno della sua vita” perché comprò proprio quella mattina l’anello da sposa della moglie. Ma il film non dice: l’amore è più importante dello sport. Ma dice: è il vostro modo di amare e il vostro modo di concepire lo sport che dovete imporre. Non quello di altri. Se Olli non voleva mandare ko nessun avversario, perché gli sembrava del tutto inutile, pletorico e di cattivo gusto, era per contribuire alla crescita civile di se stesso, non per dare lezione agli altri. Come quando il comico Charlie Chase cerca di punire il topo (e non di ucciderlo) facendolo vergognare per ciò che ha fatto (rubare il formaggio)…. Così Olli è diventato sì un mito, ma solo per una metà del paese. Per i comunisti. O come volete chiamare le anime belle di qualunque posto al mondo.  Certo non ha la forza di Kaurismaki, Kuosmanen. Si fa prendere dal paesaggio, dalla campagna, dai vecchi valori di un mondo in cui successo e competitività non erano i sostantivi dominanti. Ma sa anche lui mettere a segno qualche colpo. E non solo sotto la cintura.  

La stanza della figlia. Julieta di Pedro Almodovar



di Roberto Silvestri


Dopo titoli di coda color rosso acceso sul primissimo piano di un vestito scarlatto: la storia d’amore di Julieta con un vedovo galiziano, sul mare, tanti anni fa, nata sul treno (e non senza sensi di colpa). La campagna assolata in Andalusia dove vivono, ancora oggi, i genitori di Julieta. Una fuga dalla Spagna, fin sul lago di Como e in Ticino, di sua figlia Antia, traumatizzata dalla morte del padre Xoan, pescatore adorato. Lorenzo (Dario Grandinetti) un madrileno di una certa età ama Julieta,  non più giovanissima ormai e vorrebbe con lei fare una vacanza romantica in Portogallo, ma lei sparisce d'un tratto, cambia idea e perfino casa e lui la segue e la spia; riappare Bea (Michelle Jenner) la migliore amica e quasi amante teenager della figlia Antia (Priscilla Delgato e Blanca Pares) che svela di averla vista, ancora viva, vegeta e mamma, 13 anni dopo……
Sono più o meno tre storie differenti che si incastrano, spaziotemporalmente, in un intrigo melodrammatico che coinvolge padre madre figlia amanti mogli in coma sconosciuti scultrici e parenti e che ha a che fare con la maturità inevitabile, l’invecchiamento spietato, gli errori fatali di una vita a cui non c'è rimedio. Ma che è soprattutto concentrato sul rapporto madre/figlia(o). Nel neorealismo era il figlioletto che faceva le veci del padre in crisi di valori e ricostruiva un paradigma etico plausibile per tutti (Ladri di biciclette), per ripartire. Adesso, con l’evaporazione del padre, qui in senso proprio, è cruciale il rapporto madre/figlia(o). Se no non si riparte. Nessun progresso. Ma attenzione. Il cinema e la vita non sono la stessa cosa. Quando nella vita ci si accende una sigaretta e il fiammifero si spegne una prima volta, e bisogna riaccenderne un altro, è un casualità, senza senso. Quando succede nel cinema, invece, è un avvertimento. C’è dell’intenzionalità espressiva. Del suspense. E chi sa trasformare meglio di tutti i casi fortuiti in melodramma focoso e sottilmente autobiografico, da quando Hitch non c'è più, è Pedro Almodovar. 
Al film numero 34 le citazioni dal mago del suspense si acculumano. Soprattutto Rebecca, Delitto per delitto, Marnie. Se Moretti si focalizza sulla madre che muore, Almodovar indaga infatti sulla figlia che (giustamente) svanisce… sulla stanza della figlia.  
“La vecchiaia non è una malattia. E’ un massacro” afferma l’autore di Tutto su mia madre (1999). E forse fa agire in modo più incauto, e non solo esteticamente. Il cineasta che viene dalla Spagna più profonda e donchisciottesca, Pedro Almodovar, l’enfant prodige della movida madrilena e gay degli anni 80, oggi ha folti capelli bianchi e la barbetta.
Oltre che sceneggiatore e regista (di venti film) barocco ed estroverso Almodòvar, 67 anni, è anche un produttore scatenato e transnazionale ed è stato coinvolto con il fratello Agustin, cineimprenditore e titolare della loro società, nel Panama Papers, proprio pochi giorni prima di Cannes 69.
I mass media hanno sbattutto i mostri in prima pagina, senza rendersi conto che la maggiore notorietà, in questi casi, non equivale a maggiore colpevolezza giuridica (“noi siamo le comparse in questo film, e non i protagonisti” ha commentato il regista a Cannes, dopo un lungo silenzio stampa in patria).  E che nel cinema, da che mondo e mondo tutti trasferiscono i soldi all’estero, anche i divi più impensabili. Fanno male? Certo. Ma il cinema è un’affare piuttosto rischioso, e siccome ha a che fare con l’arte merita le attenuanti generiche quando si infrangono codici e regole  di qualunque tipo, non solo penali…
La cosa ha comunque imbarazzato il gruppo di Pedro, inquinato l’accoglienza serena in sala Lumiere e la ricezione critica a Julieta, il suo nuovo e strano cupo film “tutto femminile”, adesso nelle sale italiane, tratto con molta attenzione e rispetto dai racconti realisti e anche un po’ misteriosi e grotteschi della scrittrice canadese premio Pulitzer Alice Munro (Chance, Soon e Silence). Una narratrice dalla testiera emotiva ipersensibile, e dall’immaginario particolarmente radicato nel vasto panorama e nella mentalità nordamericanoa, tanto che Almodovar aveva pensato in un primo momento di girare il film a New York con attrici statunitensi, per poi arrendersi e creare in Spagna una geografia mentale e di set altrettanto vasta, riappropriandosi del controllo linguistico completo.  Dalla Galizia all’Andalusia, da Madrid al Ticino e al Portogallo lo spazio viene dilatato al massimo, e anche il melodramma si fa meno fiammeggiante del solito, più secco, controllato, interiore.  Anche se le musiche soft jazz di Alberto Iglesias hanno il compito di creare una atmosfera densa e inquietante in stile Bernard Herrman. Insomma Pedro Almodovar cambia registro. Il suo Julieta è un film più sobrio del solito. I colori sono sempre accesi al massimo, il cromatismo è vistoso, perché il regista nasce al cinema con i technicolor hollywoodiani degli anni ’50, con Sirk e Minnelli, e ha negli occhi uno sguardo pop. Ma questa volta niente movida, né eccentricità sessuale, né sbronze di kitsch. Il focus è sui drammi interiori di una vedova madrilena che ha perduto la figlia tanto tempo fa, non perché è morta ma perché è fuggita di casa incolpandola della morte dell’adorato padre, un pescatore galiziano buttatosi nella tempesta a causa di un litigio di gelosia e per esser stato scoperto amante, perenne, di una sua amica, pittrice e scultrice. Ava (Inma Questa). Che scolpisce statue con enormi falli attivi (in realtà opera dell'artista Miquel Navarro). A Cannes i primi piani sui cazzi vispi sono andati forte (anche nella commedia tedesca Toni Erdmann).
Tanti anni dopo, prima dell’agognata vacanza a Lisbona, riemergono tracce della figlia e il film va indietro nel tempo, a ricostruire il complicato puzzle esistenziale di questa donna esausta, giocando, coi mezzi toni e le note blue, l’eresia di una fiaba morale capovolta. Si dice: i figli devono uccidere i genitori per crescere. E se avvenisse anche il contrario? I genitori devono uccidere i figli, per sopravvivere? Julieta ha due corpi (anche qui echi di Bunuel e Hitchcock), da grande quello di Emma Suarez (che ha rivisto Europa 51 per entrare nella parte della “folle pura”) e da giovane quello di Adriana Ugarte, un’insegnante di filologia classica bella come non ve ne potrà mai capitare una simile, esperta in miti, emula di Ulisse, che solca il mare dell’avventura – quando i sentimenti comandano - rifiutando l’agio e la tranquillità, la ricchezza e la lussuria. Perché la vita è un mare in tempesta, non il calmo mare di una cartolina.
"Non credo nella punizione per gli sbagli commessi, ma purtroppo a volte la vita ci punisce", ha commentato, pessimista come Loach, Almodovar pensando sia al film che alla sua vita e all’intreccio sempre molto saldo tra arte, biografia e Spagna come si è ridotta adesso. Se molti registi parlano della mamma, in questi ultimi mesi, da Xavier Dolan a Nanni Moretti da Mario Balsamo a Gianfranco Albano (la mamma di Imposimato), Almodovar si concentra sul mistero della figlia scomparsa. Negli Stati Uniti è di prammatica che svolazzi via, mica si chiama la polizia. In Europa, nonostante gli Erasmus, molto meno. Forse per apprezzare meglio il film bisognerebbe rivedere anche Stella Dallas di King Vidor (1937).  Anche lì ci si vergognava della madre Barbara Stanwych. Perché fa troppo per sua figlia ed è proletaria. Qui non fa quasi nulla, ed è borghese.      

giovedì 26 maggio 2016

Il film sull'incesto e l'adulterio che Truffaut voleva tanto girare. Marguerite e Julien. Di Valerie Donzelli. Da Cannes 2015. Consigliato anche dai Cahier du Cinema....




Roberto Silvestri 


Per far star buoni i ragazzini di un orfanotrofio non basta disporre di un proiettore e fargli rappresentare in playback un vecchio film degli anni 60, parlandoci sopra come al cine-karaoke. Il bimbo e la bimba, con la voce degli amanti adulti, sconcertano. Sconcertava anche Humbert Humbert in Lolita, che, da grande, disseppelliva, da dentro di sé, pulsioni infantili erotiche ormai colpevoli.
Esther Garrel, la sorella di Louis, nel ruolo di una istitutrice di oggi, decide allora di sorprenderli, spaventarli, affascinarli, rapirli. A me gli occhi please, come quando si va in estasi mentre volteggiano i trapezisti al circo o i Kiss ti aggrediscono con furia heavy metal o ci raccontano le fiabe più inquietanti e proibite, prima di dormire.
Con le marionette, con i burattini, con le ombre cinesi e in questo caso con le ombre elettriche del cinema analogico (metà film è girato in 35mm) e con le immagini digitali (usate negli esterni in alta definizione).
Esther diventa l'occhio speculare della regista Valérie Donzelli, nascosta dietro la cinepresa. E racconta addirittura la fiaba di un amore incestuoso finito tragicamente. Vi immaginate la faccia delle associazioni per la tutela della famiglia?
Si sente che c'è dietro questa messa in scena una intera band creativa in trance: luci, costumi, scene e Charlotte Gastaut, consigliere artistico del film, trasformano un fatto di cronaca in leggenda intemporale, né reale né irreale ... Nel film l'incesto non si esalta e non si colpevolizza. E' il sentimento assoluto a conquistare il primo piano, come se la riproduzione analogica e digitale di una forza interiore indistruttibile lo rendesse puro movimento in eterna metamorfosi. Il corpo può non esserci più, e c'è solo l'ombra, "la mummia" di un corpo sullo schermo, eppure qualche cosa vive lì dentro e gli sopravvive.
Il cinema riprende questo moto invisibile. Ed è un po' il senso spiegato dal verso di Walt Whitman che la cineasta aggiungerà nel finale: "Noi torneremo, siamo corteccia, siamo roccia" siamo fiume, siamo pesci. Una capriola nell'evoluzionismo. Oplà e si torna indietro.

Intanto parte un conturbante e sensuale romance, non proprio abituale - da qui la reazione contrariata, a Cannes, del pubblico più conservatore - tratta da un cruento accadimento normanno dei primi anni del XVII secolo, eroticamente e sentimentalmente così estremo da trasformarsi in una tremenda tragedia nera.

Quando parliamo di conservatori non intendiamo reazionari, bigotti, moralisti o contrari ai matrimoni gay, o scandalizzati più che dall'incesto dall' adulterio (che sarà poi il motivo della condanna della coppia di innamorati, perché solo il secondo colpisce al cuore la sacra proprietà dell'uomo sulla donna). Intendo i conservatori al cinema. Quelli turbati perché in questa storia d'amore i due protagonisti, sorella attiva e fratello un po' meno attivo, quasi non si parlano. E la sceneggiatura è scritta proprio da una coppia di innamorati, Valérie Donzelli e il protagonista, Jérémie Elkaim (e riscritta dalla montatrice Pauline Gaillard non senza momenti di scratch e bruschi salti della scocca). O perché si passa dal technicolor popolare a schermo immenso ("ruffiano" come giustamente ha notato Daria Pomponio su Quinlan) alle tonalità intime e dark, dalle sciabolate rock che irridono la recezione realista (la musica è di Yuksek), all'esperienza sensoriale dell'epidermide da far quasi sfiorare. Insomma il film ci imbarazza perché sembra che si sfogli un libro per bambini con immagini poco adatte ai bambini e che quelle immagini si animano anche troppo. L'amore impossibile è il nucleo del melodramma, ma l'amor fou, come malattia, come fatalità, come arma di distruzione di massa, come messa in discussione inattuale, fuori sincrono, dei pilastri basilari dell'ordine sociale, è una vera tragedia.

Quando si racconta a dei bambini un fatto di cronaca così crudo bisogna per tenere alta l'attenzione falsificare qualcosa, deformare un po', rendere il tutto più appassionante. E questa storia è raccontata sia da Esther Garrel che da Valérie Donzelli tenendo ben in mente una frase di Jean Cocteau: "la storia è il vero deformato, la fiaba è il falso incarnato". Il tentativo riuscito di Donzelli è incarnare la leggenda. Trattare le immagini come se fossero tattili, in odorama, in 3d senza occhialetti, come se fossero di fantascienza. In fondo il passato si conosce poco, quasi esattamente come il futuro...Potremmo dire che sì, siamo immersi nel cinema di papà. Solo che i papà sono questa volta Eustache e Truffaut, Rohmer e Rivette. 

1603. Marguerite e Julien de Ravalet, sorella e fratello di una ricca famiglia aristocratica, si amano teneramente fin da piccoli. Non possono fare a meno l'una dell'altro, non possono stare lontani, come narciso dal suo specchio d'acqua. Ci provano, ma l'amore che li unisce, e che si fa crescente passione divorante, è più forte di loro. Julen viene mandato a studiare all'estero,  Londra, Roma... ma quando torna, sebbene cerchi di resistere, cede. Sotto pressione dello zio abate, piuttosto turbato dallo scandaloso comportamento, il padre obbligherà con la forza la figlia a sposare Lefevre (Raoul Fernandez), un agiato borghese violento che vive con la madre (Geraldine Chaplin), ma lei non gli si concederà mai. Marguerite decide così di fuggire a cavallo con Julien, aiutati dal fratello e dalla governante, inseguiti  da una polizia, fanatica come mujeddin a caccia di atei. Saranno processati, condannati e decapitati. A Marguerite, morta di dolore sul cadavere di Julien, verrà tagliata la testa da un corpo ormai inerte. Su Wikipedia i particolari della triste storia di questi "Romeo e Giulietta" vittime della propria classe, del proprio ceto, della propria comunità, del proprio stesso sangue.


Anche se il castello dove l'incandescente odissea ha luogo è proprio quella vero, è a Tourlaville, il film non vuole puntare alla ricostruzione storica filologicamente fedele, non è in costume, o meglio i vestiti di Elizabeth Méhu e le scene di Manu de Chauvigny, non indicano Seicento, ma spaziano tra l'ottocento romantico e il sinistro novecento delle divise militari. Senza dimenticare gli elicotteri che volteggiano  anacronistici, a suggerirci altre prepotenze e soprusi di oggi e le retoriche psicotiche del comunitarismo, dell'appartenenza, delle "nostre radici".

Una fiaba deve essere crudele. Avete presente Biancaneve? Serve per "uccidere", per superare metaforicamente i genitori. Per crescere. E questa fiaba, non pensata per i bambini, serve per far crescere adulti che ancora hanno bisogno di "uccidere" alcuni principi inscalfibili che li paralizzano, liberando i loro set mentali ed emozionali. Perché crescano. Nel mondo ci sono paesi nei quali l'amore omosessuale è proibito e sanzionato perfino con la pena di morte. Nel mondo ci sono nazioni che condannano a morte le adultere, come Marguerite. Ecco perché una cineasta donna, che finora ha raccontato la sua vita in opere anche ispirate a testi teatrali, come La reine des Pommes, La guerre est déclarée, Main dans la Main e Que d'amour, estremizzi ancora di più il Marivaux di Le Jeu de l'amour e de l'hazard (adattato in Que l'amour): toglie i dialoghi per rendere ancor più "colpo di fulmine" inspiegabile con la ragione quell'illuministico esperimento di Arlecchino e Lisette. Perché non si sceglie per amore, ma si è scelti dall'amore che travolge come per fatalità. Se c'è forse un film che dovrebbe essere visto in preparazione di questo è certamente Foudre di Manuela Morgaine e in particlare la quarta parte, tratta dallo stesso lavoro di Marivaux. Marguerite & Julien potrebbe essere infine un'appendice al film sui mostri barocchi di Matteo Garrone, un grand finale, il quarto "racconto dei racconti" d'epoca Basile, se non fosse che qui la donna non accetta affatto il suo ruolo di madre a tutti i costi o di sposa a tutti i costi, non brama la bellezza eterna come Fedora, non aspira a sposare il proprio assassino e non lascia morire tranquillamente i saltimbanchi che le hanno salvato la vita. Ma sbriciola tre tabù sacri e inviolabili. L'incesto, l'adulterio e la subalternità della donna. Roba da essere messa al rogo. Decapitata, per furia, anche se già morta.


Il film, che in un primo momento era pensato come un musical, è tratto da una sceneggiatura scritta nel 1973 (l'anno di nascita di Valérie Donzelli) da Jean Gruault che Francois Truffaut non riuscì mai a realizzare (a differenza delle altre collaborazioni con Gruault, Jules et Jim, Il ragazzo selvaggio, Adele H. e La camera verde)  anche perché era appena uscito Soffio al cuore di Louis Malle, argomento l'adulterio, anche se tra mamma e figlio e non tra fratello e sorella.

Histoire d'Oh.... Un videogioco raccontato a partire dall'orgasmo. Il grande ritorno di Paul Verhoeven


Isabelle Huppert in "Elle" di Paul Verhoeven


Roberto Silvestri

CANNES

Il film più atteso a Cannes 69, anche per le polemiche che tutti si aspettavano si scatenassero, è stato Elle, il venticinquesimo del cineasta olandese Paul Verhoeven, che, come Fritz Lang, è tornato a lavorare in Europa (Blackbox)  dopo 15 anni di Hollywood, e come spesso succede ha avuto difficoltà ad riambientarsi. E ha girato in patria poco, solo Tricked, un film televisivo “partecipato”, molto interessante, visto nel 2012 al festival di Roma di Mueller, dove ha utilizzato le due telecamere a spalla parallele, come in questo film, per dare una fotografia non leccata, luci brutali, e movimenti bruschi da voyeur (specialità di Stéphane Fontaine (Il Profeta).
Paul Verhoeven a sinistra e Isabelle Huppert sul set di Elle
Nervoso in occasione del suo primo film francese, nonostante avesse alle spalle da una parte i grandi progetti e incassi di Robocop, Total Recall, Basic Instinc, Showgirls, Starship Troopers…e dall’altra un passato olandese (25 anni) fatto di piccoli film superpremiati nei festival come i radicali, scandalosi, stracult futuristi Spetters, Flash+Blood, Soldato d’Orange e Il quarto uomo, Verhoeven è stato poi poi pienamente soddisfatto della qualità del lavoro di set e degli attori e del rispetto inusuale, dell’amor fou che hanno in Francia per ogni metteur en scene.  

Attesa ben ripagata, infine, dal risultato positivo, dagli applausi in sala e dalle reazioni durante e dopo la proiezione di questo psicothriller né francese né americano né all’italiana. Opera davvero ibrida e finalmente bastarda, che ci trascina, attraverso la sequenza dell’emissione televisiva “Fasites entrer l’accusé” fino in Norvegia, perché Dijan si è ispirato al serial killer Anders  Behring Breivik e poi in Spagna, dietro la bigotta Rebecca, che va in pellegrinaggio al santuario di Compostella.
Oltre che illuminata dalla perfetta interpretazione della protagonista unica, una scatenata Isabelle Huppert, al massimo della forma e data da tutti gli scommettitori (perdenti) per vincitrice della Palma. Forse perché ha vinto sempre e troppo…. 
Il regista olandese Paul Verhoeven
“Cos’è lo humor? Una tragedia raccontata come se fosse commedia”. Diceva Kieslowski. E il tono da commedia, non solo in Europa, è raro da catturare per una attrice, quando il dramma è serissimo. E il punctum, il centro del soggetto, è addirittura lo strupro plurimo. “Nessuna attrice americana avrebbe mai accettato di girare questo film, che volevamo ambientare a Boston o a Chicago”, ha precisato Verhoeven. E ha aggiunto: “Isabelle invece non ha paura di niente, non si fa mai un problema, vuole provare tutto, è di una audacia fenomenale”.
Elle, assieme a Paterson di Jarmush e a Mademoiselle di Park Chan Wook, è il terzo film della competizione ufficiale che mi sarebbe piaciuto rivedere subito, almeno una seconda volta, cosa che ormai a Cannes è diventata impossibile, perché quando ci si inebria di gigantismo si stipa all’inverosimile il programma, non si permette più a tutti  di vedere ciò che si vorrebbe e dunque si… rischia di entrare in crisi e morire.



E i tre film sono accomunati dalla presenza dominante, egemonica, di personaggi femminili che alla fine non verranno nemmeno puniti per la loro intraprendenza e forte soggettività (forse è per questa impertinenza, chiamata dai borghesi trash, rispetto all’immaginario perbenista, che questi film non sono stati premiati). E’ stata la Cannes delle donne. Si è scritto. Ma per metà è stata la Cannes delle donne da abbattere, punire, contenere, tutelare. Non qui.  
Paul Verhoeven (che ha chiuso la competizione di Cannes 69) ha fatto un film su commissione ma non è riuscito a girare in California, come inizialmente previsto, la versione cinematografica, sceneggiata dall’americano David Birke, di un best seller francese, Oh… di Philippe Djian, propostogli da Said Ben Said, uno dei nostri produttori franco-maghrebini preferiti (la sua filmografia comprende opere di Polanski, Philippe Garrell, Pascal Bonitzer, Croneberg, Walter Hill e Barbet Schreoder). Troppo moralisti in America? Piuttosto troppo abituati a vedere ben differenziata l’area del bene da quella del male e a degradare le tragedie in melodrammi, che, per quanto agitati o dinamici, siano rispettosi del genere. Quando si fa un po’ di confusione a questo proposito il consumatore statunitense si confonde e passa parola. E i critici (ipersensibili alla ricezione in sala) scrivono nel verdetto l’aggettivo controverso, che è veleno al botteghino (a Showgirls applicarono la stessa funesta etichetta…). Significa che le risposte che il film dà ad ogni perché non sono semplici, lineari e convincenti. Lasciano zone dark inquietanti. Figuriamoci poi se avessero lasciato come titolo Oh… che fa troppo Histoire d’O.
Se lo raccontate così, il film, effettivamente, è più che controverso: una manager parigina nel settore dei video-games, che tiene al guinzaglio una ventina di giovani nerd scatenati, tra geni della computer graphic, della scienza ludica e della programmazione, e ha una vita sessuale piuttosto disinvolta, una mamma scatenata e un figlio adulto non proprio semplice da gestire, viene perseguitata da un maniaco violentatore che si introduce, e più volte, nella sua ricca casa a tre piani, picchiandola e stuprandola, sia nei piani di sopra che in quelli di sotto. E invece di denunciarlo subito, comincia a instaurare con lui un gioco perverso, a distanza ravvicinata, che è anche sado-maso e cruento.
Ma non si deve raccontare così il film. Piuttosto così. Perché nei primi due stupri la musica di Anne Dudley (compositrice inglese) che confligge con l’azione è elettronica e contundente mentre quella nei sotterranei è orchestrale e a spigoli smussati?
Elle è Michéle, che gestisce affari giganteschi e vita sentimentale con la mano di ferro. Come un uomo, più di di un uomo. Ma se l’aggressore sconosciuto - contro il quale le armi di risposta potrebbero essere un’ascia e uno spray urticante al peperoncino che ti lascia cieco per mezzora - risulta poi essere qualcuno che ben si conosce, anzi piace, ci si masturba al solo vederlo passeggiare nel marciapiede di fronte, le cose sono molto più complicate di come sembrano.
A differenza di qualunque film di Asghar Farhadi, qui infatti il non ricorso alla polizia, la non denuncia immediata, non viene motivato dalla sottomissione della donna alle leggi degli uomini (o peggio dalla misericordia femminile che va molto più in là dell’ipocrisia conformista maschile) ma ha una giustificazione scritta più che convincente. Michéle ha infatti il padre in galera a vita perché a Nantes, tanti anni prima, quando lei aveva dieci anni, ha ucciso più o meno tutto il vicinato, una dozzina di persone, bambini inclusi, in un momento di pazzia ben pianificata. Insomma è un serial killer. Michéle non lo vorrà mai più vedere nella vita. E la figlia di un serial killer, dopo quello che ha passato (ma la sequenza di questo devastante racconto autobiografico, sopra le note di una Messa solenne,  è di una leggerezza insostenibile, se non ci fossero le spalle  di Isabelle Huppert a sostenerne il tono lieve)  preferirebbe certo non incrociare mai più nella vita né papà, né i mass media né l’opinione pubblica né un solo poliziotto. Cosa improbabile perché anche quando è al caffè incrociare un parente delle vittime o su un muro una scritta che la riempia di insulti è la norma.  Ma non è solo il trauma infantile, post hoc ergo propter hoc, non è solo il particolare caratterino di Michéle a spiegare tutti i comportamenti e le intenzioni del suo personaggio. Che non sempre sono chiari, e che spesso intrecciano realtà con sogno. E spiazzano sempre. Come avveniva in Total Recall quando l’onirico spintonava il verosimile. Eccita di questo personaggio complesso la sua radiante ambiguità. Cosa si nasconde dietro quel viso sorridente nei primi piani (come nella scena finale, metafisicamente corretta) e quell’aggressività spontanea e diretta, nei campi medi, nei piani americani, rispetto alla mamma, all’amante, ai dipendenti, al figlio, all’amica del cuore, con cui marito scopa e glielo dice, e alla fidanzata del figlio? Si impara in questo film qualcosa che – ci spiega il regista – si ammira nei quadri di Turner. Nei campi lunghi la violenza, il disastro, la catastrofe, la distruzione, sono sublimi. Ma avvicinandosi al primissimo piano, sono davvero orribile. Inizia così la “partita a scacchi” tra lei e il pubblico, con Verhoeven che cerca sempre, come in una partitura del suo amato Stravinsky, di sorprendere lo spettatore grazie a improvvise “mosse del cavallo”. Per tenere sempre alta la tensione Verhoeven gioca di similitudine tra il dramma vissuto da Michéle e il videogame che sta producendo, a metà tra gioco e porno, tra avventura e orgasmo. Quel che chiede ai suoi ragazzi è  quello che pretende dal suo corpo. Più eccitazione, più fantasia visiva, più raffinatezza nella illustrazione del piacere. “Tu sei troppo letteraria”, le rimprovera l’enfant prodige del gruppo. Non capisci niente del gioco agonistico. Lei gli fa capire come nel video gioco anche la violenza non deve essere meccanica. E lo spinge a fare di più, molto di più.  Infatti saranno loro due, lui e lei, a produrre gli orgasmi, live e digitali, animati o flagranti, più esplosivi e multipli. Nella storia dell’industria digitale e in quella di Michéle.                

martedì 24 maggio 2016

Turista non per caso. Fraulein di Caterina Carone



Caterina Carone, la regista





di Roberto Silvestri

Si scrive Fraulein. Si legge zitella, come si diceva una volta, nell’era prefemminista, ma si sussurra con sprezzo, tuttora, in un certo paesello sperduto sulle montagne del sud Tirolo che forse non è mai esistito.  
C’era una volta… una donna tutta sola. Arriva poi l’intruso. Baruffe, poi l’avvelenata e acuminata convivenza.
Lucia Mascino e Christian De Sica
E’ l’attrice (colta, pluripremiata, di teatro, marchigiana, ma la mamma insegna tedesco e l’ha istruita) Lucia Mascino, la padrona di casa. Qui ingoffata in vestiti da montanara, molto rude, maschiaccia, acida e perfino punk (di dentro). E vive in questo paesello sperduto, con un corso di Dudeismo per audiocassette sempre in cuffia. E’ tenutaria di un albergo senza clienti e un po’ cadente, ha qualche amica sciroccata con cui giocare e pettegolare (bel regalo, doppio, della film commission alto atesina: Irina Wrona e Therese Hamer) e un postino del sud coi baffi come spasimante eternamente respinto. Infine lei, imberrettata nella lana, è fan dei programmi tv di cucina dolce, ha un sacerdote cattolico (l’immancabile segnale del film made in Italy?) e un vecchietto a cui badare. Si chiama Regina, canta il rap, ma tra sé e sé, presumibilmente, ed ha il cuore congelato. Chissà che mistero nasconde. Chi gli tolse metà gioia di vivere? E’ una donna scontrosa e testarda come chi è  doppiamente ventenne, un po’ berlinese, molto autonoma, quasi come una grunen, o cocciuta come una ex Ddr scaraventata perplessa nella modernità, forte e come non se ne vedono mai nei film italiani e sono proibite in quelli fatti per la televisione italiana, Fuori Orario escluso. Mascino finora ha fatto sullo schermo pochi ruoli incisivi come questo (in Piccola Patria di Rossetto, in Prima linea di De Maria, in Il rosso e il blu di Piccioni ha già dimostrato comunque di meritare il premio teatrale Vittorio Mezzogiorno, vinto nel 2010). Potrebbe gironzolare sulla sua Ape guidando con un topone sulla spalla, o, come si vede nel film, con una gallinella come amica ammaestrata come se fosse un pappagallo. Ma succederanno cose nella sua vita, semplici, e misteriose, neanche tanto particolari, come se nuotasse in un acquarello di Wes Anderson o in una sinfonia visiva di Paul Thomas Anderson, che cambieranno qualcosa dentro quel corpo, muscolarmente irrigidito. Bisognoso, direbbe Wilhelm Reich di una bella seduta quadrupla in “scatola orgonica”.
Lucia Mascino e Christian De Sica
Fraulen, una fiaba d’inverno è scritto e diretto da Caterina Carone, giovane abruzzese di Ascoli Piceno che vive a Torino e che ha già vinto il Torino film Festival nel 2009 con Valentina Postika in attesa di partire, un documentario che parla di extracomunitari. E’ un esordio molto promettente, di una cineasta che ha studiato a Bolzano il documentario e poi è stata qualche tempo a Berlino. E’ la nuova scoperta del produttore Carlo Cresto Dina che ha già stupito tutti (soprattutto fuori dall’Italia) con Leonardo Di Costanzo e prima ancora con due Alice Rorhwacher. E’ diventato il talent scout delle cineaste che il mondo ci invidia. Che lavora soprattutto con l’estero e con sceneggiature e design visuali originali “e un po’ pazzi”. Che vive a Londra, che faceva comunella con “Baumi”, il produttore tedesco più eccentrico e radicale, purtroppo scomparso e che amava molto questo progetto fuori schema. 
 

Prima che sfugga dagli schermi sarebbe sciocco perdere l’occasione di vedere Fraulein, questo esperimento riuscito e un po’ degenerato.  Raccontare una fiaba agli adulti in forma di cinema ha bisogno di qualche modifica alla forma film, infatti. Ci vuole una voce fuori campo. Per confondere le idee. Ci vuole un orizzonte apocalittico perché le fiabe sono avventure a rischio della pelle, costringono alla metaforfosi, a cruente esperienze di morte. E quando si è scritto il copione (che ci ha messo molto tempo a diventare film) erano gli anni nei quali tutti, da Abel Ferrara a Lars von Trier non si occupavano che di fine del mondo. Di catastrofi spaziali, di meteoriti giganti, di  tempeste solari che possono bruciare in attimo tutti gli esseri viventi della Terre. Ci vuole anche una ritmica speciale (un montaggio a raccordi preconsci, dell’esordiente Enrica Gatto) che sappia staccare non dove sembra facile per fluidificare l’azione ma dove è necessario per sottolineare (o complicare) il gioco di  sguardi, la nascita delle emozioni e il lavorio interiore dei sentimenti. Ci vuole una armonia di immagini  non solo visive (la musica a blocchi, senza ritornello, molto presente, di Giorgo Giampà) che sappia deviare l’attenzione verso sonorità ibride (il teremin e la fantascienza apocalittica, il piano solista e il romanticismo, la strumentazione a aghi acustici del gore, perfino, e il gran finale raveliano, con quel ballo lento latino che unisce nell’immaginazione ciò che si è affettuosamente separato. E ci vuole un cinemotographer come la tedesca Melanie Brugger che sappia catturare la vitalità del musical in un solo movimento degli occhi e l’essere esausti in una sola tonalità di marrone-Bacon o di glaciale catatonia bianco-Beckett. 
Perà, essendo un film per adulti, non è necessario rispondere a ogni perché. E neppure credere che Detroit sia il paradiso sulla terra o che "spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffé" sia la dieta mediterranea perfetta (per quanto sia suadente l'hit di Fred Bongusto rifatto alla Fred Buscaglione da uno dei nostri performer più adorati da pubblico e critica).  
Non è una commedia come le altre, Freulein. Non è un horror mascherato. Non è un film sentimentale preso per i fondelli dall’umorismo. Anche se Freulein racconta la storia dell’amicizia profonda di Regina, introversa burbera che non sa più ridere, con Walter, estroverso traumatizzato che sa ancora ridere, un sessantenne “straniero” e strano,  ostinato e che proprio nella stanza numero 3 del suo albergo vuole a tutto i costi essere ospitato. 
Non è neppure un film comico, sebbene il protagonista maschile, Walter, che si perde nella foresta, insegue fantasmi di amori perduti, resta fermo e addolorato sul lago ghiacciato, balla meglio di Toni Servillo nella Grande bellezza, sia Christian De Sica che si presenta con colbacco e goffo piumino – 30 gradi sotto zero - come se arrivasse direttamente dal folgorante Vacanze di Natale dei Vanzina. No. Non ne è il seguito. Tutto ciò che in quel bel film di maschere era nel “fuori campo”, tra le righe, nei sottintesi, esce fuori, liberando il corpo d’attore dal mestiere, per restare nudo, con il solo talento e i costumi di Massimo Cantini Parrini. La comicità, presa da dietro, svela il lato triste e addolorato del clown. Senza neppure bisogno di disegnare la lacrima.  “Tim Burton è il mio modello”, afferma la regista in conferenza stampa. E aggiunge come seri modelli comici Harold and Maude e Segreti e bugie. Io aggiungerei la commedia balcanica. Da Menzel a Slobodan Sijan, da Paskaljievic a Danelia. Così la commedia eccentrica, a tocchi lievi, surreale, si fa anche stropicciata e perfino “indossata” come fa la costumista per rendere gli abiti scelti “vissuti” e non nuovi di zecca. Ed ecco. La signora dai capelli bicolorati (Ingrid Bliem Esposito); il Max inquieto di Andrea Germani, che usa Shakespeare per una invettiva alla bigotteria paesana (nel frammento più autobiografico del film, immagino); Marylin, così si chiama la gallina bianca canterina; il prete, che si fa prestare le audiocassette per la meditazione new age, perché bisogna sempre rinnovarsi; il divorzio di una amica che non arriva mai, mentre scoppia una nuova passione che le cambierà i set mentali e la pancia; il blackout defintivo, sempre annunciato dalla radio, e che non arriva mai, altro che von Trier; i due adulti che riescono a crescere, e alla loro età. In una terra di confine tapezzato di montagne lontane dove tutto è possibile. Purché non ci mettano muri divisori. E allo straniero sia consentito passare. E  soggiornare. Per arricchire il nativo, “chiuso” e incestuoso nella sua intolleranza per il diverso.