Roberto Silvestri
Per far star buoni i ragazzini di un orfanotrofio non basta disporre di un proiettore e fargli rappresentare in playback un vecchio film degli anni 60, parlandoci sopra come al cine-karaoke. Il bimbo e la bimba, con la voce degli amanti adulti, sconcertano. Sconcertava anche Humbert Humbert in Lolita, che, da grande, disseppelliva, da dentro di sé, pulsioni infantili erotiche ormai colpevoli.
Esther Garrel, la sorella di Louis, nel ruolo di una istitutrice di oggi, decide allora di sorprenderli, spaventarli, affascinarli, rapirli. A me gli occhi please, come quando si va in estasi mentre volteggiano i trapezisti al circo o i Kiss ti aggrediscono con furia heavy metal o ci raccontano le fiabe più inquietanti e proibite, prima di dormire.
Con le marionette, con i burattini, con le ombre cinesi e in questo caso con le ombre elettriche del cinema analogico (metà film è girato in 35mm) e con le immagini digitali (usate negli esterni in alta definizione).
Esther diventa l'occhio speculare della regista Valérie Donzelli, nascosta dietro la cinepresa. E racconta addirittura la fiaba di un amore incestuoso finito tragicamente. Vi immaginate la faccia delle associazioni per la tutela della famiglia?
Si sente che c'è dietro questa messa in scena una intera
band creativa in trance: luci, costumi, scene e Charlotte Gastaut, consigliere
artistico del film, trasformano un fatto di cronaca in leggenda intemporale, né
reale né irreale ... Nel film l'incesto non si esalta e non si colpevolizza. E'
il sentimento assoluto a conquistare il primo piano, come se la riproduzione
analogica e digitale di una forza interiore indistruttibile lo rendesse puro
movimento in eterna metamorfosi. Il corpo può non esserci più, e c'è solo
l'ombra, "la mummia" di un corpo sullo schermo, eppure qualche cosa
vive lì dentro e gli sopravvive.
Il cinema riprende questo moto invisibile. Ed è un po' il
senso spiegato dal verso di Walt Whitman che la cineasta aggiungerà nel finale:
"Noi torneremo, siamo corteccia, siamo roccia" siamo fiume, siamo
pesci. Una capriola nell'evoluzionismo. Oplà e si torna indietro.
Intanto parte un conturbante e sensuale romance, non proprio
abituale - da qui la reazione contrariata, a Cannes, del pubblico più
conservatore - tratta da un cruento accadimento normanno dei primi anni del
XVII secolo, eroticamente e sentimentalmente così estremo da trasformarsi in
una tremenda tragedia nera.
Quando parliamo di conservatori non intendiamo reazionari,
bigotti, moralisti o contrari ai matrimoni gay, o scandalizzati più che
dall'incesto dall' adulterio (che sarà poi il motivo della condanna della
coppia di innamorati, perché solo il secondo colpisce al cuore la sacra proprietà
dell'uomo sulla donna). Intendo i conservatori al cinema. Quelli turbati perché
in questa storia d'amore i due protagonisti, sorella attiva e fratello un po'
meno attivo, quasi non si parlano. E la sceneggiatura è scritta proprio da una
coppia di innamorati, Valérie Donzelli e il protagonista, Jérémie Elkaim (e
riscritta dalla montatrice Pauline Gaillard non senza momenti di scratch e
bruschi salti della scocca). O perché si passa dal technicolor popolare a
schermo immenso ("ruffiano" come giustamente ha notato Daria Pomponio
su Quinlan) alle tonalità intime e dark, dalle sciabolate rock che irridono la
recezione realista (la musica è di Yuksek), all'esperienza sensoriale
dell'epidermide da far quasi sfiorare. Insomma il film ci imbarazza perché
sembra che si sfogli un libro per bambini con immagini poco adatte ai bambini e
che quelle immagini si animano anche troppo. L'amore impossibile è il nucleo
del melodramma, ma l'amor fou, come malattia, come fatalità, come arma di
distruzione di massa, come messa in discussione inattuale, fuori sincrono, dei
pilastri basilari dell'ordine sociale, è una vera tragedia.
Quando si racconta a dei bambini un fatto di cronaca così
crudo bisogna per tenere alta l'attenzione falsificare qualcosa, deformare un
po', rendere il tutto più appassionante. E questa storia è raccontata sia da
Esther Garrel che da Valérie Donzelli tenendo ben in mente una frase di Jean
Cocteau: "la storia è il vero deformato, la fiaba è il falso
incarnato". Il tentativo riuscito di Donzelli è incarnare la leggenda.
Trattare le immagini come se fossero tattili, in odorama, in 3d senza
occhialetti, come se fossero di fantascienza. In fondo il passato si conosce
poco, quasi esattamente come il futuro...Potremmo dire che sì, siamo immersi
nel cinema di papà. Solo che i papà sono questa volta Eustache e Truffaut,
Rohmer e Rivette.
1603. Marguerite e Julien de Ravalet, sorella e fratello di
una ricca famiglia aristocratica, si amano teneramente fin da piccoli. Non
possono fare a meno l'una dell'altro, non possono stare lontani, come narciso
dal suo specchio d'acqua. Ci provano, ma l'amore che li unisce, e che si fa
crescente passione divorante, è più forte di loro. Julen viene mandato a
studiare all'estero, Londra, Roma... ma
quando torna, sebbene cerchi di resistere, cede. Sotto pressione dello zio
abate, piuttosto turbato dallo scandaloso comportamento, il padre obbligherà
con la forza la figlia a sposare Lefevre (Raoul Fernandez), un agiato borghese
violento che vive con la madre (Geraldine Chaplin), ma lei non gli si concederà
mai. Marguerite decide così di fuggire a cavallo con Julien, aiutati dal
fratello e dalla governante, inseguiti
da una polizia, fanatica come mujeddin a caccia di atei. Saranno
processati, condannati e decapitati. A Marguerite, morta di dolore sul cadavere
di Julien, verrà tagliata la testa da un corpo ormai inerte. Su Wikipedia i
particolari della triste storia di questi "Romeo e Giulietta" vittime
della propria classe, del proprio ceto, della propria comunità, del proprio
stesso sangue.
Anche se il castello dove l'incandescente odissea ha luogo è
proprio quella vero, è a Tourlaville, il film non vuole puntare alla
ricostruzione storica filologicamente fedele, non è in costume, o meglio i
vestiti di Elizabeth Méhu e le scene di Manu de Chauvigny, non indicano
Seicento, ma spaziano tra l'ottocento romantico e il sinistro novecento delle
divise militari. Senza dimenticare gli elicotteri che volteggiano anacronistici, a suggerirci altre prepotenze
e soprusi di oggi e le retoriche psicotiche del comunitarismo, dell'appartenenza,
delle "nostre radici".
Una fiaba deve essere crudele. Avete presente Biancaneve?
Serve per "uccidere", per superare metaforicamente i genitori. Per
crescere. E questa fiaba, non pensata per i bambini, serve per far crescere
adulti che ancora hanno bisogno di "uccidere" alcuni principi
inscalfibili che li paralizzano, liberando i loro set mentali ed emozionali.
Perché crescano. Nel mondo ci sono paesi nei quali l'amore omosessuale è
proibito e sanzionato perfino con la pena di morte. Nel mondo ci sono nazioni
che condannano a morte le adultere, come Marguerite. Ecco perché una cineasta
donna, che finora ha raccontato la sua vita in opere anche ispirate a testi
teatrali, come La reine des Pommes, La guerre est déclarée, Main dans la Main e
Que d'amour, estremizzi ancora di più il Marivaux di Le Jeu de l'amour e de
l'hazard (adattato in Que l'amour): toglie i dialoghi per rendere ancor più
"colpo di fulmine" inspiegabile con la ragione quell'illuministico
esperimento di Arlecchino e Lisette. Perché non si sceglie per amore, ma si è scelti
dall'amore che travolge come per fatalità. Se c'è forse un film che dovrebbe
essere visto in preparazione di questo è certamente Foudre di Manuela Morgaine
e in particlare la quarta parte, tratta dallo stesso lavoro di Marivaux. Marguerite
& Julien potrebbe essere infine un'appendice al film sui mostri barocchi di
Matteo Garrone, un grand finale, il quarto "racconto dei racconti"
d'epoca Basile, se non fosse che qui la donna non accetta affatto il suo ruolo
di madre a tutti i costi o di sposa a tutti i costi, non brama la bellezza
eterna come Fedora, non aspira a sposare il proprio assassino e non lascia
morire tranquillamente i saltimbanchi che le hanno salvato la vita. Ma sbriciola
tre tabù sacri e inviolabili. L'incesto, l'adulterio e la subalternità della
donna. Roba da essere messa al rogo. Decapitata, per furia, anche se già morta.
Il film, che in un primo momento era pensato come un
musical, è tratto da una sceneggiatura scritta nel 1973 (l'anno di nascita di
Valérie Donzelli) da Jean Gruault che Francois Truffaut non riuscì mai a
realizzare (a differenza delle altre collaborazioni con Gruault, Jules et Jim,
Il ragazzo selvaggio, Adele H. e La camera verde) anche perché era appena uscito Soffio al
cuore di Louis Malle, argomento l'adulterio, anche se tra mamma e figlio e non
tra fratello e sorella.
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