Roberto Silvestri
Cannes
Non è una finzione. E’ tragicamente vero. E’ la madre di tutte le sequenze. Il torturatore che incontra il torturato. Su una panchina qualunque. Seduti. “Non è colpa mia eseguivo gli ordini”, si scusa l’aguzzino. “Ero come un cane addestrato dal padrone ad azzannare il nemico. Posso anche chiedere perdono, anzi lo chiedo, ma eseguivo ordini”. Il torturato spiega al criminale, che non se ne rende conto: “dobbiamo fare qualcosa perché in questo paese mai più nessuno diventi più il cane ringhioso di qualcun altro”. In mezzo il presidente di una associazione delle vittime di un dittatore africano.
Non è una finzione. E’ tragicamente vero. E’ la madre di tutte le sequenze. Il torturatore che incontra il torturato. Su una panchina qualunque. Seduti. “Non è colpa mia eseguivo gli ordini”, si scusa l’aguzzino. “Ero come un cane addestrato dal padrone ad azzannare il nemico. Posso anche chiedere perdono, anzi lo chiedo, ma eseguivo ordini”. Il torturato spiega al criminale, che non se ne rende conto: “dobbiamo fare qualcosa perché in questo paese mai più nessuno diventi più il cane ringhioso di qualcun altro”. In mezzo il presidente di una associazione delle vittime di un dittatore africano.
Siamo in Ciad, oggi,
il governo attuale in qualche maniera prosegue nella stessa politica
degli anni 80 di quel dittatore, ma siccome Gheddafi non c’è più,
non ha più bisogno di utilizzare le maniere forti. Si parla infatti
di crimini avvenuti oltre trent’anni fa. Ma quello che conta non è
la scheda geopolitica circostanziata, su stati che nei nostri tg non
esistono nemmeno, ma l’immagine, madre di tutte le immagini,
che il regista di questo capolavoro, selezionato fuori concorso a
Cannes 69 riesce a costruire. “Giusto un’immagine”. Questo film
l’ha trovata. Tra i due protagonisti della storia, in un match più
devastante di un mondiale dei pesi massimi, Clement Abaifouta,
presidente dell’associazione delle vittime dei crimini del regime
di Hebre (AVCRHH). In competizione solo Jarmusch, Park Chan Wook e
quasi Assayas e Almodovar sono arrivati vicino all’immagine. E
basterebbe infatti questa sequenza, insostenibile emozionalmente, per
fare unico e indispensabile questo documentario. Polanski e tanti
altri registi l’hanno immaginata quella scena, ma per farla
recitare poi da attori. Il processo Eichmann aveva altri scopi che
non quello di allestire scene madri per aprire una fase di giustizia
e riconciliazione tra tedeschi e ebrei. La vendetta non tollera la
giustizia. Come i russi a Berlino, i titini in Venezia Giulia, i
khmer rossi a Phnon Penh e i marines a Mai Lai. Nel doc di
Oppenheimer sui massacri in Indonesia di comunisti, mezzo milione di
assassinati, non si riesce mai a far incontrare una vittima con il
suo aguzzino, semplicemente perché quella vittima non c’è più, è
sparita nel nulla. Sono solo i parenti delle vittime che potranno
ottenere le scuse degli assassini e forse concedere il perdono. In
Indonesia, per ora, non succederà. Non c’è solo Pol Pot, anche i
liberisti occidentali sono stati orribili nel decennio ottanta, non
solo in Centro e Sud America ma anche in Africa del Nord (in Ciad,
appunto) e in Africa del Sud (coordinati da Pretoria razzista).
E’ possibile
avviare un processo di verità e riconciliazione nazionale anche in
Ciad, dopo gli otto anni di dittatura poliziesca e di massacri
commessi, per colpa della guerra fredda e degli interessi superiori
delle multinazionali, dal 1982 al 1990? Le vittime perdoneranno mai i
torturatori che hanno lasciato sul campo corpi maciullati e gli
assassini mai perseguitati dalla legge? E perché questa giustizia
arriva con troppi anni di ritardo? E come avverrà questa
riappacificazione? Potranno i militari giustificarsi dicendo che
hanno solamente eseguito gli ordini, imitando i loro antenati
nazisti? Ne parla questo film impressionante e necessario.
Hissein Habré,
une tragédie tchadienne, visto
a Cannes in una sala semivuota, perché
il pubblico di Cannes è preoccupantemente intossicato, come
proiezione speciale della selezione ufficiale, è il nuovo bellissimo
lavoro di Mahamat-Saleh
Haroun, un documentario sui
metodi inquisitori del regime
militare di Habré,
sostenuto politicamente e
finanziariamente da
Reagan/Bush,
Francia e Germania
in funzione anti-Gheddafi, e resposabile diretto
della morte in carcere di
quasi 5000 prigionieri, dopo torture inaudite. Ma
che ascolteremo dettagliatamente, coltellata dopo martellata,
castrazione dopo mutilazione. Haroun dovette fuggire all’estero
durante quegli anni. Proprio nel paese, la Francia, che gestiva gli
sporchi affari senza sporcarsi direttamente le mani. Siccome il doc è
di Arte non si entra proprio nei dettagli insidiosi
della storia. Anzi non si
capisce molto
di quello che è successo nel paese dal 1990 ad oggi. Si intuisce
però che Parigi continua a mantenere tutto sotto controllo, e non ha
più bisogno di organizzare colpi di stato (ne ha istigati 64 dopo le
indipendenze delle sue ex colonie, un numero da Guinness dei
primati). Appena un
dittatore sgarra, muore e
viene sostituito. E la stampa
e i media aizzano alla
campgna contro il vecchio
dittatore.
Habré,
processato nelle scorse settimane a Dakar, dopo 25 anni di esilio
dorato (la sentenza arriverà proprio
alla fine del mese) da
un tribunale internazionale che lui non riconosce, rischia
l’ergastolo per crimini contro l’umanità, crimini
di guerra e torture (un reato
che in Italia non esiste, come insegna il caso Cucchi).
Difficilmente potrà però
difendersi dalle accuse dei testimoni sopravvvissuti
che hanno raccontato per
filo e per segno i
suoi metodi da Gestapo. Nel film molti combattenti delle
milizie rivoluzionarie o
cittadini qualunque
innocenti, uomini
e donne, forti
abbastanza da resistere
due-tre-quattro
anni ai ferri
degli aguzzini, raccontano dettagliatamente le
loro sofferenze.
Qualcuno non riesce più a stare in piedi. Molti sono ciechi, sordi,
senza una gamba, senza
memoria. Vivono
di soli incubi. Hanno il corpo zeppo di cicatrici, altro che
tatuaggi. E si tratta dei più
fortunati. Dei sopravvissuti.
Haroun
è uno dei più interessanti cineasti africani della “terza
generazione”, quella che ha
esordito nel XXI secolo.
Quella della nuova guerra di
indipendenza dal neocolonialismo. Una guerra in corso. Dopo
la generazione
dei padri fondatori, dei
patriarchi “realisti”,
a cominciare da Sembene Ousmane e dopo
quella dei loro allievi, più
“visionari” e umoristi,
come Gaston Kaboré o
Oumar Cheik Sissoko. Il suo esordio, stilisticamente
più
personale e minimalista, ma accompagnato
da un
intatto furore etico, è
del 1999, Bye Bye Africa,
che vinse
un premio a Venezia. Per l’insieme della sua opera (consacrata
nei maggiori festival internazionali)
Haroun ha
vinto il prestigioso “premio
Bresson” nel 2010, e dopo Abounia, Daratt (Stagione
secca), Un uomo che piange e Grisgris, su
un virtuoso sciancato del balletto pop, eccolo alle prese con il suo
primo documentario lungo.
Dedicato alla Associazione
delle vittime di Habré, che
ha lottato dal 1990 in poi, cioé dalla caduta della dittatura fino
al suo arresto, il 30 giugno 2013, per ottenere giustizia e
processare un dittatore che attraverso il suo partito unico e la sua
polizia segreta
ha tenuto in pugno e in regima di terrore il paese (per contro degli
interessi occidentali, che non credo verranno processati a Dakar).
E’ stata una donna,
l’avvocato Jacqueline
Moudeina, militante dei diritti dell’uomo, ad arrivare fino in
fondo, senza mai essere pagata dai suoi clienti, poverissimi, premio
Nobel alternativo The Right Livelihood Award 2011.
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