di Roberto Silvestri
Sieranevada
di Cristi Puiu (Romania) e Rester Vertical di Alain Guiraudie
(Francia) aprono il concorso di
Cannes 69
Pithecanthropus
erectus è il
titolo di un famoso album anni cinquanta di Charlie Mingus che
rendeva omaggio al nostro antenato di Giava, non proprio wasp, capace
però di
camminare su due piedi. Avesse avuto anche una cinepresa in mano
l’avrebbe probabilmente utilizzata “ad altezza d’uomo”, tanto
per marcare qualche differenza di sguardo con gli
altri primati, non
umani.
I
due film che hanno aperto brillantemente la competizione di
Cannes 69, uno rumeno e
l’altro francese, che si intitola non a caso Rester
Vertical, sono
caratterizzati proprio dalla collocazione “umanista”, in
senso fisico, della
cinepresa (o della
telecamera), anche se
la prima - fissata come è al soffitto di un appartamento nel centro
storico di Bucarest come se fosse il periscopio di un sommergibile,
che da
lì controlla tutte le stanze dell’appartamento e assiste alla
chiusura e apertura delle porte, facendo non poca ironia sulla
sophisticated comedy hollywoodiana - è molto meno nevrotica della
seconda, sperduta
tra le montagne, i fiumi, le pecore e i fulmini improvvisi e maligni della Lozére (zona
d’alta Provenza).
Entrambi
i film usano
la macchina da presa come arma deterrente per tenere a distanza i
comportamenti semi
umani, meno umani, postumani
o le manifestazioni ferine che si moltiplicano attorno a noi. E anche
dalla risposta che danno alla domanda: “come fa l’uomo, oggi, ad
adattarsi ai cambiamenti vorticosi del mondo circostante?” Ci vuole
creatività, rispondono.
Creatività non è roba
metafisica, slancio extravitale. Ma. Dominio
delle regole. Per
saperle scavalcare,
superare. Capacità
di eseguire mosse
sorprendenti, se il gioco è già noto, oppure di
ideare giochi del tutto
nuovi. Come l’eutanasia lussuriosa (si
assisterà a una inedita dimostrazione di “suicidio sodomizzato”
proprio nel film di Guiraudie, e una parte del pubblico non gradisce
questo gioco nuovo). E
poi. Il rifiuto della
“professionalità”. Allevare un bebé, da maschio squattrinato.
Vivere nella
miseria, come san Francesco….Questa è la competenza professionale
che si richiede ai nomadi, maschi, femmine o altro, della
contemporaneità, provvisti o sprovvisti di permesso di soggiorno.
Che vivano nella metropoli, come
nel film rumeno, o in
mezzo a pericolosissimi lupi, come
nel film francese. Che
abbiano o meno una sessualità fluida. Vi assicuriamo che entrambi
questi viaggi vi porteranno lontano dai vostri set mentali. Dunque
l’avventura estetica è assicurata.
Non
è a Cannes 69 invece l’atteso Nocturama
di Bertrand Bonello, in gara a San Sebastian nel prossimo settembre.
Perché? Per colpa del soggetto, indigesto, secondo il direttore
artistico Thierry Frémaux. Racconta infatti le gesta di un gruppo
insurrezionalista che organizza di questi tempi attentati
terroristici a Parigi. Con l’aria che tira sulla Croisette (martedì
17 maggio
sono annunciate
manifestazioni in tutta
la Francia contro la legge sul lavoro El Khomri) sarebbe peggio che
proiettare sull’aereo un catastrofico ambientato in un Boeing.
Però,
basta prendere le cose un po’ alla larga e si può perfino parlare
della rappresaglia nazi-islamista
contro Charlie
Hebdo. Lo fa il
film rumeno Sieranevada,
scritto proprio così con una erre di meno, per evitare che nel mondo
si cambi il titolo, già storpiato a bella posta, del film, ispirato
alla neve e alle catene montuose iberiche, ma anche alle orribili
case grigio cemento che edificò Ceausescu negli anni 60-70.
Un
ex medico di 40 anni, che preferisce vendere farmaci perché oggi è
più redditizio, passa un sabato sera in famiglia, coi fratelli, i
nipoti, la mamma, i vicini di casa, per commemorare il papà, defunto
quaranta giorni prima. La tradizione rumena
vuole che al termine
del rito l’anima del defunto che
gironzola ancora nella casa finalmente
lasci questo mondo, e il suo vestito migliore venga indossato da un
erede (con le necessarie modifiche, in
questo caso). La scena
si svolge attorno e
davanti a una tavola
che verrà presto imbandita, ma
solo dopo che il Pope,
che si fa troppo attendere accentuando un nervosismo già esplosivo,
avrà compiuto i riti e i canti greco-ortodossi prescritti, e davanti
alla tv, poche ore dopo l’aggressione squadrista al giornale
satirico parigino. Di cui si discute, mescolando questioni rimosse e
persino drammi di famiglia con la guerra nell’ex Jugoslavia, la
recita in costume della figlia con il ruolo equivoco di Iliescu,
comunista,
nella caduta di Ceausescu, comunista,
l’arrivo di una
estranea drogata croata
con il ruolo benefico
che può esercitare, per la Romania, Obama rispetto al pericoloso
Putin. Ma soprattutto con quella
libagione rituale
sempre rimandata (eppure cosa c’è di più caratteristico nel
cinema balcanico e dell’est della tavola imbandita a cementare
antiche comunità patriarcali? Kusturica non ne è lo specialista?),
ci si concentra su un doppio accapigliarsi acceso sia sulla
storia del comunismo (i
suoi alti meriti, le sue basse miserie) sia sull’11 settembre (è
stato o no un complotto di Bush per alterare l’ordine mondiale?)
che degenera presto in violento litigio, un tutti contro tutti che
finalmente può essere il preludio alla
nascita di un
individualismo non celibe ma democratico.
Mentre
una colonna sonora superba riassume il meglio della civiltà musicale
occidentale dal settecento a De André, da Blondie a “Il
capitalismo dà di matto” di The Mighty Sparrow, star
del calypso trinidadiano…
Una
baruffa autobiografica analoga è proprio all’origine del film che
l’esponente più laico della nuova onda di Bucarest, sulla soglia
dei 50 anni, porta a Cannes, dove è stato scoperto dalla sezione Un
Certain Regard nel 2005, ed è tra i migliori discepoli del nouvelle
vague anni 70 Lucien Pintilie (qui produttore, e da cui eredita una
sapiente direzione degli
attori, già
impeccabili per conto
proprio). E’ la
quarta sceneggiatura e regia di Cristi Puiu, che inaugura la
competizione. L’opera è una coproduzione a 5, Romania, Francia,
Croazia, Bosnia e Macedonia.
Invece
di Alain Guiraudie, che in Italia conosciamo per Lo
sconosciuto del lago, thriller
gay un po’ svitato, affascina
la capacità di utilizzare gli slittamenti onirici e fiabeschi (siamo
dalle parti del castello misterioso e medievale di Séverac) dentro
una narrazione realista. Leo, sceneggiatore in crisi creativa,
deambula con la sua Peugeot
404
in
Linguadoc, ama non amato un ragazzo che
ha altre fantasie sessuali,
ha un figlio con una pastorella bionda
e testarda,
diventa progressivamente
nullatenente,
fugge con il bebé. Sono
altrettante
tappe di un attraversamento brutale nel vivere di oggi, con gli
agnelli indifesi alla mercé dei lupi famelici. E davanti ai lupi
bisogna restare in piedi. Dritti. Guardarli ad altezza d’uomo.
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