Roberto Silvestri
Come al solito gli ultimi
giorni del festival di Cannes, che è l’anti-festa del cinema, perché è per soli
invitati, sono sempre riservati ai “pezzi da Novanta”, ai film migliori.
Così si deve resistere fino
alla fine sulla Croisette, anche dopo un’edizione di medio interesse come
questa, per la gioia di chi fa pagare 6 euro e 50 un cappuccino e un croissant,
alle 8 di mattina quando si entra, come a scuola, nei cinema, ovviamente “militarizzati”.
Ma l’oggetto d’affezione
super non è solo Femme di Paul
Verhoeven che ha chiuso alla grande il concorso maggiore (con Isabelle Huppert
all’altezza di I cancelli del cielo).
Infatti chiusura super anche della
Quinzaine, una sezione “autonoma” (aperta al pubblico) che non è stata però all’altezza
dei sua fama - di solito è molto più “anarchica” e libera nelle scelte - e che ha
premiato alla fine solo cineasti francesi (una afghana a parte, la Sadat,
che però è d’allevamento cannoise), cosa
inelegante visto che la sezione, sessantottina di nascita, è finanziata dal
sindacato dei cineasti francesi. Si scelgono e si premiano…. Sono finiti qui
molti film da competizione ufficiale come le apprezzate opere di cineasti
illustri, Larrain, Jodorowski, Bellocchio, Anuragh Kashyap o Laura Poitras (che
prosegue la sua indagine su Julian Assange). Ma i premi sono andati a Divines della franco-marocchina Houde
Benyamina e, in memoria, alla franco-islandese Solveig Anspach, L’effet acquatique.
Comunque serata finale
magnifica, anche grazie alla presenza sul palco di una lavoratrice
intermittente pungente e sintetica che fa comprendere, anche alle poltrone, ai
muri e a chi ne imita l’aplomb, la gravità della legge sul lavoro che sta
passando in Francia, per colpa dei socialisti (l’alternanza è fare leggi orribili, un po’ a destra e un po’ a
sinistra, proprio come in Italia).
Il suo intervento, “corto”,
vale più di decine di film “lunghi” visti in questi giorni, almeno in fatto di
motion ed emotion.
Guerra pura contro
tutto il cinema circostante hollywoodiano, cristallizzata in immagini e
dialoghi imprevedibili anche nel bellissimo film di chiusura, Dog eat dog, diretto da un cineasta
complesso e contorto, qui particolarmente pop nel fraseggio, che è anche un critico
americano teoricamente agguerrito, della generazione di Marco Bellocchio (che
invece ha inaugurato la Quinzaine, un po’ contrariato per una delocalizzazione
arrivata all’ultimo momento). A metà tra racconto morale di Sam Fuller e
critica dell’immoralità di Tarantino, tra comicità sarcastica di John Landis e
ferocia satirica (e sempre al di là del buon gusto e della rispettabilità
artistica) di John Waters Cane mangia
cane si addentra nei territori dell’action movie più estremo e spregiudicato
e anche in quelli della postmodernità critica, quella che si batte ancora per i
fatti e la verità contro il sofisma dell’interpretazione più chic e vendibile.
Lo abbiamo trovato
particolarmente fuori schema, questo b-movie d’arte, anche perché l’intera fila
dei registi francesi premiati e molti cineasti ospiti quest’anno della sezione,
come l’animatore russo Garri Bardine (e moglie), classe 1941, autore del corto L’acuto di Beethoven, hanno preferito
scappare dalla sala, darsela a gambe dopo poche sequenze, iperviolente e
“insostenibili”. Il fratello di Paul
Schrader (morto molto giovane), Leonard, studioso di cultura giapponese e con
lui cultore di Mishima, aveva realizzato negli anni 70-80 Killing in America, un documentario
pionieristico che raccontava la storia di troppi serial killer, giovani o
anziani, donne o uomini, che riempivano la cronaca nera delle province
statunitensi, facendo emergere le viscere di un paese incancrenito nei suoi
tessuti profondi, ma che non si voleva analizzare né isolare, né curare, se non
a base di sedia elettrica. Mi ricorda molto questo film, aperto da una
discussione tv, che potrebbe essere quella tra Hillary e Trump, sulle armi da
fuoco.
Dog eat dog tratta proprio di carceri, di privazione della libertà,
che non vuol dire privazione della dignità, della sessualità, del diritto
all’istruzione e al lavoro. Il carcere dovrebbe reinserire nella società, e non
scodellare uomini deumanizzati e pronti ad aggredire la società con ferocia
sempre maggiore. E’ quel che succede qui. A un mafioso messicano serve un
favore, rapire un bebé per farsi restituire dal padre una grossa cifra. Tre
debsciati ex detenuti, Troy, Mad Dog e Diesel, accettano il contratto….Il loro
problema è di non tornare mai più in prigione (perché come si sa dopo tre
volte….). Ma il loro problema numero due è di farsi un bel gruzzolo subito per
non delinquere mai più e soprattutto per non lavorare mai più, perché “se no
che vivere sarebbe mai questo?”. Attanagliati da queste alternative, non facili
da gestire, i loro difetti caratteriali (insicurezza emotiva, stolidità, fobie
per i logorroici) li porteranno alla rovina.
Non è stato messo in gara, Dog eat dog, probabilmente per colpa delle dichiarazioni
del presidente della giuria George Miller che considera l’apice del lavoro
artistico, nel cinema, saper rigenerare e rinnovare gli elementi costruttivi di
un film di genere, a ampia comunicativa (e che dunque su Verhoeven dovrebbe
indirizzarsi, o sulla commedia tedesca, per la Palma).
E in questo caso si è
intervenuti, con sostanza conoscitiva spessa e impeto etico per nulla post
moderno, dentro il “buddies movie”, il film d’azione sull’amicizia virile (in
questo caso è una amicizia piuttosto particolare) di cui Hollywood possiede un
brevetto molto protetto. Ebbene, niente film da Studio, qui. Libertà più totale
per tutti, musicista, costumista, capo scenografo, capo operatore. La
generazione post-regole le leggi le conosce tutte. Dunque per lei è più facile
scavalcarle. Fare il film che si vuole
fare è quasi una eresia oggi a Hollywood. Niente proibizioni. L’unico
divieto è di non divertirsi.
Paul Schrader lo ha diretto e anche interpretato, nel ruolo di El Greco, un capo gang (e per farlo
ha chiesto aiuto a Tarantino e Scorsese, Nick Nolte e Chris Walken, Jeff
Goldblum e Michael Douglas….), da un copione di Matthew Wilder, assieme a
un cast perfetto, perché resta a proprio agio quando si sconfina dal realismo
al grottesco, e poi si torna indietro, per rendere più chiara e aggressiva la
polemica politica. Si prende particolarmente in giro la nota affermazione della
destra, neanche estrema, e neanche solo Usa, convinta che una generale
distribuzione di armi, anche ai bambini, fermerebbe la violenza. “Se fossimo
stati armati al Bataclan…” ha affermato un componente della band rock che
doveva suonare quella sera nel locale aggredito dai nazi-islamisti (e a causa
di queste dichiarazioni la Francia ha proibito due concerti del gruppo questa
estate). Non è affatto questa la soluzione e questo film ne è la dimostrazione
scientifica. E’ Cleveland, città industriale dissolta dalla
deterritorializzazione, il set prescelto (ma soprattutto per il credito di
imposta), ma se fosse Baltimora saremmo proprio nelle atmosfere trash di John Waters. Nicolas Cage (Troy) così si è permesso di
inventare alcune variazioni sulla sua presunta somiglianza con Bogart che non
erano nel copione, Willem Dafoe (Mad Dog) non è mai stato così truce dai tempi
di Walter Hill e un superbo gigante pelato molto fragile nella psiche, Christopher
Matthew Cook nella parte di Diesel, poteva condurre la trama del film dove
voleva. Così rifanno Blue Collar,
solo che invece di operai molto incazzati con il sindacato fino al punto da
svuotasne le casse, i nostri eroi sono criminali assassini, che usano prima il
grilletto e poi il cervello, disperati e
coatti, peggiorati dal carcere, che tornano nella civiltà senza saperla più
gestire. Non sapevano niente di Facebook, di come funzionano i cellulari….
figuriamoci. Tratto dal libro di Ed Bunker sappiamo che ogni parola, ogni riga
di dialogo, ogni considerazione esistenziale sono esatte al 100%. Bunker è
uscito dalla galera pesante. Sa di che si parla.
Paul Schrader qui a Cannes è
venuto in concorso ben quattro volte.
Una assieme a Patricia Hearst. E cenava con lei alla Mere Besson, un ristorante
decente, che infatti adesso è chiuso nella zona di Cannes che è più torturata
dalla gentrificazione. “Ma forse chi adesso guida il festival – si è chiesto
perplesso lo sceneggiatore di Taxi driver
e il regista di Cat people e Hardcore e Blue Collar - non deve avermi mai sentito nominare”.
Nessun commento:
Posta un commento