Prove
di risarcimento dalla Francia per Gus Van Sant, massacrato l'anno
scorso a Cannes con il suo The Sea of Trees
che finalmente esce nelle sale italiane (e francesi) con il titolo La
foresta dei sogni. Il coro dei “buu” dei
festivalieri contro un film splendidamente imperfetto, dalla
sceneggiatura schizofrenica, eppure incantevole, si è trasformato in
“un'occasione (quasi) perduta” sulle pagine di Le
Monde il quale nota la crudeltà con cui è
stato accolto il film “abbondantemente
fischiato durante la proiezione, il film è stato poi travolto dalla
critica con una tenacia e una furia di rara potenza criminale”. Il
quotidiano francese non salva The
Sea of Trees, “un
anno dopo, ci piacerebbe catalogarlo tra il mal giudicati – scrive
– ma nessun miracolo... anche se, secondo noi, il film non è privo
di qualità. L'errore principale, nei nostri ricordi, è quello di
indicare nella prima parte il bellissimo film che avrebbe potuto
essere”. E' già qualcosa. Un fotogramma di The
Sea of Trees vale
più o meno l'intero cartellone di Cannes 2015.
Intanto
la Cinémathèque française dedica al cineasta “proteiforme”
un'ampia mostra/retrospettiva “Gus Vant Sant- Icone” (13
aprile-31 giugno) dove, oltre ai film, si vedranno le sue fotografie,
i lavori sperimentali, le serie tv (la politica Boss),
oggetti, set, disegni, fantasmi (River Phoenix, Kurt Cobain...) e
feticci vari.
Mariuccia Ciotta
Cannes 2015
Cielo nero per Gus Van
Sant, accolto da un'ondata di “buu” che ha sommerso i flebili
battimani al termine di The Sea of Trees.
Indipendente, autore totale, il cineasta americano è sempre
urticante nella sua ricognizione sui teenager, dall'esordio Malanoche
passando per My Own Private Idaho,
Elephant (Palma
d'oro), Last Days,
Paranoid Park fino a
Restless (2011) che
diffonde odore di morte in The Sea of Trees,
uno dei pochi film “adulti” di Van Sant, insieme a Milk
e a Promised Land.
Là due adolescenti, appassionati di funerali, di fronte al confine
tra esserci e non esserci più, la vita come una malattia da curare
con ogni mezzo necessario, qui due uomini persi nel limbo di
Aokigahara, ai piedi del monte Fujii.
Un uomo solo, corpo in campo radiografato in primissimi piani a coglierne il passaggio emotivo, tanto che la storia (scritta da Chris Sparling) resta sfocata, espediente per arrivare nel “luogo ideale dove morire”, il mare di alberi di Aokigahara, vista in “cartolina” dall'alto perché il Giappone ha negato il set del “suicidio perfetto” ( e Van Sant se n'è andato in Massachusetts).
Cadaveri semi-mummificati, scheletri, corpi appesi nel buio, il bosco roccioso è una tomba aperta, ma nella griglia di alberi e cespugli si muove uno spettro, Takumi Nakamura (Ken Watanabe) aspirante suicida pentito, che fermerà Arthur alla seconda pillola. L'uomo sanguinante chiede aiuto, e coinvolge l'altro in una corsa per la sopravvivenza. Segnali magici spuntano nella foresta, un'orchidea a testimoniare la perdita di una vita, una canzone, un rebus di parole, e i discorsi avvinghiati ai due uomini, lo scienziato scettico e il samurai mistico... In comune la favola di Hans e Gretel e il sentiero verso la salvezza.
Niente new age, la spiritualità laica di Gus Van Sant si sprigiona nell'abbraccio amoroso tra il giapponese che viola la tradizione del disonorato (ha perso il lavoro) e l'americano restio a credere a ciò che non vede. Feriti, ghiacciati dal gelo della foresta, i due sembrano su un terreno di guerra, mormoranti confidenze e segreti. In flashback le fasi del conflitto tra Arthur e Joan, il risentimento perché lui l'ha tradita, incapace di dirle l'amore. E poi la tragedia che non lascia margini di ripensamenti.
The Sea of Trees, quarto titolo di Gus Van Sant in gara a Cannes, va alla ricerca della via d'uscita dal labirinto mortifero, una mappa incisa sulla carne di Arthur Brennan (performance impareggiabile di McConaughey) che non sa qual era la stagione e il colore preferiti dell'amata, “non la conoscevo”, rivelati post-mortem dagli ideogrammi dello spettro (non c'è traccia di lui, Takumi Nakamura non è mai entrato ad Aokigahara) che tradotti suoneranno così: “inverno” e “giallo”.
Emotivamente insostenibile, evidentemente, per i festivalieri. Lo sono le favole.
Ps: In realtà, flash-back
incrociati e coup de théatre finale e fantasmagorico sono risultati
indigeribili. Dettagli.
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