Roberto Silvestri
Alla Quinzaine di
Cannes 69, Paolo Virzì, con la commedia agra La pazza gioia.
Diamoci alla pazza gioia. Scappiamo, evadiamo, godiamoci la vita
contro tutto e contro tutti. Mettere caos nell’ordine, per poi
rientrare tatticamente nell’ordine e chissà poi magari
ricominciare a sprigionare colori saturi dal mondo. Insomma. Un road
movie, ma all’italiana, come un Sorpasso rovesciato in
chiave femminista, con Pietrangeli nume tutelare, oppure come un
Thelma e Louise, diversamente tragico. Un pizzico di
eccentricità in più sono regalati dalle immagini, per una volta
calde quasi pop e bel contrastate del cinematographer di Sarajevo
Vladan Radovic, a suo agio nei toni cupi di Saimir e Anime
nere.
Un bel titolo per un
film di sensibilità dolcemente anarchica, che nasce dall’alleanza
di scrittura tra due cineasti non proprio gemelli ma qui esplosivi:
Francesca Archibugi ovvero i mezzi toni e gli sguardi obliqui, e
Paolo Virzì, che non è un virtuoso del bemolle o della settima
diminuita.
Set le campagne del
livornese e le spiagge di Viareggio. Al centro della scena, anzi
dietro, una amicizia imprevedibile, ruvida dapprima poi sempre più
tenera, tra due donne, cementata anzi shakerata da un traumatico
rapporto con l’altra metà del mondo. Tre uomini almeno che le
hanno scaraventate, entrambe, e non senza una loro davvero pazza
complicità, ben al di là della semplice crisi di nervi. L’amicizia
è tra Beatrice Morandini (notare il cognome), una ricca mitomane che
si fa passare per una contessa miliardaria dell’enturage
berlusconiano - forse lo è davvero - e dalla vitalità eccessiva (il
corpo estroverso della bionda Valeria Bruni Tedeschi nella parodia di
Vivien Leigh, già imitatrice sarcastica della femme fatale decaduta
in Un tram che si chiama desiderio) e della “mora”
Donatella Morelli, una ragazza povera dai cento tatuaggi, svariati
buchi di roba e dalle cicatrici interiori familiari ancora ben aperte
(Micaela Ramazzotti, un pianoforte dalle mille ottave), prese insomma
a pugni dalla vita e dai maschi che pure si sono scelti accuratamente
(ricchi, sexy, barbuti, irresistibili, coatti, aridi, volgari...). Le
due ragazze per non finire in carcere sono ricoverate, ma non domate,
in un accogliente centro campagnolo di riabilitazione mentale, Villa
Biondi, gestito dalla anti-psichiatra Valentina Carnelutti con metodo
e non-chalance basagliana, tra giardinaggio e qualche scampagnata
shopping in città promessa alle più diligenti. Ma il racconto non
prende la strada del nido del cuculo e
della pura rivolta
anti-concentrazionaria, perché
nel frattempo ci farà capire che qualche controllo autoritario in
più e perfino un’ipotesi di elettroshock non sarebbe poi da
disprezzare (è sempre una produzione Leone Film Group, e ha
già distribuzione in Francia, Bac). Anzi utilizza una miriade di
personaggi minori, ma “viventi” - cosa inusuale nel nostro
cinema, costretto anche per motivi di soldi al risparmio nei casting
– che permettono di chiudere in bellezza la parabola avventurosa
dell’evasione con un doppio ritorno normalizzante in Villa Biondi.
La consapevolezza razionale di essere malate e bisognose di cure è
solo una parte del finale perché, e qui Virzì certo prende il
sopravvento, come allievo che ben ha studiato la formula chimica
messa a punto da Ettore Scola, metà finale è dedicato anche al
pianto di commozione del pubblico per la sorte delle due amiche per
la pelle.
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