giovedì 26 maggio 2016

Il film sull'incesto e l'adulterio che Truffaut voleva tanto girare. Marguerite e Julien. Di Valerie Donzelli. Da Cannes 2015. Consigliato anche dai Cahier du Cinema....




Roberto Silvestri 


Per far star buoni i ragazzini di un orfanotrofio non basta disporre di un proiettore e fargli rappresentare in playback un vecchio film degli anni 60, parlandoci sopra come al cine-karaoke. Il bimbo e la bimba, con la voce degli amanti adulti, sconcertano. Sconcertava anche Humbert Humbert in Lolita, che, da grande, disseppelliva, da dentro di sé, pulsioni infantili erotiche ormai colpevoli.
Esther Garrel, la sorella di Louis, nel ruolo di una istitutrice di oggi, decide allora di sorprenderli, spaventarli, affascinarli, rapirli. A me gli occhi please, come quando si va in estasi mentre volteggiano i trapezisti al circo o i Kiss ti aggrediscono con furia heavy metal o ci raccontano le fiabe più inquietanti e proibite, prima di dormire.
Con le marionette, con i burattini, con le ombre cinesi e in questo caso con le ombre elettriche del cinema analogico (metà film è girato in 35mm) e con le immagini digitali (usate negli esterni in alta definizione).
Esther diventa l'occhio speculare della regista Valérie Donzelli, nascosta dietro la cinepresa. E racconta addirittura la fiaba di un amore incestuoso finito tragicamente. Vi immaginate la faccia delle associazioni per la tutela della famiglia?
Si sente che c'è dietro questa messa in scena una intera band creativa in trance: luci, costumi, scene e Charlotte Gastaut, consigliere artistico del film, trasformano un fatto di cronaca in leggenda intemporale, né reale né irreale ... Nel film l'incesto non si esalta e non si colpevolizza. E' il sentimento assoluto a conquistare il primo piano, come se la riproduzione analogica e digitale di una forza interiore indistruttibile lo rendesse puro movimento in eterna metamorfosi. Il corpo può non esserci più, e c'è solo l'ombra, "la mummia" di un corpo sullo schermo, eppure qualche cosa vive lì dentro e gli sopravvive.
Il cinema riprende questo moto invisibile. Ed è un po' il senso spiegato dal verso di Walt Whitman che la cineasta aggiungerà nel finale: "Noi torneremo, siamo corteccia, siamo roccia" siamo fiume, siamo pesci. Una capriola nell'evoluzionismo. Oplà e si torna indietro.

Intanto parte un conturbante e sensuale romance, non proprio abituale - da qui la reazione contrariata, a Cannes, del pubblico più conservatore - tratta da un cruento accadimento normanno dei primi anni del XVII secolo, eroticamente e sentimentalmente così estremo da trasformarsi in una tremenda tragedia nera.

Quando parliamo di conservatori non intendiamo reazionari, bigotti, moralisti o contrari ai matrimoni gay, o scandalizzati più che dall'incesto dall' adulterio (che sarà poi il motivo della condanna della coppia di innamorati, perché solo il secondo colpisce al cuore la sacra proprietà dell'uomo sulla donna). Intendo i conservatori al cinema. Quelli turbati perché in questa storia d'amore i due protagonisti, sorella attiva e fratello un po' meno attivo, quasi non si parlano. E la sceneggiatura è scritta proprio da una coppia di innamorati, Valérie Donzelli e il protagonista, Jérémie Elkaim (e riscritta dalla montatrice Pauline Gaillard non senza momenti di scratch e bruschi salti della scocca). O perché si passa dal technicolor popolare a schermo immenso ("ruffiano" come giustamente ha notato Daria Pomponio su Quinlan) alle tonalità intime e dark, dalle sciabolate rock che irridono la recezione realista (la musica è di Yuksek), all'esperienza sensoriale dell'epidermide da far quasi sfiorare. Insomma il film ci imbarazza perché sembra che si sfogli un libro per bambini con immagini poco adatte ai bambini e che quelle immagini si animano anche troppo. L'amore impossibile è il nucleo del melodramma, ma l'amor fou, come malattia, come fatalità, come arma di distruzione di massa, come messa in discussione inattuale, fuori sincrono, dei pilastri basilari dell'ordine sociale, è una vera tragedia.

Quando si racconta a dei bambini un fatto di cronaca così crudo bisogna per tenere alta l'attenzione falsificare qualcosa, deformare un po', rendere il tutto più appassionante. E questa storia è raccontata sia da Esther Garrel che da Valérie Donzelli tenendo ben in mente una frase di Jean Cocteau: "la storia è il vero deformato, la fiaba è il falso incarnato". Il tentativo riuscito di Donzelli è incarnare la leggenda. Trattare le immagini come se fossero tattili, in odorama, in 3d senza occhialetti, come se fossero di fantascienza. In fondo il passato si conosce poco, quasi esattamente come il futuro...Potremmo dire che sì, siamo immersi nel cinema di papà. Solo che i papà sono questa volta Eustache e Truffaut, Rohmer e Rivette. 

1603. Marguerite e Julien de Ravalet, sorella e fratello di una ricca famiglia aristocratica, si amano teneramente fin da piccoli. Non possono fare a meno l'una dell'altro, non possono stare lontani, come narciso dal suo specchio d'acqua. Ci provano, ma l'amore che li unisce, e che si fa crescente passione divorante, è più forte di loro. Julen viene mandato a studiare all'estero,  Londra, Roma... ma quando torna, sebbene cerchi di resistere, cede. Sotto pressione dello zio abate, piuttosto turbato dallo scandaloso comportamento, il padre obbligherà con la forza la figlia a sposare Lefevre (Raoul Fernandez), un agiato borghese violento che vive con la madre (Geraldine Chaplin), ma lei non gli si concederà mai. Marguerite decide così di fuggire a cavallo con Julien, aiutati dal fratello e dalla governante, inseguiti  da una polizia, fanatica come mujeddin a caccia di atei. Saranno processati, condannati e decapitati. A Marguerite, morta di dolore sul cadavere di Julien, verrà tagliata la testa da un corpo ormai inerte. Su Wikipedia i particolari della triste storia di questi "Romeo e Giulietta" vittime della propria classe, del proprio ceto, della propria comunità, del proprio stesso sangue.


Anche se il castello dove l'incandescente odissea ha luogo è proprio quella vero, è a Tourlaville, il film non vuole puntare alla ricostruzione storica filologicamente fedele, non è in costume, o meglio i vestiti di Elizabeth Méhu e le scene di Manu de Chauvigny, non indicano Seicento, ma spaziano tra l'ottocento romantico e il sinistro novecento delle divise militari. Senza dimenticare gli elicotteri che volteggiano  anacronistici, a suggerirci altre prepotenze e soprusi di oggi e le retoriche psicotiche del comunitarismo, dell'appartenenza, delle "nostre radici".

Una fiaba deve essere crudele. Avete presente Biancaneve? Serve per "uccidere", per superare metaforicamente i genitori. Per crescere. E questa fiaba, non pensata per i bambini, serve per far crescere adulti che ancora hanno bisogno di "uccidere" alcuni principi inscalfibili che li paralizzano, liberando i loro set mentali ed emozionali. Perché crescano. Nel mondo ci sono paesi nei quali l'amore omosessuale è proibito e sanzionato perfino con la pena di morte. Nel mondo ci sono nazioni che condannano a morte le adultere, come Marguerite. Ecco perché una cineasta donna, che finora ha raccontato la sua vita in opere anche ispirate a testi teatrali, come La reine des Pommes, La guerre est déclarée, Main dans la Main e Que d'amour, estremizzi ancora di più il Marivaux di Le Jeu de l'amour e de l'hazard (adattato in Que l'amour): toglie i dialoghi per rendere ancor più "colpo di fulmine" inspiegabile con la ragione quell'illuministico esperimento di Arlecchino e Lisette. Perché non si sceglie per amore, ma si è scelti dall'amore che travolge come per fatalità. Se c'è forse un film che dovrebbe essere visto in preparazione di questo è certamente Foudre di Manuela Morgaine e in particlare la quarta parte, tratta dallo stesso lavoro di Marivaux. Marguerite & Julien potrebbe essere infine un'appendice al film sui mostri barocchi di Matteo Garrone, un grand finale, il quarto "racconto dei racconti" d'epoca Basile, se non fosse che qui la donna non accetta affatto il suo ruolo di madre a tutti i costi o di sposa a tutti i costi, non brama la bellezza eterna come Fedora, non aspira a sposare il proprio assassino e non lascia morire tranquillamente i saltimbanchi che le hanno salvato la vita. Ma sbriciola tre tabù sacri e inviolabili. L'incesto, l'adulterio e la subalternità della donna. Roba da essere messa al rogo. Decapitata, per furia, anche se già morta.


Il film, che in un primo momento era pensato come un musical, è tratto da una sceneggiatura scritta nel 1973 (l'anno di nascita di Valérie Donzelli) da Jean Gruault che Francois Truffaut non riuscì mai a realizzare (a differenza delle altre collaborazioni con Gruault, Jules et Jim, Il ragazzo selvaggio, Adele H. e La camera verde)  anche perché era appena uscito Soffio al cuore di Louis Malle, argomento l'adulterio, anche se tra mamma e figlio e non tra fratello e sorella.

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