di
Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri
Belgio
e Gran Bretagna in concorso oggi. E due pezzi da novanta della regia,
beniamini di Cannes, Bruno Dumont e Ken Loach. Il primo film, Ma
Loute, è un
oggetto coproduttivo franco-tedesco non bene identificato - se non
come grottesco antropofagico e incestuoso in costume primo novecento,
dalla svolazzante recitazione (Binoche, Bruni Tedeschi e Luchini
fanno il gioco delle smorfie, a chi ne fa di più belle). La trama? I
poveri mangiano i ricchi. Sottoproletari disgustosi li azzannano
crudi, i ricchi, che sono scervellati, decadenti, odiosi, e senza che
i poliziotti, veri palloni gonfiati, ne capiscano nulla. E la cosa è
talmente pericolosa e buffa che, come fossero guerrieri della Guinea,
i pescatori miserabili di Saint Michel - che vivono trasportando a
braccia i turisti perché non bagnino i loro preziosi vestiti -
ingurgitando borghesi di Lille o Roubaix, ne assorbono anche i vizi e
quella propensione continua a delinquere (anche in senso estetico,
perché la loro magione in cemento falso egizio è un vero crimine)
che li caratterizza.
Il
secondo, I, Daniel
Blake, una
triangolazione anglo-belga-francese, contro i tagli alla spesa
pubblica aumentati con Cameron, si ispira platealmente ai pamphlet
politico-morali di Capra. Ma questo Joe Doe è molto più
disincantato. Il tono di questa tragicommedia, che quasi espelle
l’arma operaia micidiale della satira e l’invito alla rivolta
collettiva, è infatti più nero e pessimista del solito. Scritto da
Paul Laverty, da anni l’alter ego, non sempre in forma smagliante,
del regista, racconta le peripezie kafkiane (e soprattutto on line)
di un anziano falegname malato di cuore, ma di gran cuore, alle prese
con l’assistenza sociale che lo deruba dei contributi perché la
burocrazia sa sempre come trasformare un invalido (che non conta
nulla) in un “non invalido”. Obbligato a cercare lavoro, salvo
sanzioni pesanti, per ordine del medico dovrà rifiutarli tutti,
mentre assiste impotente alla disgregazione esistenziale di una
amica, Rachel, disoccupata, due figli a carico, sbattuta a 450 km da
Londra, sua città natale, per non essere obbligata a entrare in un
centro d’accoglienza. Bruno Dumont fa il possibile per restare il
“selvaggio”, infantile e narcisista, del cinema vallone (hanno
nome fiammingo i suoi odiosi capitalisti…), ingegnandosi in
scandali concettuali (la “blasfema” parodia di Poirot) e
provocazioni visive continue, che giocano sul principio del comico:
quando cade un uomo grasso ride di gusto il bambino perché non siamo
noi a cadere ma è come se l’avesse desiderato la parte più sadica
di noi...
Mentre
Ken Loach, ben radicato questa volta nelle periferie operaie di
Newcastle, costruisce un interessante variazione della “inquadratura
abietta” come Rivette definì la carrellata in avanti sul corpo di
Emmanuelle Riva, fulminata dal reticolato nazista in “Kapò”. Se
il primo piano che rende spettacolare la morte e il dolore è una
“abiezione cinematografica”, quando invece la zoomata è
indiretta e colpisce nel fuori campo, indica insomma con il dito, ma
qualcosa che non si vede, si tratta allora di politicizzare l’arte
con il pugno della satira. Che colpisce in faccia chi lincia
quotidianamente il welfare e i suoi assistiti.
Inaugurazione
della Quinzaine des realisateur riservata a Marco Bellocchio con Fai
bei sogni,
risarcimento (forse) per l'esclusione dal concorso (“no comment”
del regista). I flash indimenticabili del film, tratto dal
best-seller del giornalista e star tv Massimo Gramellini, sono il
primo piano fantasmatico di Piera degli Esposti, quasi un'apparizione
da Belfagor (ossessivo leit-motiv del protagonista), l'incontro con
l'ardente Fabrizio Gifuni nella parte di Raul Gardini e le fuggevoli,
incisive apparizioni di Roberto Di Francesco e Roberto Herlitzka.
Certo, Valerio Mastrandrea-Massimo (Gramellini) riesce perfino a far
dimenticare la sua cadenza romana, essendo cresciuto nella Torino
degli anni '60 di Sala e Moschino, Agroppi e Pulici, ma il regista di
I pugni in tasca
lo obbliga a un percorso accidentato, ballare un selvaggio “Blues
del vaccaro”, farsi largo tra i morti di Sarajevo, cadere in crisi
di panico, innamorarsi di una attrice per colpa del contratto di
coproduzione, scrivere lacrimevoli risposte al lettore ipnotizzato
della Stampa.
Fai bei sogni
racconta la storia di una giovane madre (Barbara Ronchi) morta
misteriosamente e di un bambino di 9 anni (Nicolò Cabras) che
rifiuta quella perdita. Indiscutibilmente il Bellocchio-touch si
sente quando si tratta di menar fendenti all’ipocrisia borghese e
clericale ed è un godimento di memoria cinematografica, tagli di
inquadratura, luci (solo Daniele Ciprì sa trasformare il
grigio-Torino in bagliore siciliano), digressioni, dettagli, giochi
spazio-temporali. Ma l'essenza drammatica e anche sarcastica del film
è infestata dalle giravolte narrative del libro autobiografico. E'
lontano Sangue del
mio sangue (2015).
Alla fine grandi applausi per il regista e la troupe circondati
dall'entusiasmo del pubblico.
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