sabato 7 maggio 2016

Anno 2025, la Cina è al di là delle montagne. Il nuovo Jia Zhang Ke


di Mariuccia Ciotta

Dimenticato nel Palmares da Cannes 2015 è uscito il 5 maggio scorso in Italia e non va perso Al di là delle montagne, ovvero Shan he gu ren (Mountains May Depart), atteso titolo di Jia Zhang-Ke, già Leone d'oro a Venezia (dove aveva già presentato Platform) con Still Life (2006), regista quarantenne in cima alla lista della nuova generazione cinese. Il film prodotto da Cina, Francia e Giappone, era arrivato sulla Croisette all'ultimo momento, fresco di montaggio veloce e con qualche problema tecnico (la proiezione si era interrotta un paio di volte), ma, accolto con entusiasmo, è stato tra i favoriti della critica internazionale per la Palma d'oro.
Jia Zhang-Ke ha affilato la sua poetica nel documentario, tema dominante la Cina in via di trasformazione. Addio al sapore di un'antica cultura (e dei ravioli al vapore), all'infanzia che ha radici nella piccola città di Fenyang, nella provincia centrale di Shanxi, dov'è nato e vissuto il regista. Il film si apre nel 1999 con il vortice chiassoso di un balletto di ragazzi a ritmo di Go West dei Pop Shop Boys, cult da discoteca in quegli anni, ed esibisce il formato stretto della prima cinepresa digitale di Jia Zhank-Ke, una serie di “appunti” che col passare del tempo, non solo cinematografico, si allargano nel cinemascope, fino al Fantamondo del 2025, ripreso con l'Arriflex Alexa. Un percorso spazio-temporale che stringe il presente tra memoria e preveggenza e si materializza nel corpo di Tao (Zhao Tao, moglie del regista e attrice in molti suoi film) divisa tra due amici di sempre, il presuntuoso e rampante Zhang, padrone di una stazione di servizio e deciso a far soldi, e Liangzi, gentile e dimesso minatore. Sceglierà il peggiore, perché “i nostri modi di vivere sono stati sconvolti con l'irruzione del denaro al centro di tutto”.





Tanto che Zhang chiamerà il suo bambino Dollar, e lo spedirà appena possibile, dopo il divorzio con Tao, in Australia, più lontano geo-emotivamente possibile dalla Cina, un luogo simbolo dell'emigrante incapace di parlare l'inglese e di dialogare con i figli. Materiali misti, reali e immaginari, che viaggiano metaforicamente su auto (lussuosa e rossa quella di Zhang), treni, aerei, e oggetti domestici primitivi accanto a schermi e cellulari ultrapiatti, trasparenti... il passaggio da “com'eravamo” a come “come saremo”, Mountain May Depart già nel titolo indica il traguardo.




Quello originale vuol dire “i vecchi amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili”, paesaggi di riferimento. Traduzione dall'inglese, “le montagne possono andarsene”, e si vede. In ogni inquadratura, sullo sfondo, campeggiano gru monumentali sospese su grattacieli in costruzione, note allarmanti nello skyline cinese, giganti che incombono sulle casette malferme, le botteghe di artigianato, i mercati, i prati di Fenyang. Se con Touch of Sin (in gara a Cannes 2013) il regista ha scritto un diario in nero del paese, film a episodi di vita spietata, qui lievita l'angoscia, un sommesso, crescente malessere che fa svaporare l'allegria di fine Novecento e si dispiega nella storia di Tao, sempre più disillusa. Perderà il padre, scrigno di memoria, e anche il figlio se ne andrà così lontano da dimenticare il nome della madre.



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