mercoledì 18 maggio 2016

Cannes 69. La pazza gioia. Come sorpassare il sorpasso

Roberto Silvestri

Alla Quinzaine di Cannes 69, Paolo Virzì, con la commedia agra La pazza gioia. Diamoci alla pazza gioia. Scappiamo, evadiamo, godiamoci la vita contro tutto e contro tutti. Mettere caos nell’ordine, per poi rientrare tatticamente nell’ordine e chissà poi magari ricominciare a sprigionare colori saturi dal mondo. Insomma. Un road movie, ma all’italiana, come un Sorpasso rovesciato in chiave femminista, con Pietrangeli nume tutelare, oppure come un Thelma e Louise, diversamente tragico. Un pizzico di eccentricità in più sono regalati dalle immagini, per una volta calde quasi pop e bel contrastate del cinematographer di Sarajevo Vladan Radovic, a suo agio nei toni cupi di Saimir e Anime nere.
Un bel titolo per un film di sensibilità dolcemente anarchica, che nasce dall’alleanza di scrittura tra due cineasti non proprio gemelli ma qui esplosivi: Francesca Archibugi ovvero i mezzi toni e gli sguardi obliqui, e Paolo Virzì, che non è un virtuoso del bemolle o della settima diminuita.
Set le campagne del livornese e le spiagge di Viareggio. Al centro della scena, anzi dietro, una amicizia imprevedibile, ruvida dapprima poi sempre più tenera, tra due donne, cementata anzi shakerata da un traumatico rapporto con l’altra metà del mondo. Tre uomini almeno che le hanno scaraventate, entrambe, e non senza una loro davvero pazza complicità, ben al di là della semplice crisi di nervi. L’amicizia è tra Beatrice Morandini (notare il cognome), una ricca mitomane che si fa passare per una contessa miliardaria dell’enturage berlusconiano - forse lo è davvero - e dalla vitalità eccessiva (il corpo estroverso della bionda Valeria Bruni Tedeschi nella parodia di Vivien Leigh, già imitatrice sarcastica della femme fatale decaduta in Un tram che si chiama desiderio) e della “mora” Donatella Morelli, una ragazza povera dai cento tatuaggi, svariati buchi di roba e dalle cicatrici interiori familiari ancora ben aperte (Micaela Ramazzotti, un pianoforte dalle mille ottave), prese insomma a pugni dalla vita e dai maschi che pure si sono scelti accuratamente (ricchi, sexy, barbuti, irresistibili, coatti, aridi, volgari...). Le due ragazze per non finire in carcere sono ricoverate, ma non domate, in un accogliente centro campagnolo di riabilitazione mentale, Villa Biondi, gestito dalla anti-psichiatra Valentina Carnelutti con metodo e non-chalance basagliana, tra giardinaggio e qualche scampagnata shopping in città promessa alle più diligenti. Ma il racconto non prende la strada del nido del cuculo e della pura rivolta anti-concentrazionaria, perché nel frattempo ci farà capire che qualche controllo autoritario in più e perfino un’ipotesi di elettroshock non sarebbe poi da disprezzare (è sempre una produzione Leone Film Group, e ha già distribuzione in Francia, Bac). Anzi utilizza una miriade di personaggi minori, ma “viventi” - cosa inusuale nel nostro cinema, costretto anche per motivi di soldi al risparmio nei casting – che permettono di chiudere in bellezza la parabola avventurosa dell’evasione con un doppio ritorno normalizzante in Villa Biondi. La consapevolezza razionale di essere malate e bisognose di cure è solo una parte del finale perché, e qui Virzì certo prende il sopravvento, come allievo che ben ha studiato la formula chimica messa a punto da Ettore Scola, metà finale è dedicato anche al pianto di commozione del pubblico per la sorte delle due amiche per la pelle.

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