lunedì 30 maggio 2016

Tra la terra e il cielo. Un film indiano sui nostri schermi per riappacificare gli animi. Lo dirige Neeray Ghaywan


di Roberto Silvestri


Un film indiano che ha vinto il premio Fipresci (assegnato dalla critica internazionale) e quello dell'Avvenire nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes del 2015 esce finalmente il primo giugno sui nostri schermi, un anno dopo la fortunata uscita in Francia.
Si intitola Tra la terra e il cielo (Masaan), titolo internazionale inglese Fly Away Solo, ed è l'esordio di Neeray Ghaywan. Siccome non si tratta del solito rimescolar le carte posmoderne giocando con gli stereotipi di Bollywood, come avviene nei film di Mira Nair e Peter Boyle, ma di un interessante esperimento controculturale, prepotente e egemonico, il film merita un discorso più lungo e una contestualizzazione più dettagliata. “Il film più acclamato dell’anno negli Stati Uniti” scrive il New York Times non può passare inosservato da noi.

L'India è vicina. Più di quanto noi non pensiamo. Non solo per le 5 caste, lì stabilite religiosamente, qui ereditate da un feudalesimo (più mafia e corruzione) millenario, più invisibile, ma non meno inossidabile (il 25% di super poveri è più o meno una identica percentuale).  Poi per la goffagine speculare delle rispettive istituzioni giuridiche (caso Battisti/caso Marò, appunto). Perché le due società sono patriarcali e, maggioritariamente, conservatrici e diversamente misogine.

Da noi qualche speranza di cambiamento di classe, di salto in avanti, in vita, c'è ancora. Almeno a giudicare dai telequiz e dalle slot machine. Basta scimmiottare idee e valori della classe dominante. Ma in India è inutile fare i soldi, gli steccati aristocratici sono ferrei, la mobilità è morta. Anche chi, come i Sikh, rifiuta il sistema delle caste, si rinchiude nella propria comunità ma non rompe il giocattolo sacro. Non ci fosse la reincarnazione (come da noi il Paradiso dell'aldilà) a premiare con un salto di casta i più pii dopo la morte... Oppure il cinema, che premia sempre, in anticipo, i karma meritevoli.
I problemi bellici in Kashmir, poi, occupata militarmente da Bombay, con il Pakistan che appoggia la lotta armata indipendentista, nonostante un'antica risoluzione dell'Onu, hanno costretto da anni molte produzioni ambientate tra le montagne di Bollywood, Tollywood e Kollywood (ovvero i tre poli produttivi di Bombay, che realizza circa 250 film all'anno, mentre il polo del sud-est indiano, in lingua  tamil e telogu, produce 600 film all'anno, e comprende gli stati Andhra Pradesh, Télangana, Kerala e Karnataka; e infine, ancora più a sud, il Chennai) a emigrare e  cercare location altrove. Svizzera e Austria hanno mangiato in un solo boccone la concorrenza italiana, per la lentezza con la quale le film commission e i politici locali analfabeti di media si sono adeguati agli standard dell'Europa più nordica. Perfino Paolo Sorrentino ha preferito la Svizzero alla Valle d'Aosta, al Veneto e al sud Tirolo /Alto Adige...
Sarà bene occuparci di cinema indiano e seguire annualmente River to River a Firenze e altre manifestazioni simili. Perché anche il cinema indiano, così potente e gigantesco, ha qualcosa in comune con il nostro. E' difficilmente esportabile e ha un design grafico-narrativo incomunicabile (anche se poi quando Francesco Di Pace ha programmato in Rai film indiani il successo di pubblico è stato sorprendente).

Se fossimo stati più rispettosi delle altre culture, per esempio programmando un numero superiore di film indiani in tv, e non solo di Bollywood (Anurag Kashyap, cavaliere delle arti e delle lettere in Francia nel 2013, è un nome proprio sconosciuto alla Rai? Mai sentito parlare di Ugly? E del noir Psycho Raman, sul un celebre serial killer degli anni 60 a Bombay, invitato a Cannes 69 dalla Quinzaine)  ne avrebbe beneficiato di molto il nostro pubblico, il nostro prodotto cinematografico medio, la nostra bilancia dei pagamenti (e anche il trattamento riservato ai nostri marò, più risentito del normale a causa di un crescente disprezzo o disinteresse culturale per un resto del mondo, che si conosce mediamente malissimo anche perché al tg non esiste, cancellato). Possiamo sempre invertire la marcia. "Cambiare di passo", come dice il presidente del consiglio. C'è un'occasione. Masaan.
Il solito match tra modernità e tradizione che da mezzo secolo ossessiona il cinema d’autore dell’est e dell’ovest si ambienta questa volta sulle rive del Gange, a Benares (Varanasi), nella città sacra che più si protegge dagli assalti del nuovo. E intreccia, sullo sfondo dei cadaveri bruciati, i destini di quattro personaggi, la vita, i sogni, i turbamenti, la memoria, le provocazioni, la violenza, gli incubi e i progetti di libertà e emancipazione del giovane Deepak, che che ama perdutamente una ragazza che non appartiene alla sua casta; della studentessa Devi, traumatizzata dopo dal suicidio del suo amante. E poi di Pathak, il padre di lei, vittima della corruzione poliziesca e del piccolo ragazzo di strada Jhonta, genio della sopravvivenza “senza rete”. L’intento è blasfemo, ma ci si muove con cautela.
Anche perché la censura indiana, non sarà proprio come quella dell’Ohio e della Pennsylvania all’inizio del ‘900, ma è implacabile su sangue, parolacce, sesso (fermo o in movimento) e politica, non permette che si sgualcisca l’ordine del discorso e la gerarchia delle idee consentite...
Dunque il consiglio è non fidatevi delle apparenze e vedete cosa c’è di incandescenze e rabbioso sotto quell'aura da film radical chic (a semi produzione francese) che serve a proteggere il film dalle forze maligne, dagli spiriti reazionari. Il cinema non ha valore se non mostra la società così com'è, come funziona veramente e quali contraddizioni produce e come superarle. Ma il fuori campo e l’allusione obliqua, l'astuzia della ricezione e il sottinteso ben congegnato dal regista fanno vedere in più cose che la censura non vede e non sente.
Perfino un film porno, che la protagonista femminile di Masaan, Devi, guarda con tranquillità e goduria sul suo computer a inizio film. L'idea disturbante (che fa volar via il turbante) è pensare a un lavoro di routine da paria come bruciare cadaveri a ripetizione, considerare quei corpi come fantocci inermi o robot tutti uguali (in realtà è proprio la stessa idea di Laszlo Nemes in Il figlio di Saul) e improvvisamente rompere la routine, far irrompere come shock emotivo il corpo della persona amata "al di là della morte". Questa è stata l'immagine "madre" di tutte le sequenze del film di Ghaywan.

Robusta è infatti l'impostazione e l'intenzionalità documentaristica, sottolineata dalle lunghe riprese a  Benares, una delle sette città sante induiste, la località "più vecchia della storia, più vecchia della tradizione" (Mark Twain), nel nord-est del gigantesco paese. Luogo di potenza spirituale immane, a lungo vi ha soggiornato Gianfranco Rosi prima di girare il suo film d’esordio, Boatman.
Centro mistico e funereo (è stata fondata dal dio che probabilmente è il preferito di Berlusconi, Shiva, colui che impersona la distruzione e la ricostruzione del mondo e dei condomini), meta di pellegrinaggio induista (l'80% della popolazione della più grande, anche se castigata, democrazia al mondo), Veranasi (in lingua indù) è il posto dove i vecchi vanno a morire e i vivi si purificano in attesa del salto di casta con la cremazione. La città non è esente, nel frattempo, da laceranti, ben visibili, ingiustizie sociali. Un fiume l'attraversa e sulle rive si accendono i roghi funebri. 50, 60 corpi al giorno vengono cremati. Lo stato di diritto ha non poche difficoltà ad esistere. Se non formalmente. Lo avranno ereditato dal colonialismo inglese che ha distrutto nel profondo una società coesa e organizzata che nel 1700 aveva un reddito pro capite superiore a quello dei sudditi di sua Maestà britannica. La corruzione in India (come alla Fifa) oggi si può combattere, ma non vincere. Per ora. La polizia colpisce i poveri e protegge i ricchi. Anche perché gli eroi del film, una coppia etero, un bambino vispo e un vecchio intellettuale impaurito, vivono sui bordi del fiume Gange nei posti loro assegnati: in alto i potenti, prestigiosi e ricchi, Bramini, Khsatriya e Valshyia; in basso, sui ghat (gli scalini che discendono sul fiume) gli shudras, i servi, e gli intoccabili, i paria dei paria, i senza casta, coloro che bruciano 30.000 corpi dei morti all'anno, e hanno il corpo tutto coperto di nerofumo come all'inferno, come in miniera. Alcuni ghat sono proprietà privata secolare delle famiglie blasonate, dei maraja che hanno costruito sontuosi edifici  e templi sul Gange. Se una cremazione costa 600 dollari, 500 vanno al proprietario del ghat e solo 100 all'operaio che materialmente la esegue.


La diva Richa Chadda e il padre, l'attore Sanya Mishra

Dunque via le canzoni e banditi, per motivi religiosi, i balletti, che caratterizzano il format standard dei bollywood-movies. Resta il melò, ma ha il sapore acre e avulso, dei cadaveri bruciati.

Molti i roghi e i dettagli macabri. Sono i becchini e i figli dei becchini e gli amici dei becchini i protagonisti di queste tre storie intrecciate collegate solo dal fiume che le rispecchia.


Vediamo cosa racconta il film. Un piccolo orfano spiritato, Jhonta (Nikhil Sahni), nuotatore provetto, intraprendente fino all'incoscienza, che cerca affetto e almeno un padrino, sopravvive grazie al giro delle scommesse clandestine (si butta nel fiume e afferra più rupie possibili, lanciate sul fondale dal banditore mentre i maniaci dell'azzardo perdono tutti i loro soldi, come qui alle slot machine). Un professore universitario in pensione, Vidyadat Pathak (Sanya Mishra) è costretto dalla crisi a far traduzioni sottopagate, a scommettere sui bambini sub e a trasformarsi in bottegaio di cianfrusaglie per mantere la figlia Devi (Richa Chadda, l'ex modella lanciata in Gangs of Wasseypur 1 e 2), appena laureata, e molestata e concupita ovunque vada a lavorare, perfino alle ferrovie pubbliche. Inoltre si svena perché lei è sotto pesante ricatto poliziesco.

Scoperta in un hotel a far l'amore con il compagno di studi, fotografata discinta e minacciata di arresto per oltraggio al pudore (sic! neanche negli alberghi puritano-sabaudi succedono cose di questo tipo) è turbata e angosciata dai sensi di colpa perché il suo amante si è suicidato nel corso dell'incursione poliziesca, per non finire in carcere. Il padre di Devi è terrorizzato che la notizia trapeli, rovinandole per sempre la reputazione (altro sic!). E ne approfitta il perfido losco e disonesto ispettore della polizia Mishra.

Infine il romantico futuro ingegnere Deepak Chaudhary (Vicky Kaushal), figlio di becchini, che si è innamorato di Shaalu (Shweta Tripaty), una ragazza di casta superiore che lo ricambia e che ha deciso di fuggire comunque con lui, i genitori lo accettino o no, ma che non potrà avere mai....


Le due tristi storie d'amore di Benares,  scavalcano il dramma (il duro contesto politico) e il melodramma (l'impossibile happy end che scatena le lacrime) perché comunque urlano un formidabile sì alla vita proprio in un luogo che ha un permanente contatto con la morte. Questo è il cuore ritmico del film, un grande sì alla vita fin dentro la morte, come avrebbe definito l’erotismo George Bataille. La tragica condizione della donna viene declinata attraverso l'evoluzione di questi amori impossibili (per veti di casta o di castità obbligatoria). Le due ragazze hanno personalità forti, però, sono intellettuali, raffinate, intuitive, passionali, esperte di poesia e informatica, donne moderne, ma non adeguatamente fiancheggiate dalle istituzioni, che arrancano dietro, senza raggiungerle.

Sappiamo che questa insorgenza femminile in India come altrove sta provocando una reazione di debolezza patetica negli uomini più deboli e insicuri, che reagiscono con buffi travestimenti (le barbone virili alla Moscardelli, il mitra fallico, le bandiera nero-nazi) e terrificanti atti di violenza vigliacca e di stupro squadrista. Ma la distruzione delle due coppie (è lei che muore questa volta, in un incidente di pullman, e il suo anello verrà trovato dal disperato Deepak tra le ceneri di un rogo sul Gange) forse feconderà qualcos'altro.
Sono dieci anni che si parla di nouvelle vague indiana. Sarà la volta buona? In realtà ogni grande industria in crisi produce una generazione di iconoclasti costruttivi (come le new waves anni 60) che rivoluzionano tutto e aspirano a prendere il controllo della macchina e... poi non ci riescono mai. In Francia come in Brasile, in Polonia come in Inghilterra. Appena il restyling è completato ecco che arrivano le superproduzioni fresche a ricominciare da capo.


Richa Chadda

Il regista Neeraj Ghaywan viene dall' università critica dei blogger. Ha scritto su Bela Tarr, i Dardenne, Kieslowski, Pialat che, lui dice, sono i suoi modelli. Presa la laurea in economia e commercio aveva trovato un lavoro molto ben pagato e orrendo. Per fortuna Anurag Kashyap lo ha spinto violentemente alla regia (assumendolo nella sua troupe e dandogli da girare il making off di Gangs of Wasseypur), lo ha costretto a dimettersi dall'ufficio, a rompere con la famiglia e con la promessa sposa che Neeraj non amava, ma gli era stata imposta dalle solite rigide convenzioni sociali e religiose. C'è dell'autobiografia dunque in questa opera prima a basso costo scritta prima da solo poi  riscritta da Varun Grover (di Benares) e di nuovo modificata dopo un lungo soggiorno-inchiesta, ispirato dice il regista al metodo Haneke e Dardenne Bros,  intervistando gli intoccabili becchini del Gange e le it girls scatenate delle cittadine di provincia.


Nel frattempo, scossa dalla crisi di crescenza, il sistema Bollywood-Tollywood-Kollywood deve fare un salto di qualità o entrerà in crisi. La novità arriva dagli studi più grandi del mondo, secondo il Guinness dei primati, Ramoji Film City, proprietà del magnate della stampa Ramoji Rao, il William Hearst indiano, proprietario di una villa da nababbo con un giardino pieno di alberi e cespugli a forma di animali che sembrano opera di Edward Mani di forbici. Negli studi, che si estendono su più di ottocento ettari di terreno, a un'ora dalla quarta città più grande e popolata del paese, Hyderabad, capitale dello stato di Télangana dal 2013 al 2015 si sono girate le riprese  dell'iper kolossal in lingua telogu-tamil Baahubali, un fantasy dalle tinte anche sonore vivacissime, diretto dal quarantenne S.S.Ramajouli, ben 600 addetti agli effetti speciali, che, secondo gli analisti e anche secondo una bella inchiesta del mensile francese Sofilm dovrebbe aver cambiato la storia del cinema indiano. Il regista afferma di ispirarsi alla mitologia, al folklore (non solo indiano) e ai comics e il film è un adattamento di miti e leggende transculturali. Il budget, il più alto fin qui in India, 45 milioni di dollari. Insomma una sfida alla Hollywood dei blockbuster digitali e in 3d. Doppiato anche in malayalam e hindi è approdato nel mondo intero, Italia esclusa (siamo un po’ fredidni con lIndia in aquesti anni). Baahubali: The beginning ha incassato 90 milioni di dollari (di cui 8 negli Stati Uniti) ed  è il lavorazione il seguito, Baahubali: The Conclusion. Sarà per questo che, attoniti, i vicini cineasi hanno improvvisamente cambiato marcia e, abbandonato il cinema controverso d’autore (che è anche troppo sovversivo) si sono dedicati, invidiosi, e rischiando il polpettone storico mitologico noiosissimo, alla sola produzione di manufatti blockbuster per conquistare il mondo come ha fatto Baahubali?



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