martedì 24 maggio 2016

Turista non per caso. Fraulein di Caterina Carone



Caterina Carone, la regista





di Roberto Silvestri

Si scrive Fraulein. Si legge zitella, come si diceva una volta, nell’era prefemminista, ma si sussurra con sprezzo, tuttora, in un certo paesello sperduto sulle montagne del sud Tirolo che forse non è mai esistito.  
C’era una volta… una donna tutta sola. Arriva poi l’intruso. Baruffe, poi l’avvelenata e acuminata convivenza.
Lucia Mascino e Christian De Sica
E’ l’attrice (colta, pluripremiata, di teatro, marchigiana, ma la mamma insegna tedesco e l’ha istruita) Lucia Mascino, la padrona di casa. Qui ingoffata in vestiti da montanara, molto rude, maschiaccia, acida e perfino punk (di dentro). E vive in questo paesello sperduto, con un corso di Dudeismo per audiocassette sempre in cuffia. E’ tenutaria di un albergo senza clienti e un po’ cadente, ha qualche amica sciroccata con cui giocare e pettegolare (bel regalo, doppio, della film commission alto atesina: Irina Wrona e Therese Hamer) e un postino del sud coi baffi come spasimante eternamente respinto. Infine lei, imberrettata nella lana, è fan dei programmi tv di cucina dolce, ha un sacerdote cattolico (l’immancabile segnale del film made in Italy?) e un vecchietto a cui badare. Si chiama Regina, canta il rap, ma tra sé e sé, presumibilmente, ed ha il cuore congelato. Chissà che mistero nasconde. Chi gli tolse metà gioia di vivere? E’ una donna scontrosa e testarda come chi è  doppiamente ventenne, un po’ berlinese, molto autonoma, quasi come una grunen, o cocciuta come una ex Ddr scaraventata perplessa nella modernità, forte e come non se ne vedono mai nei film italiani e sono proibite in quelli fatti per la televisione italiana, Fuori Orario escluso. Mascino finora ha fatto sullo schermo pochi ruoli incisivi come questo (in Piccola Patria di Rossetto, in Prima linea di De Maria, in Il rosso e il blu di Piccioni ha già dimostrato comunque di meritare il premio teatrale Vittorio Mezzogiorno, vinto nel 2010). Potrebbe gironzolare sulla sua Ape guidando con un topone sulla spalla, o, come si vede nel film, con una gallinella come amica ammaestrata come se fosse un pappagallo. Ma succederanno cose nella sua vita, semplici, e misteriose, neanche tanto particolari, come se nuotasse in un acquarello di Wes Anderson o in una sinfonia visiva di Paul Thomas Anderson, che cambieranno qualcosa dentro quel corpo, muscolarmente irrigidito. Bisognoso, direbbe Wilhelm Reich di una bella seduta quadrupla in “scatola orgonica”.
Lucia Mascino e Christian De Sica
Fraulen, una fiaba d’inverno è scritto e diretto da Caterina Carone, giovane abruzzese di Ascoli Piceno che vive a Torino e che ha già vinto il Torino film Festival nel 2009 con Valentina Postika in attesa di partire, un documentario che parla di extracomunitari. E’ un esordio molto promettente, di una cineasta che ha studiato a Bolzano il documentario e poi è stata qualche tempo a Berlino. E’ la nuova scoperta del produttore Carlo Cresto Dina che ha già stupito tutti (soprattutto fuori dall’Italia) con Leonardo Di Costanzo e prima ancora con due Alice Rorhwacher. E’ diventato il talent scout delle cineaste che il mondo ci invidia. Che lavora soprattutto con l’estero e con sceneggiature e design visuali originali “e un po’ pazzi”. Che vive a Londra, che faceva comunella con “Baumi”, il produttore tedesco più eccentrico e radicale, purtroppo scomparso e che amava molto questo progetto fuori schema. 
 

Prima che sfugga dagli schermi sarebbe sciocco perdere l’occasione di vedere Fraulein, questo esperimento riuscito e un po’ degenerato.  Raccontare una fiaba agli adulti in forma di cinema ha bisogno di qualche modifica alla forma film, infatti. Ci vuole una voce fuori campo. Per confondere le idee. Ci vuole un orizzonte apocalittico perché le fiabe sono avventure a rischio della pelle, costringono alla metaforfosi, a cruente esperienze di morte. E quando si è scritto il copione (che ci ha messo molto tempo a diventare film) erano gli anni nei quali tutti, da Abel Ferrara a Lars von Trier non si occupavano che di fine del mondo. Di catastrofi spaziali, di meteoriti giganti, di  tempeste solari che possono bruciare in attimo tutti gli esseri viventi della Terre. Ci vuole anche una ritmica speciale (un montaggio a raccordi preconsci, dell’esordiente Enrica Gatto) che sappia staccare non dove sembra facile per fluidificare l’azione ma dove è necessario per sottolineare (o complicare) il gioco di  sguardi, la nascita delle emozioni e il lavorio interiore dei sentimenti. Ci vuole una armonia di immagini  non solo visive (la musica a blocchi, senza ritornello, molto presente, di Giorgo Giampà) che sappia deviare l’attenzione verso sonorità ibride (il teremin e la fantascienza apocalittica, il piano solista e il romanticismo, la strumentazione a aghi acustici del gore, perfino, e il gran finale raveliano, con quel ballo lento latino che unisce nell’immaginazione ciò che si è affettuosamente separato. E ci vuole un cinemotographer come la tedesca Melanie Brugger che sappia catturare la vitalità del musical in un solo movimento degli occhi e l’essere esausti in una sola tonalità di marrone-Bacon o di glaciale catatonia bianco-Beckett. 
Perà, essendo un film per adulti, non è necessario rispondere a ogni perché. E neppure credere che Detroit sia il paradiso sulla terra o che "spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffé" sia la dieta mediterranea perfetta (per quanto sia suadente l'hit di Fred Bongusto rifatto alla Fred Buscaglione da uno dei nostri performer più adorati da pubblico e critica).  
Non è una commedia come le altre, Freulein. Non è un horror mascherato. Non è un film sentimentale preso per i fondelli dall’umorismo. Anche se Freulein racconta la storia dell’amicizia profonda di Regina, introversa burbera che non sa più ridere, con Walter, estroverso traumatizzato che sa ancora ridere, un sessantenne “straniero” e strano,  ostinato e che proprio nella stanza numero 3 del suo albergo vuole a tutto i costi essere ospitato. 
Non è neppure un film comico, sebbene il protagonista maschile, Walter, che si perde nella foresta, insegue fantasmi di amori perduti, resta fermo e addolorato sul lago ghiacciato, balla meglio di Toni Servillo nella Grande bellezza, sia Christian De Sica che si presenta con colbacco e goffo piumino – 30 gradi sotto zero - come se arrivasse direttamente dal folgorante Vacanze di Natale dei Vanzina. No. Non ne è il seguito. Tutto ciò che in quel bel film di maschere era nel “fuori campo”, tra le righe, nei sottintesi, esce fuori, liberando il corpo d’attore dal mestiere, per restare nudo, con il solo talento e i costumi di Massimo Cantini Parrini. La comicità, presa da dietro, svela il lato triste e addolorato del clown. Senza neppure bisogno di disegnare la lacrima.  “Tim Burton è il mio modello”, afferma la regista in conferenza stampa. E aggiunge come seri modelli comici Harold and Maude e Segreti e bugie. Io aggiungerei la commedia balcanica. Da Menzel a Slobodan Sijan, da Paskaljievic a Danelia. Così la commedia eccentrica, a tocchi lievi, surreale, si fa anche stropicciata e perfino “indossata” come fa la costumista per rendere gli abiti scelti “vissuti” e non nuovi di zecca. Ed ecco. La signora dai capelli bicolorati (Ingrid Bliem Esposito); il Max inquieto di Andrea Germani, che usa Shakespeare per una invettiva alla bigotteria paesana (nel frammento più autobiografico del film, immagino); Marylin, così si chiama la gallina bianca canterina; il prete, che si fa prestare le audiocassette per la meditazione new age, perché bisogna sempre rinnovarsi; il divorzio di una amica che non arriva mai, mentre scoppia una nuova passione che le cambierà i set mentali e la pancia; il blackout defintivo, sempre annunciato dalla radio, e che non arriva mai, altro che von Trier; i due adulti che riescono a crescere, e alla loro età. In una terra di confine tapezzato di montagne lontane dove tutto è possibile. Purché non ci mettano muri divisori. E allo straniero sia consentito passare. E  soggiornare. Per arricchire il nativo, “chiuso” e incestuoso nella sua intolleranza per il diverso.        

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