di Roberto Silvestri
Un film indiano che ha vinto il premio Fipresci (assegnato dalla critica internazionale) e quello dell'Avvenire nella sezione Un Certain Regard del festival di Cannes del 2015 esce finalmente il primo giugno sui nostri schermi, un anno dopo la fortunata uscita in Francia.
Si intitola Tra la terra e il cielo (Masaan), titolo internazionale inglese Fly Away Solo, ed è l'esordio di Neeray Ghaywan. Siccome non si tratta del solito rimescolar le carte posmoderne giocando con gli stereotipi di Bollywood, come avviene nei film di Mira Nair e Peter Boyle, ma di un interessante esperimento controculturale, prepotente e egemonico, il film merita un discorso più lungo e una contestualizzazione più dettagliata. “Il film più acclamato dell’anno negli Stati Uniti” scrive il New York Times non può passare inosservato da noi.
L'India è vicina. Più di quanto noi non pensiamo. Non solo per le 5 caste, lì stabilite religiosamente, qui ereditate da un feudalesimo (più mafia e corruzione) millenario, più invisibile, ma non meno inossidabile (il 25% di super poveri è più o meno una identica percentuale). Poi per la goffagine speculare delle rispettive istituzioni giuridiche (caso Battisti/caso Marò, appunto). Perché le due società sono patriarcali e, maggioritariamente, conservatrici e diversamente misogine.
Da noi qualche speranza di cambiamento di classe, di salto in avanti, in vita, c'è ancora. Almeno a giudicare dai telequiz e dalle slot machine. Basta scimmiottare idee e valori della classe dominante. Ma in India è inutile fare i soldi, gli steccati aristocratici sono ferrei, la mobilità è morta. Anche chi, come i Sikh, rifiuta il sistema delle caste, si rinchiude nella propria comunità ma non rompe il giocattolo sacro. Non ci fosse la reincarnazione (come da noi il Paradiso dell'aldilà) a premiare con un salto di casta i più pii dopo la morte... Oppure il cinema, che premia sempre, in anticipo, i karma meritevoli.
I problemi bellici in Kashmir, poi, occupata militarmente da Bombay, con il Pakistan che appoggia la lotta armata indipendentista, nonostante un'antica risoluzione dell'Onu, hanno costretto da anni molte produzioni ambientate tra le montagne di Bollywood, Tollywood e Kollywood (ovvero i tre poli produttivi di Bombay, che realizza circa 250 film all'anno, mentre il polo del sud-est indiano, in lingua tamil e telogu, produce 600 film all'anno, e comprende gli stati Andhra Pradesh, Télangana, Kerala e Karnataka; e infine, ancora più a sud, il Chennai) a emigrare e cercare location altrove. Svizzera e Austria hanno mangiato in un solo boccone la concorrenza italiana, per la lentezza con la quale le film commission e i politici locali analfabeti di media si sono adeguati agli standard dell'Europa più nordica. Perfino Paolo Sorrentino ha preferito la Svizzero alla Valle d'Aosta, al Veneto e al sud Tirolo /Alto Adige...
Sarà bene occuparci di cinema indiano e seguire annualmente River to River a Firenze e altre manifestazioni simili. Perché anche il cinema indiano, così potente e gigantesco, ha qualcosa in comune con il nostro. E' difficilmente esportabile e ha un design grafico-narrativo incomunicabile (anche se poi quando Francesco Di Pace ha programmato in Rai film indiani il successo di pubblico è stato sorprendente).
Se fossimo stati più rispettosi delle
altre culture, per esempio
programmando un numero superiore di film indiani in tv, e non solo di Bollywood
(Anurag Kashyap, cavaliere delle arti e delle lettere in Francia nel
2013, è un nome proprio sconosciuto alla Rai? Mai sentito parlare di Ugly?
E del noir Psycho Raman, sul un
celebre serial killer degli anni 60 a Bombay, invitato a Cannes 69 dalla
Quinzaine) ne avrebbe beneficiato di molto il nostro pubblico, il nostro
prodotto cinematografico medio, la nostra bilancia dei pagamenti (e anche il
trattamento riservato ai nostri marò, più risentito del normale a causa di un
crescente disprezzo o disinteresse culturale per un resto del mondo, che si
conosce mediamente malissimo anche perché al tg non esiste, cancellato).
Possiamo sempre invertire la marcia. "Cambiare di passo", come dice
il presidente del consiglio. C'è un'occasione. Masaan.
Il
solito match tra modernità e tradizione che da mezzo secolo ossessiona il
cinema d’autore dell’est e dell’ovest si ambienta questa volta sulle rive del Gange, a Benares (Varanasi), nella
città sacra che più si protegge dagli assalti del nuovo. E intreccia, sullo
sfondo dei cadaveri bruciati, i destini di quattro personaggi, la vita, i sogni,
i turbamenti, la memoria, le provocazioni, la violenza, gli incubi e i progetti
di libertà e emancipazione del giovane Deepak, che che ama perdutamente una
ragazza che non appartiene alla sua casta; della studentessa Devi,
traumatizzata dopo dal suicidio del suo amante. E poi di Pathak, il padre di
lei, vittima della corruzione poliziesca e del piccolo ragazzo di strada Jhonta,
genio della sopravvivenza “senza rete”. L’intento è blasfemo, ma ci si muove
con cautela.
Anche perché la censura
indiana, non sarà proprio come quella dell’Ohio e della Pennsylvania all’inizio
del ‘900, ma è implacabile su sangue, parolacce, sesso (fermo o in movimento) e
politica, non permette che si sgualcisca l’ordine del discorso e la gerarchia
delle idee consentite...
Dunque il consiglio è non fidatevi delle apparenze e vedete cosa c’è di incandescenze e rabbioso sotto quell'aura
da film radical chic (a semi produzione francese) che serve a proteggere il
film dalle forze maligne, dagli spiriti reazionari. Il cinema non ha valore se
non mostra la società così com'è, come funziona veramente e quali contraddizioni
produce e come superarle. Ma il fuori campo e l’allusione obliqua, l'astuzia
della ricezione e il sottinteso ben congegnato dal regista fanno vedere in più cose
che la censura non vede e non sente.
Perfino un film porno, che la
protagonista femminile di Masaan,
Devi, guarda con tranquillità e goduria sul suo computer a inizio film. L'idea
disturbante (che fa volar via il turbante) è pensare a un lavoro di routine da
paria come bruciare cadaveri a ripetizione, considerare quei corpi come
fantocci inermi o robot tutti uguali (in realtà è proprio la stessa idea di
Laszlo Nemes in Il figlio di Saul) e
improvvisamente rompere la routine, far irrompere come shock emotivo il corpo
della persona amata "al di là della morte". Questa è stata l'immagine
"madre" di tutte le sequenze del film di Ghaywan.
Robusta è infatti l'impostazione e l'intenzionalità
documentaristica, sottolineata dalle
lunghe riprese a Benares, una delle
sette città sante induiste, la località "più vecchia della storia, più
vecchia della tradizione" (Mark Twain), nel nord-est del gigantesco paese.
Luogo di potenza spirituale immane, a lungo vi ha soggiornato Gianfranco Rosi
prima di girare il suo film d’esordio, Boatman.
Centro mistico e funereo (è
stata fondata dal dio che probabilmente è il preferito di Berlusconi, Shiva,
colui che impersona la distruzione e la ricostruzione del mondo e dei condomini),
meta di pellegrinaggio induista (l'80% della popolazione della più grande,
anche se castigata, democrazia al mondo), Veranasi (in lingua indù) è il posto
dove i vecchi vanno a morire e i vivi si purificano in attesa del salto di
casta con la cremazione. La città non è esente, nel frattempo, da laceranti,
ben visibili, ingiustizie sociali. Un fiume l'attraversa e sulle rive si
accendono i roghi funebri. 50, 60 corpi al giorno vengono cremati. Lo stato di
diritto ha non poche difficoltà ad esistere. Se non formalmente. Lo avranno
ereditato dal colonialismo inglese che ha distrutto nel profondo una società coesa
e organizzata che nel 1700 aveva un reddito pro capite superiore a quello dei sudditi
di sua Maestà britannica. La corruzione in India (come alla Fifa) oggi si può
combattere, ma non vincere. Per ora. La polizia colpisce i poveri e protegge i
ricchi. Anche perché gli eroi del film, una coppia etero, un bambino vispo e un
vecchio intellettuale impaurito, vivono sui bordi del fiume Gange nei posti
loro assegnati: in alto i potenti, prestigiosi e ricchi, Bramini, Khsatriya e
Valshyia; in basso, sui ghat (gli scalini che discendono sul fiume) gli
shudras, i servi, e gli intoccabili, i paria dei paria, i senza casta, coloro
che bruciano 30.000 corpi dei morti all'anno, e hanno il corpo tutto coperto di
nerofumo come all'inferno, come in miniera. Alcuni ghat sono proprietà privata secolare
delle famiglie blasonate, dei maraja che hanno costruito sontuosi edifici e templi sul Gange. Se una cremazione costa
600 dollari, 500 vanno al proprietario del ghat e solo 100 all'operaio che
materialmente la esegue.
La diva Richa Chadda e il padre, l'attore Sanya Mishra
Dunque via le canzoni e
banditi, per motivi religiosi, i balletti, che caratterizzano il format
standard dei bollywood-movies. Resta il melò, ma ha il sapore acre e avulso,
dei cadaveri bruciati.
Molti i roghi e i dettagli
macabri. Sono i becchini e i figli dei becchini e gli amici dei becchini i
protagonisti di queste tre storie intrecciate collegate solo dal fiume che le
rispecchia.
Vediamo cosa racconta il
film. Un piccolo orfano spiritato, Jhonta (Nikhil Sahni), nuotatore provetto,
intraprendente fino all'incoscienza, che cerca affetto e almeno un padrino,
sopravvive grazie al giro delle scommesse clandestine (si butta nel fiume e
afferra più rupie possibili, lanciate sul fondale dal banditore mentre i
maniaci dell'azzardo perdono tutti i loro soldi, come qui alle slot machine).
Un professore universitario in pensione, Vidyadat Pathak (Sanya Mishra) è
costretto dalla crisi a far traduzioni sottopagate, a scommettere sui bambini
sub e a trasformarsi in bottegaio di cianfrusaglie per mantere la figlia Devi
(Richa Chadda, l'ex modella lanciata in Gangs
of Wasseypur 1 e 2), appena laureata, e molestata e concupita ovunque vada
a lavorare, perfino alle ferrovie pubbliche. Inoltre si svena perché lei è
sotto pesante ricatto poliziesco.
Scoperta in un hotel a far
l'amore con il compagno di studi, fotografata discinta e minacciata di arresto
per oltraggio al pudore (sic! neanche negli alberghi puritano-sabaudi succedono
cose di questo tipo) è turbata e angosciata dai sensi di colpa perché il suo
amante si è suicidato nel corso dell'incursione poliziesca, per non finire in
carcere. Il padre di Devi è terrorizzato che la notizia trapeli, rovinandole
per sempre la reputazione (altro sic!). E ne approfitta il perfido losco e
disonesto ispettore della polizia Mishra.
Infine il romantico futuro
ingegnere Deepak Chaudhary (Vicky Kaushal), figlio di becchini, che si è
innamorato di Shaalu (Shweta Tripaty), una ragazza di casta superiore che lo
ricambia e che ha deciso di fuggire comunque con lui, i genitori lo accettino o
no, ma che non potrà avere mai....
Le due tristi storie d'amore
di Benares, scavalcano il dramma (il
duro contesto politico) e il melodramma (l'impossibile happy end che scatena le
lacrime) perché comunque urlano un formidabile sì alla vita proprio in un luogo
che ha un permanente contatto con la morte. Questo è il cuore ritmico del film,
un grande sì alla vita fin dentro la morte, come avrebbe definito l’erotismo
George Bataille. La tragica condizione della donna viene declinata attraverso
l'evoluzione di questi amori impossibili (per veti di casta o di castità
obbligatoria). Le due ragazze hanno personalità forti, però, sono
intellettuali, raffinate, intuitive, passionali, esperte di poesia e
informatica, donne moderne, ma non adeguatamente fiancheggiate dalle
istituzioni, che arrancano dietro, senza raggiungerle.
Sappiamo che questa insorgenza femminile in India come
altrove sta provocando una reazione di debolezza patetica negli uomini più deboli e insicuri, che reagiscono con buffi
travestimenti (le barbone virili alla Moscardelli, il mitra fallico, le bandiera
nero-nazi) e terrificanti atti di violenza vigliacca e di stupro squadrista. Ma
la distruzione delle due coppie (è lei che muore questa volta, in un incidente
di pullman, e il suo anello verrà trovato dal disperato Deepak tra le ceneri di
un rogo sul Gange) forse feconderà qualcos'altro.
Sono dieci anni che si parla di nouvelle vague indiana. Sarà la volta buona? In realtà ogni grande industria
in crisi produce una generazione di iconoclasti costruttivi (come le new waves
anni 60) che rivoluzionano tutto e aspirano a prendere il controllo della
macchina e... poi non ci riescono mai. In Francia come in Brasile, in Polonia
come in Inghilterra. Appena il restyling è completato ecco che arrivano le
superproduzioni fresche a ricominciare da capo.
Richa Chadda
Il regista Neeraj Ghaywan
viene dall' università critica dei blogger. Ha scritto su Bela Tarr, i
Dardenne, Kieslowski, Pialat che, lui dice, sono i suoi modelli. Presa la laurea
in economia e commercio aveva trovato un lavoro molto ben pagato e orrendo. Per
fortuna Anurag Kashyap lo ha spinto violentemente alla regia (assumendolo nella
sua troupe e dandogli da girare il making off di Gangs of Wasseypur), lo ha costretto a dimettersi dall'ufficio, a
rompere con la famiglia e con la promessa sposa che Neeraj non amava, ma gli
era stata imposta dalle solite rigide convenzioni sociali e religiose. C'è
dell'autobiografia dunque in questa opera prima a basso costo scritta prima da solo
poi riscritta da Varun Grover (di
Benares) e di nuovo modificata dopo un lungo soggiorno-inchiesta, ispirato dice
il regista al metodo Haneke e Dardenne Bros,
intervistando gli intoccabili becchini del Gange e le it girls scatenate
delle cittadine di provincia.
Nel frattempo, scossa dalla
crisi di crescenza, il sistema Bollywood-Tollywood-Kollywood deve fare un salto
di qualità o entrerà in crisi. La novità arriva dagli studi più grandi del
mondo, secondo il Guinness dei primati, Ramoji Film City, proprietà del magnate
della stampa Ramoji Rao, il William Hearst indiano, proprietario di una villa
da nababbo con un giardino pieno di alberi e cespugli a forma di animali che
sembrano opera di Edward Mani di forbici. Negli studi, che si estendono su più di
ottocento ettari di terreno, a un'ora dalla quarta città più grande e popolata
del paese, Hyderabad, capitale dello stato di Télangana dal 2013 al 2015 si
sono girate le riprese dell'iper
kolossal in lingua telogu-tamil Baahubali,
un fantasy dalle tinte anche sonore vivacissime, diretto dal quarantenne
S.S.Ramajouli, ben 600 addetti agli effetti speciali, che, secondo gli analisti
e anche secondo una bella inchiesta del mensile francese Sofilm dovrebbe aver
cambiato la storia del cinema indiano. Il regista afferma di ispirarsi alla mitologia,
al folklore (non solo indiano) e ai comics e il film è un adattamento di miti e
leggende transculturali. Il budget, il più alto fin qui in India, 45 milioni di
dollari. Insomma una sfida alla Hollywood dei blockbuster digitali e in 3d. Doppiato
anche in malayalam e hindi è approdato nel mondo intero, Italia esclusa (siamo
un po’ fredidni con lIndia in aquesti anni). Baahubali: The beginning ha incassato 90 milioni di dollari (di cui
8 negli Stati Uniti) ed è il lavorazione
il seguito, Baahubali: The Conclusion. Sarà
per questo che, attoniti, i vicini cineasi hanno improvvisamente cambiato marcia e, abbandonato il cinema
controverso d’autore (che è anche troppo sovversivo) si sono dedicati,
invidiosi, e rischiando il polpettone storico mitologico noiosissimo, alla sola
produzione di manufatti blockbuster per conquistare il mondo come ha fatto Baahubali?
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