Si scrive Fraulein. Si legge zitella, come si diceva una volta, nell’era prefemminista, ma si
sussurra con sprezzo, tuttora, in un certo paesello sperduto sulle montagne del
sud Tirolo che forse non è mai esistito.
C’era una volta… una donna
tutta sola. Arriva poi l’intruso. Baruffe, poi l’avvelenata e acuminata
convivenza.
Lucia Mascino e Christian De Sica |
Lucia Mascino e Christian De Sica |
Prima che sfugga dagli schermi sarebbe sciocco perdere l’occasione di vedere Fraulein, questo esperimento riuscito e un po’ degenerato. Raccontare una fiaba agli adulti in forma di cinema ha bisogno di qualche modifica alla forma film, infatti. Ci vuole una voce fuori campo. Per confondere le idee. Ci vuole un orizzonte apocalittico perché le fiabe sono avventure a rischio della pelle, costringono alla metaforfosi, a cruente esperienze di morte. E quando si è scritto il copione (che ci ha messo molto tempo a diventare film) erano gli anni nei quali tutti, da Abel Ferrara a Lars von Trier non si occupavano che di fine del mondo. Di catastrofi spaziali, di meteoriti giganti, di tempeste solari che possono bruciare in attimo tutti gli esseri viventi della Terre. Ci vuole anche una ritmica speciale (un montaggio a raccordi preconsci, dell’esordiente Enrica Gatto) che sappia staccare non dove sembra facile per fluidificare l’azione ma dove è necessario per sottolineare (o complicare) il gioco di sguardi, la nascita delle emozioni e il lavorio interiore dei sentimenti. Ci vuole una armonia di immagini non solo visive (la musica a blocchi, senza ritornello, molto presente, di Giorgo Giampà) che sappia deviare l’attenzione verso sonorità ibride (il teremin e la fantascienza apocalittica, il piano solista e il romanticismo, la strumentazione a aghi acustici del gore, perfino, e il gran finale raveliano, con quel ballo lento latino che unisce nell’immaginazione ciò che si è affettuosamente separato. E ci vuole un cinemotographer come la tedesca Melanie Brugger che sappia catturare la vitalità del musical in un solo movimento degli occhi e l’essere esausti in una sola tonalità di marrone-Bacon o di glaciale catatonia bianco-Beckett.
Perà, essendo un film per adulti, non è necessario rispondere a ogni perché. E neppure credere che Detroit sia il paradiso sulla terra o che "spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffé" sia la dieta mediterranea perfetta (per quanto sia suadente l'hit di Fred Bongusto rifatto alla Fred Buscaglione da uno dei nostri performer più adorati da pubblico e critica).
Non è una commedia come le altre, Freulein. Non è un horror mascherato. Non è un film sentimentale preso per i fondelli dall’umorismo. Anche se Freulein racconta la storia dell’amicizia profonda di Regina, introversa burbera che non sa più ridere, con Walter, estroverso traumatizzato che sa ancora ridere, un sessantenne “straniero” e strano, ostinato e che proprio nella stanza numero 3 del suo albergo vuole a tutto i costi essere ospitato.
Non è neppure un film comico, sebbene il protagonista maschile, Walter, che si perde nella foresta, insegue fantasmi di amori perduti, resta fermo e addolorato sul lago ghiacciato, balla meglio di Toni Servillo nella Grande bellezza, sia Christian De Sica che si presenta con colbacco e goffo piumino – 30 gradi sotto zero - come se arrivasse direttamente dal folgorante Vacanze di Natale dei Vanzina. No. Non ne è il seguito. Tutto ciò che in quel bel film di maschere era nel “fuori campo”, tra le righe, nei sottintesi, esce fuori, liberando il corpo d’attore dal mestiere, per restare nudo, con il solo talento e i costumi di Massimo Cantini Parrini. La comicità, presa da dietro, svela il lato triste e addolorato del clown. Senza neppure bisogno di disegnare la lacrima. “Tim Burton è il mio modello”, afferma la regista in conferenza stampa. E aggiunge come seri modelli comici Harold and Maude e Segreti e bugie. Io aggiungerei la commedia balcanica. Da Menzel a Slobodan Sijan, da Paskaljievic a Danelia. Così la commedia eccentrica, a tocchi lievi, surreale, si fa anche stropicciata e perfino “indossata” come fa la costumista per rendere gli abiti scelti “vissuti” e non nuovi di zecca. Ed ecco. La signora dai capelli bicolorati (Ingrid Bliem Esposito); il Max inquieto di Andrea Germani, che usa Shakespeare per una invettiva alla bigotteria paesana (nel frammento più autobiografico del film, immagino); Marylin, così si chiama la gallina bianca canterina; il prete, che si fa prestare le audiocassette per la meditazione new age, perché bisogna sempre rinnovarsi; il divorzio di una amica che non arriva mai, mentre scoppia una nuova passione che le cambierà i set mentali e la pancia; il blackout defintivo, sempre annunciato dalla radio, e che non arriva mai, altro che von Trier; i due adulti che riescono a crescere, e alla loro età. In una terra di confine tapezzato di montagne lontane dove tutto è possibile. Purché non ci mettano muri divisori. E allo straniero sia consentito passare. E soggiornare. Per arricchire il nativo, “chiuso” e incestuoso nella sua intolleranza per il diverso.
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