giovedì 31 marzo 2016

Da Pasolini ad Heimat passando per Antonioni. Carlo Di Carlo raccontato da Federico Rossin

Carlo Di Carlo, secondo da sinistra con Anna Magnani e Pier paolo Pasolini
E' morto il 18 marzo scorso a soli 77 anni il cineasta e studioso bolognese Carlo Di Carlo, che, fino all'ultimo respiro, ha lavorato al gigantesco saggio definitivo su Antonioni e a documentari realizzati partendo da materiali d'archivio dell'istituto Luce e della Rai come "Il gioco degli specchi" (2011) e "Lo sguardo del Luce" (2014). La memoria fertile e come trasmetterla in maniera irreversibile, utilizzando tutte le tecniche e le magie audiovisive possibili, dentro e soprattutto fuori il realismo, è stata la sua missione. Il giorno prima della sua morte la Cineteca di Bologna, in zona Cesarini, aveva finalmente inaugurato l'agognata prima retrospettiva integrale dedicata ai suoi film. Ho incrociato Di Carlo molte volte, nei festival, nei convegni e all'Istituto Gramsci (quando era un centro attivo di cultura), spesso al fianco del suo adorato Antonioni, ma, anche se abitava a Roma ormai da anni, l'ho conosciuto bene, personalmente, e goduto della sua intelligenza e sensibilità solamente negli ultimi tempi quando, occupandomi di Italo Calvino e dei suoi rapporti così intensi con il cinema ma anche così distaccati e distanti dal cinema italiano, ho avuto modo di apprezzare la doppia incursione di Di Carlo nell'immaginario letterario calviniano confluita nella realizzazione di un dittico illuminante, i due mediometraggi prodotti, non a caso, dalla televisione pubblica tedesca, il thriller metafisico "L'inseguimento", con Alessandro Haber, killer e bersaglio, vittima e carnefice nello stesso tempo di un incubo automobilistico metropolitano. Una sorta di Duel rovesciato e reversibile, realizzato nel 1972; e "L'avventura di un lettore", del 1973, monologo balneare d'azione erotico-psicotica. Il suo lungometraggio a soggetto "Per questa notte", dal romanzo di Juan Carlos Onetti, resta solitario e unico. Anche perché il vero "voto di castità" dei cineasti sessantottini drastici (vedi il gruppo francese Zanzibar) fu quello di non diventare mai un burattino nelle mani della industria dello spettacolo: "professionista"? Mai. Colto e raffinato, professionista vero senza virgolette Di Carlo era in realtà ben conosciuto dal pubblico cinematografico più esigente, magari senza saperlo. Aveva infatti curato l'edizione italiana di "Heimat" di Edgar Reisz (1985) e del "Decalogo" di Kieslowski, oltre che dei 15 film prodotti dal Bfi per il centenario del cinema (firmati tra gli altri da Oshima, Scorsese, Godard e Reisz). Nel 1995, su testo di Roberto Roversi, ha girato "Un film per Monte Sole. L'uomo, la terra la memoria", per i 50 anni dalla strage di Marzabotto. Avrebbe molto gradito, a proposito di antinazismo e di lotta al revisionismo storico il film su Fritz Bauer che sta per uscire nelle sale italiane proprio in questi giorni. Dal 1996 al 2002 Di Carlo è stato membro del consiglio d'amministrazione del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nastro d'argento nel 2010, ha vinto il premio De Sica per la sua lunga e profonda saggistica su Antonioni. Il suo prezioso fondo è stato donato alla Cineteca di Bologna. Già malato da qualche mese non si è negato ai microfoni di Hollywood Party pochi giorni prima di morire. Un intervento profondo, come al solito, e anche di rara modestia. Lo avevamo chiamato, infatti, per parlarci d'altro. Non di lui. 

Ho chiesto a Federico Rossin, per rendere a Carlo Di Carlo l'omaggio che merita, di ripubblicare una sua lunga  intervista realizzata in occasione di una retrospettiva dei documentari di Di Carlo al NodoDocFest di Trieste del 2011 (dall'11 al 16 maggio). Lo ringrazio per la sua disponibilità. Oltre all'intervista Rossin ha curato una presentazione, una biofimografia e le schede dei film. Ripubblichiamo il tutto dal catalogo del NodoDocFest.  (Roberto Silvestri) 







LO STILE È UNA CATEGORIA MORALE. 
I DOCUMENTARI DI CARLO DI CARLO

Non un mondo di eguali tracotanti ma
uomini e donne uomini e donne diversi e l’albero
della libertà sferzato da gelate non vinto
nella battaglia.
Tornerò. Io ritorno attraverso il cuore della mia terra natale

Roberto Roversi, da L’Italia sepolta sotto la neve

Nel cinema documentario è raro incontrare autori che abbiano una tenace tensione per il reale e allo stesso tempo un’esigente cura per la forma con cui saperlo captare e restituire. Carlo di Carlo è uno di questi cineasti, autori per i quali l’etica dello sguardo non corre mai disgiunta dalla complessità dell’estetica. Carlo di Carlo documentarista si lascia subito alle spalle i cascami di un tardo e contenutista neorealismo, trovando nello studio del linguaggio un campo di analisi fecondo ancora intentato nell’Italia degli anni ’60: il bisogno di uscire dal provincialismo nazionale lo affianca così alle ricerche che in poesia l’amico di una vita Roberto Roversi andava elaborando, e lo proietta in una dimensione europea che lo ha visto realizzare opere di rara intensità per pensiero ed emozione. Di Carlo è uno sperimentatore: se si scorre la sua filmografia documentaria si trovano film-saggi, film-pamphlet, film-poemi, indagini etnografiche, reportage, ritratti; diversi i generi attraversati ma incessante la ricerca di un linguaggio che sappia mettere in dialettico contrappunto il visibile con l’invisibile, la realtà con l’idea della realtà. Di Carlo ha fatto fruttare al meglio il doppio magistero degli amici Pasolini ed Antonioni, integrandone la lezione con una rigorosa integrità morale che si traduce immediatamente in una visione politica della storia ed al contempo dello stile con cui raccontarla. La ricerca espressiva è cioè sempre funzionale al discorso: non c’è quindi freddo e astratto formalismo, ma bensì un concreto dispositivo audiovisivo ogni volta nuovo in grado di tradurre in un cinema di pensiero la bruciante evidenza delle cose umane. È un cinema umanistico, privo di semplicismi ideologici ma pregno di ben chiare e orientate idee sul mondo, la storia e il viver comune: le tragedie novecentesche – la due guerre mondiali, la Shoah, l’incubo atomico, ecc. – sono attraversate con l’acutezza di un puntuto saggismo cinematografico che lascia a noi spettatori il compito morale di una scelta, integrandoci nell’opera come vigili soggetti pensanti. Lo straniamento e la distanza critica perseguiti producono stratigrafie di senso in cui ogni elemento del film – il suono, l’immagine e il ritmo – hanno pari dignità e complessità: da qui discende la freschezza di un linguaggio che ha ancora molto da insegnarci per il respiro sperimentale e la carica espressiva che lo caratterizza. È anche per questo che vogliamo percorrerne gli esiti che ci paiono più riusciti, film che non hanno mai smesso di parlare al presente –  opere che ci sono davvero necessarie.

Federico Rossin

Carlo di Carlo: nota biografica
Inizia la sua attività come critico cinematografico dirigendo dal
1959 al 1963 la rivista di cinema e televisione Film Selezione e,
dal 1964 al 1966, il periodico TVC.
Autore di saggi e libri tra cui Michelangelo Antonioni (1964), Il
primo Antonioni (1973), Il cinema della televisione (1983), Fare
un film è per me vivere - scritti di Antonioni sul cinema (Efebo
d’oro per il miglior libro di cinema 1994), I film nel cassetto
(1995). Ha curato alcuni volumi della collana Dal soggetto al film
dell’editore Cappelli.
Nel 1961 realizza il suo primo cortometraggio La “menzogna”
di Marzabotto. Nei dieci anni successivi prosegue la sua attività
di autore con una trentina di corto e mediometraggi, tra cui Atto
senza parole 2, dal mimodramma di Samuel Beckett, Premio
speciale della Giuria al Festival di Tours del 1967.
Aiuto regista di Pier Paolo Pasolini per Mamma Roma (1962),
La ricotta episodio di Rogopag (1963) e La rabbia (1963).
(Al regista friulano ha dedicato un documentario Pier Paolo
Pasolini: cultura e società (1967).) Ha collaborato anche con
Miklos Jancsò per La pacifista (1971).
Decisivo per la sua formazione il rapporto con Michelangelo
Antonioni, di cui è stato collaboratore per Blow up (1967),
Zabriskie point (1970), Chung Kuo. Cina (1972), Professione
reporter (1974), Il mistero di Oberwald (1980), Al di là delle
nuvole (1995).
Nel 1971 esordisce nel cinema a soggetto per il Kleines
Fernsehspiel della Zweites Deutsches Fernsehen, la seconda
televisione della Repubblica Federale Tedesca, e realizza
L’inseguimento e l’assassinio del prigioniero Ludwig L. (1971),
Fuga in avanti (1971), poi L’inseguimento (1972) e Avventura
di un lettore (1973), dai racconti omonimi di Italo Calvino; Uno
dalle nove alle cinque (1974), da un racconto di Stanley Ellin;

Carlo Di Carlo e Michelangelo Antonioni 
INCONTRO CON  CARLO DI CARLO

FEDERICO ROSSIN  Vorrei che mi parlassi della tua formazione a Bologna nella fine degli anni ’50: quali sono stati i tuoi compagni di strada, quali i tuoi primi maestri? Che cos’era quel mondo e cosa ne hai tratto per il tuo lavoro successivo?

CARLO DI CARLO  La mia era una famiglia borghese e abitavo a Bologna: mio padre, abruzzese, generale pilota dell’Aeronautica, militare di carriera e fiero di esserlo. Cresciuto con  un tipo di educazione molto tradizionale e rigida, secondo i principi con cui lui era stato educato. Mia madre, bolognese, dal temperamento molto forte, affettiva e possessiva, ha cercato sempre di conciliare il mio non-rapporto con mio padre.
Il primo vero compagno di strada è stato Antonio Faeti, diventato poi un  pedagogo, grande esperto, inventore e titolare di una cattedra di letteratura per l’infanzia all’Università di Bologna. È stato lui ad aprirmi gli occhi sul mondo anche da un punto di vista formativo e soprattutto a spiegarmi la differenza tra fascismo e antifascismo. È stato Faeti a farmi conoscere Roberto Roversi e la sua storica Libreria antiquaria Palmaverde. Un incontro fondamentale, perchè da quel momento – fra il ’58 e il ‘60 – il rapporto con Roversi è cresciuto giorno dopo giorno: la mia sempre più assidua frequentazione, è stata una scuola, un insegnamento di vita vero e proprio, che mi ha formato e consentito di maturarmi in una direzione certamente opposta a  quella a cui avrebbe voluto indirizzarmi la mia famiglia. In libreria, nell’arco di due anni (1959 e 1960) ho  conosciuto personaggi come Gianni Scalia, Giuseppe Guglielmi, Luigi Rosiello, Pietro Bonfiglioli, con cui mi intrattenevo quasi tutti i giorni – perchè alla Palmaverde comunque si passava - poi Renata Viganò e Antonio Meluschi, con i quali strinsi un’affettuosa amicizia. Ho avuto occasione di incontrare anche Calvino, Vittorini che aveva appena fatto uscire il primo numero di “Menabò” (una volta, accompagnato da Hans Magnus Enzensberger). Per me insomma fu un naturale corso  rapido di “addestramento” culturale. Incominciavo a maturare e a formarmi delle convinzioni.  Parallelamente iniziava il mio grande amore per il cinema: vedevo un film al giorno e dopo, desideravo sempre  scrivere le mie impressioni su un quaderno a righe con la copertina nera, di quelli  che si usava a scuola.
Devo qualcosa di importante anche a due frati domenicani: uno mi insegnò a capire subito la filosofia e ad amarla, l’altro mi avviò all’amore per il cinema facendomi frequentare i cicli del Cineforum e poi del Centro Universitario Cinematografico. Così, ho incontrato, uno dopo l’altro  i grandi classici, il grande cinema (da quello sovietico a Griffith, da Dreyer a Buster Keaton, dagli espressionisti tedeschi al  cinema francese). E così iniziò la  mia frequentazione delle istituzioni bolognesi (allora in Comune c’era già Renato Zangheri come assessore e in provincia Carlo Maria Badini) e l’apprendistato di “operatore culturale”, allora non ancora ben definito. Organizzavo cicli di documentari, un genere che mi interessava moltissimo e di film (i più importanti  “Il cortometraggio italiano antifascista” e “Risorgimento e Resistenza” per il Centenario dell’unità d’Italia). Ad ogni proiezione invitavamo i registi, che venivano a loro spese, felici di discutere con il pubblico. 
Da tutto questo scaturì il mio vero incontro con l’antifascismo,  una mattina del 25 aprile (del ’58 o del ’59): la visione di  Roma città aperta di Rossellini  fu un vero shock. Quel film riuscì a farmi entrare nel mio dna l’antifascismo con  il suo pensiero,  le sue lotte e a spingermi a studiarne e approfondirne la conoscenza. Dal ’59 in poi cominciai a frequentare i festival di cinema – Venezia ma anche il Festival dei Popoli di Firenze, allora appuntamento da non mancare per l’indagine e la ricerca etnoantropologica nel cinema e il desiderio di realizzare un documentario si faceva  sempre più forte.
L’occasione di fare il regista mi si presentò per caso: nel 1961 usci in Germania Federale un libello neonazista che smentiva la strage di Marzabotto (un evento noto a tutti a Bologna, vecchi e giovani, anche per le testimonianze dei  superstiti raccolte da Renato Giorgi nel suo straordinario libro “Marzabotto parla”, allora appena uscito). Si parlò molto di questa pubblicazione e io vissi  reazioni forti, dure, in casa di Renata Viganò e Antonio Meluschi dove ascoltavo racconti, fatti, episodi vissuti da loro in prima persona in tanti episodi della Resistenza. E mentre si parlava, arrivavano nella loro casa – magari mentre l’Agnese preparava la sfoglia - scrittori, giornalisti, politici. Molte volte si proseguiva  alla Palmaverde assieme a Roversi, che da giovanissimo aveva militato in “Giustizia e libertà” fino al tanto atteso  giorno della liberazione, quando – come ricorda in una delle sue poesie più belle di “Dopo Campoformio” – “la piazza di calce, bianca nell’aria d’aprile, / tacque. Un uomo apparve sul palco,/ parlò poche parole aprendo / la nuova storia.”  (Era Ferruccio Parri). Mi piace ricordare che fui io a portare il libro a Parri, che non lo conosceva, quando mi onorò della  prefazione al mio primo libretto su “Il cortometraggio antifascista”.
Nel leggere a fatica (avevo studiato il tedesco) “Die Lüge von Marzabotto”, appunto La menzogna di Marzabotto, ne ero sempre  più turbato. E anche molto rabbioso. Discussi molto con Renzo Renzi - un altro  punto di riferimento, il primo nel cinema, e amico carissimo di una vita, durante interminabili passeggiate quasi quotidiane sotto i portici di Bologna. Renzo mi incoraggiò tantissimo, mi spronò dandomi subito la sua totale disponibilità a strutturare il documentario.
Ostinato a volerlo fare, a tentare, a provare, chiesi aiuto e coinvolsi nel progetto Giuseppe Ferrara (con cui avevo fondato un anno prima e diretto la rivista “Film Selezione” , già autore di vari cortometraggi), e naturalmente Roversi, Renata e Meluschi e  grazie a Carlo Maria Badini  trovai nella Provincia di Bologna l’aiuto necessario  per realizzare  La "menzogna" di Marzabotto,  affrontandolo  a cuor leggero  e un po’ incosciente avendo visto fisicamente soltanto due volte una macchina da presa, mentre Renzi girava un documentario.

FR La cosa interessante del film, grazie alla quale ha mantenuto ancor oggi una viva forza nella forma e nel contenuto, è una precisa attenzione allo sguardo e al linguaggio – cosa che lo differenzia da quasi tutti gli altri cortometraggi antifascisti (ai quali hai dedicato il tuo primo libro nel 1961). C’è una ricerca dell’espressione, improntata all’evocazione più che alla descrizione. Se nella seconda parte è lasciato giustamente spazio alle testimonianze dei sopravvissuti della strage, nella prima parte del film restano indimenticabili certe immagini emblematiche – suggestive dal punto di vista emotivo ma dense dal punto di vista del linguaggio. Io intravedo già le linee stilistiche del tuo lavoro successivo - fai a meno del commento e della retorica.

CDC  Mi fa piacere che tu lo abbia rilevato  perché in effetti credo  sia così. Quegli eventi terribili esprimevano un tale potenziale da entrare a quell’epoca dentro di noi con una forza prorompente e  per quanto mi riguarda, nel riviverli insieme ai testimoni e nello sforzo di evocarli, mi fortificarono. L’esempio per me era stato Nuit et brouillard di Resnais: ne fui talmente conquistato che volli a tutti i costi Nando Gazzolo come voce per il testo di Roversi perché secondo me in quel momento dopo Resnais, impersonificava come nessun altro la voce fonda della memoria. Ma la cura e la fiducia nell'immagine, di cui tu parli, era un elemento seppure  inconsciamente, si legava già al cinema di Antonioni – folgorato com’ero stato, nel 1960 da L'avventura  e da Il grido che vidi dopo-, e con l'uomo Antonioni che - prima di girare La menzogna - convinsi a venire a Bologna per parlare de L’avventura, appena sequestrata dalla Procura milanese e quindi per conoscerlo.

FR  Mi interessa molto il legame con Resnais, che aveva Jean Cayrol, e tu avevi Roversi - e lo hai sempre avuto al tuo fianco nel lavoro dei tuoi film. Com'è nato questo sodalizio artistico fra un poeta - molto materiale e immaginifico, come Roversi - e un cineasta come te che cerca nell'espressione pura il mezzo per restituirci la realtà, non avendo quasi bisogno di parole. Quella fra voi è un'interazione decisiva.

CDC  Il rapporto stretto e ormai familiare con Roversi (dal quale ho imparato tanto e che era diventato ormai un imprescindibile punto di riferimento, è stato anche al centro di scontri polemici e dialettici, non solo per una differenza generazionale, che però avevano il merito di rafforzare anziché indebolire la nostra amicizia. Anche nel pensare e nel lavorare  insieme, c'era spesso una diversa visione della forma e del linguaggio, ma dagli scontri  molte volte uscivano le idee migliori.

FR  Vorrei che mi raccontassi il contesto storico in cui hai girato La "menzogna" di Marzabotto.

CDC  Era un momento di vita democratica piuttosto buio, anni in cui l'Italia ha rischiato veramente qualcosa. Tambroni al governo sostenuto dal Movimento Sociale, i fatti di Genova ... Il mio film fu vietato ai minori di sedici anni. Una vergogna. Eppure questa cosa si è ritorta contro i censori e ha finito per dare una visibilità inaspettata al documentario, di cui si parlava tanto sui giornali e ne rafforzava il suo valore storico-politico, militante. Per dirti il clima, pensa che durante le riprese mi interrogarono in questura per sapere cosa c'era "dietro" il film...e mio padre, chiamato dal questore, che gli chiedeva cosa stava combinando suo figlio... Bisogna ricordare anche che il libello neonazista era uscito nella Repubblica Federale Tedesca, nostra alleata nel blocco occidentale antisovietico, in piena guerra fredda. Vietando il film ai minori di sedici anni i censori sapevano benissimo di impedirne la visione (essendo vietato non poteva avere la “programmazione obbligatoria”, cioè la circuitazione nelle sale). Invece, proprio grazie a questo divieto, le organizzazioni culturali e politiche lo richiedevano da ogni parte d'Italia e ad ogni proiezione seguivano incontri e dibattiti. Nel settembre del '61 a Roma  La “menzogna” di Marzabotto venne presentato in anteprima e fu una serata affollatissima: Roversi avvisò Pasolini, suo grande amico e compagno di strada nella storica rivista “Officina” e così ebbi l’occasione di conoscerlo. Un grande incontro, anche per le parole che ebbe a dirmi sul documentario.

FR  Com'è nata la tua intensa collaborazione con Pasolini?

CDC  Mi trasferii a Roma nel dicembre del 1961. Da un anno e mezzo dirigevo con Giuseppe Ferrara una rivista di cinema, “Film Selezione”. Mi fu proposta una trasformazione della rivista da Matteo Matteotti che doveva rilevare la rivista pagando i debiti accumulati. Presiedeva un Centro culturale a Via della Lungara, a due passi da Regina Coeli, in un palazzo dell’Accademia dei Lincei, con una sala cinematografica per l’attività del “Circolo Aldo Vergano”,  Alessandro Fersen stava per aprire il suo Actor’s studio e Fabrizio Onofri preparava il primo numero della rivista “Tempi moderni”. Non ci pensai due volte e colsi quest'occasione con spericolato entusiasmo. Ma la spinta principale mi venne dall’improvvisa e inaspettata possibilità  di trasferirmi a Roma e di staccarmi dalla famiglia. Ormai per me era impossibile convivere con l'ostilità di mio padre, causata prima di tutto dalla mia maturazione culturale e politica che lui non poteva accettare per nessuna ragione al mondo. Per me fu la realizzazione di un sogno che però sogno non era, ma piuttosto la prima tappa importante per ciò che volevo fare nella vita. Anche se l’aver accettato di dirigere da solo “Film Selezione” scatenò una battaglia cruenta.  Mi abbandonarono e dovetti separarmi  da quasi tutti i collaboratori della rivista, che mi ritenevano troppo giovane e poco esperto per dirigerla da solo. Invece riuscii a farla  uscire anche in una nuova veste  tipografica, con l‘aiuto del grande Albe Steiner.
Dopo tre mesi mio padre morì: ero nel Gargano a fare i sopralluoghi per Terre morte e Isola di Varano e riuscii ad arrivare a Bologna appena in tempo per i funerali. Per me fu un momento durissimo, di grande dolore, un dolore che mi portai dentro per tanto tempo. Conteneva soprattutto il rimpianto di non esserci mai capiti, con mio padre,  o forse di non esserci mai voluti capire. Quello stesso giorno alla Palmaverde vidi Pasolini, che passava a salutare Roberto con Bernardo Bertolucci che  stava preparando il suo primo film su soggetto di Pier Paolo, La commare secca. Ci salutammo e dopo qualche ora Pasolini mi telefonò proponendomi di prendere il posto di Bernardo come suo aiuto regista. Un fulmine a ciel sereno. Io ero già fortemente attratto dal cinema di Antonioni e maturavo l'idea di scrivere un libro su di lui. Pur avendo molto amato Accattone e avendo molta stima  di Pasolini come poeta, ero dubbioso, frastornato per una così bella proposta e anche per la prova di stima nei miei confronti. Ma c’era l’impegno vincolante con la rivista, appena tre mesi dopo il mio trasferimento a Roma. Non sapevo veramente cosa fare. Tutto queste considerazioni, dopo aver sistemato tutti i problemi di famiglia svanirono ma lasciando mia madre a Bologna, dove è rimasta per sempre. Il mio sì a Pasolini fu partecipe, deciso e convinto  Lo andai a trovare nella casa di via Giacinto Carini e di lì a poco iniziò subito la preparazione di Mamma Roma.

FR  Che cosa hai imparato dalla tua collaborazione con Pasolini?

CDC  Con Pier Paolo ho avuto un magnifico rapporto umano e culturale. Ho imparato moltissime cose,  ho saputo apprezzare la sua grande generosità, la sua onestà profonda e con lui ho condiviso per la prima volta l'esperienza di una troupe e di un set cinematografico. Accattone era stato girato con pochi mezzi e una troupe ridotta, Mamma Roma era un film prodotto da Rizzoli con una struttura produttiva importante. Pier Paolo aveva una concezione del cinema estremamente personale, usava un linguaggio essenziale, quasi elementare che la sua vena poetica, la sua ispirazione e il suo talento sapevano trasfigurare. Imparava il cinema facendolo. Ho un ricordo forte, intenso del mio rapporto con Anna Magnani con cui condividevo tutto il tempo lavorativo, curando  i  rapporti tra lei e Pasolini, tra lei e il set. Seguii Pier Paolo anche ne La ricotta, inizialmente turbato dalla presenza sacrale di Orson Welles, il quale accettò di fare il film non perchè colpito dalla personalità di Pasolini ma per l’offerta di una cifra molto consistente. Si comportò da vero professionista, seguendo tutto ciò che Pier Paolo gli spiegava e gli chiedeva. Non imparava mai una battuta, ed ero io a preparargli i “gobbi”.
L'ultima collaborazione con Pasolini fu per La rabbia, un film di repertorio che avrebbe utilizzato l’archivio dei cinegiornali appartenenti al produttore del film. All'inizio Pier Paolo lavorò da solo, scelse i materiali poi mi chiamò per aiutarlo a reperire materiale fotografico e cinematografico integrativo, per girare sequenze di foto in truka, per sfrondare i grandi blocchi di sequenze, appena impostate con un montaggio largo. Lavorammo quasi sempre insieme e fu un’ esperienza che mi arricchì molto. Il produttore Ferranti, dopo aver visto le immagini del primo montaggio del film e intuendone il difficile esito commerciale, decise di dividere il film in due parti,  contrapponendogli, dopo molte indecisioni sui nomi, Giovannino Guareschi. Era, né più né meno,  l’idea del settimanale  «Candido», da lui diretto, dove ogni settimana in  prima pagina, in basso a sinistra e in basso a destra, Guareschi proponeva due sue vignette (intitolate Visto da sinistra e Visto da destra). Rappresentavano due lati e due “verità” sullo stesso argomento : quella – falsa – di sinistra e quella – vera – di destra, la quale smentiva quella di sinistra al grido di «Contrordine compagni! La frase pubblicata su “l’Unità”: ... si deve invece intendere:...». L’idea  suscitò subito una reazione piuttosto dura da parte  di Pasolini, ma poi si arrivò alla soluzione. Pier  Paolo  sostenne che era molto importante,  per lo spirito del tempo, riuscire a realizzare la sua metà, destinata a diventare un film insolito, accompagnato da un testo molto “forte”, con una parte  affidata all’arma della poesia. Con La rabbia possiamo dire che Pasolini ha inconsciamente proposto un tipo di televisione che mostra e utilizza il materiale d’archivio non come fine, ma come mezzo di riflessione critica, di provocazione  culturale, di ragionamento, per un discorso diverso e contrario a quello della tv dell’epoca.

FR  Parliamo dei due film girati nel Gargano: rispetto al tradizionale e un poco manierato documentario italiano etnografico più che antropologico che allora molti registi affrontavano, il tuo dittico arriva ad una profondità rara grazie ad una forma che fa di una vera e propria geologia del volto umano la sua chiave di lettura della realtà. Non c'è inoltre una voce fuori campo a spiegare pedissequamente, ma la ricerca avviene tutta nella forma e nel ritmo: e spiazzante è l'uso della musica concreta su immagini di realtà sociali primitive.

CDC  Pensavo allora si dovesse superare anche nel documentario la cifra neorealistica/realistica allora sempre imperante. Intendiamoci, la mia non era certo una posizione antineorealista (il neorealismo fu non solo una grande lezione, ma un potente rinnovamento per il cinema, per la cultura, per il linguaggio) ma ero convinto che proprio dal documentario dovesse partire una rottura di un linguaggio tradizionale, capace di dare all'immagine un valore assoluto, delegando solo ad essa la forza del racconto del film. Questa mia ricerca  era guardata, non da tutti,  con sospetto o trattata sbrigativamente come operazione formale. Invece cercavo di rapportarmi alle opere più avvertite realizzate fuori dall'Italia, facevo tesoro dei film che vedevo al Festival dei Popoli - allora frequentato dai Rouch, dai Morin, dai Ruspoli, dai canadesi del National Film Board, ma si vedeva anche la fantasia immaginifica di McLaren – alla ricerca di compagni di strada.  Mi ricordo, per esempio,  l’impatto che le mie immagini provocarono in Pier Paolo che mi accusò esplicitamente di  freddo  formalismo astratto. Io invece volevo spiazzare, tentavo di creare uno straniamento linguistico, di distanziare immagine e suono, sguardo e realtà. Ero sicuro allora, di  reagire, a modo mio, alla “poetica della realtà” zavattiniana e al facile populismo molto in voga. A proposito di Terre morte e di Isola di Varano voglio ricordare una persona che mi è stata sempre a cuore: Renato May. Trovai in lui subito, dopo la visione del materiale girato, uno stupore e un’adesione intellettuale straordinaria. Renato, un vero signore dall’aria semplice, importante storico e teorico del montaggio, non chiamato da me ma che lavorava per il mio produttore, capì fin dal primo momento la cifra linguistica delle mie immagini e il senso che volevo dargli. Seppe interpretarne nel migliore dei modi, con le sue soluzioni da grande montatore il ritmo giusto che, per come erano state girate le inquadrature, era la cosa più difficile.

FR  Un'altra cosa che metterei in evidenza del tuo dittico è la questione della lingua: a me pare che, paradossalmente sia molto più populista e paternalista l'italiano usato nei documentari dell'epoca, piuttosto che il dialetto che hai scelto di usare tu. E poi dimmi qualcosa della scelta musicale.

CDC  Sì, un ulteriore elemento straniante: non sentire le domande, lasciando  le risposte, per togliere di mezzo, subito,  qualsiasi sospetto di avere a che fare con la tv, con l’inchiesta televisiva, seppure  allora fosse forte, importante, di spessore, autoriale (un nome per tutti: Zavoli) ma che usava il suo giusto linguaggio dichiaratamente televisivo e quindi non cinematografico.
La musica è stata influenzata dalle ricerche che conduceva in Francia in quel periodo Pierre Schaeffer col Service de la Recherche dell’ORTF.  Pensai che la cifra iconografica delle mie immagini potesse (dovesse) essere rapportata molto efficacemente al suono-rumore, piuttosto che alla musica e che andare contro ciò che si aspettava il pubblico meno avvertito, ne avrebbe accresciuto la forza linguistica e “sperimentale”.

FR  Anche l'anno dopo, 1963, hai usato musica concreta per commentare le immagini terribili di Vivere con la bomba.

CDC  L'incubo del nucleare era nell’aria, pesantemente, dopo Cuba ’61. Con Roversi eravamo sulla stessa lunghezza d’onda e ci toccava  profondamente. Come con-vivere con la bomba? Era il periodo dei libri di Günther Anders e la poesia di Roberto mi parve talmente forte e bella, che volevo segnalarla. La scelta di foto fisse fu automatica,  non potendo accedere ai costi esosi delle rare immagini di Hiroshima e Nagasaki dagli archivi americani. Ma devo dire che le foto, talora appena virate, mi sembra abbiano la loro efficacia. In ogni caso, la mia è una testimonianza, il valore è della poesia.

FR   Eppure, adottando un principio strutturale fatto di ricorsività e ripetizione, hai trovato una chiave perfetta per uscire dalle strettoie della mancanza di immagini in movimento.

CDC  Ho pensato alla struttura ritmica dei versi di Roberto per trovare una struttura ritmica equivalente. La musica mi ha aiutato e questa volta l'uso della voce "tradizionale" di Sbragia  mi pare svolga il ruolo di ulteriore contrappunto straniante.

FR  Per Terezín hai avuto un grande collaboratore alla sceneggiatura: Arnošt Lustig, recentemente scomparso. Hai elaborato una struttura aperta: una parte da reportage vero e proprio e una in cui crei una specie di animazione dei disegni lasciati dai bambini del ghetto, poi morti ad Auschwitz

L'associazione Italia-Cecoslovacchia, presieduta da quella grande donna che è stata Nadia Spano, si fece promotrice di una mostra itinerante dei disegni dei bambini del ghetto di Terezín, con la pubblicazione anche di un libro-album  edito da Lerici. Ne rimasi profondamente colpito, incontrai e frequentai Nadia e bastò poco a convincermi e a convincerla dell’opportunità – eravamo nel 1963 - di realizzare un film documentario sui bambini di Terezín. Ma come? Nel 1963, quando andammo a Berlino per l’annuncio de Il deserto rosso, Antonioni mi aveva presentato il suo produttore de La notte, Emanuele Cassuto, uno straordinario personaggio che, dopo aver inventato a Roma l’ ”Unitalia film” (la società creata  per la diffusione del cinema italiano all’estero), girava ininterrottamente il mondo - parlava sei lingue - per vendere pacchetti di film italiani tra cui i  migliori. Aveva mostrato interesse alla mia idea e, in mezzo a traversie indicibili, si riuscì a mettere insieme una specie di coproduzione fantasma con la Ceskslovensky Filmexport allora impensabile. E il film, miracolosamente, si fece.
Ero innamorato di alcuni disegni, che a me sembravano dei Klee, dei Mirò, dei Chagall e cercavo di raccontare perchè e da chi e in che condizioni erano stati realizzati. Le difficoltà, anche a Praga, furono tante, perchè sul ghetto di Terezín, fino a quel momento, non c'era una chiarezza storica definitiva e soprattutto una scarsità di documenti certi. Allora pensai di strutturare il film in maniera libera, cercando testimoni importanti, sopravvissuti a quel segmento terribile della nostra storia, come Arnost Lustig, lo scrittore di “Diamanti di notte” e “Una preghiera per Katarina Horovitza”, che sceneggiò con me il film.

FR  Qual è per te il rapporto fra il visibile e l'invisibile nel documentario, fra ciò che può essere direttamente mostrato e ciò cui si deve solo alludere o che si può solo evocare? Ti chiedo questo perché i tuoi, mi sembrano degli anti-documentari, che paradossalmente finiscono per raccontarci di più e meglio dei documentari classici privi di troppe preoccupazioni formali. E l'unico non-documentario della tua personale, Atto senza parole 2, mi sembra invece più documentario degli altri, tanto è minuzioso e ossessivo nel cogliere il gesto e nel sezionare i corpi brano a brano.

Sono riuscito, con grande fatica, costanza e pazienza - pagandone talvolta anche un prezzo molto alto - a fare sempre e solo ciò che mi sentivo di fare, seguendo sempre il mio istinto, le mie esigenze, di volta in volta. E dunque, tutto ciò che c'è dentro ai miei documentari racconta me e ciò che ho imparato, che ho studiato, che ho visto, che ho “sentito”, che ho capito, ciò che le mie esperienze formative e culturali mi trasmettevano. Atto senza parole 2 racconta  sia il mio amore viscerale e totale, in quel momento, per l'opera di Samuel Beckett, sia la tensione di un processo formale portato fino al limite, a un'astrazione che, secondo me, sa essere talvolta ancor più concreta di ogni realtà. Trovammo, col mio direttore della fotografia, una soluzione per ottenere in fase di ripresa un bianco esasperato, più bianco del bianco, e, per contrasto, un nero altrettanto esasperato. Poi utilizzai un quasi inavvertibile ralenti e un’impercettibile accelerazione delle immagini, per seguire ancor più letteralmente  le indicazioni scrupolose e minuziose di Beckett contenute nel testo, per restituire al meglio gli atteggiamenti comportamentali dei due personaggi, il signor A e il signor B.

FR  Mi pare straordinario che, grazie a questa forma elaboratissima, tu sia riuscito a spogliare di qualsiasi elemento teatrale il testo fino a giungere ad un'opera che è solo e soltanto cinematografica.

CDC  Sicuramente Atto senza parole 2 mi sembra sia la somma del mio potenziale di documentarista fino a quel momento ed al contempo una sperimentazione delle mie capacità  in attesa di un'opera di finzione. Durante i sei mesi preparatori del film (tanti ne occorsero per la preparazione e invece un sol giorno per le riprese) andai varie volte a Parigi a trovare Beckett per discutere e confrontare con lui le mie idee di realizzazione. Che incontri, furono quelli. Ripensandoci oggi, mi sembra di sognare. L'ambiente in cui collocare il film fu la scelta più difficile: Beckett mi disse che due giovani inglesi lo avevano realizzato in una discarica. Io pensavo ci fosse bisogno di uno spazio libero ma con degli elementi in campo, non certamente “naturali”. E dopo tante ricerche, una mattina, mentre con la mia collaboratrice Alessandra Bocchetti vagavamo disperatamente alla ricerca di qualcosa di giusto, anzi diciamo, di insolito, sulla spiaggia tra Anzio e Nettuno, vedemmo a riva delle gigantesche strutture in cemento armato (quelle che si vedono nel film) ancora imbrigliate nelle loro armature di ferro. Erano frangionde la cui struttura permetteva di concatenarle per formare una barriera  protettiva.
Il film nel 1966 venne scelto per il festival di Tours - allora  il più importante festival europeo del cortometraggio - e vinse il premio speciale della giuria presieduta da Victor Vasarely. 
Negli anni successivi ho realizzato, sempre con fatica, alcuni documentari per un produttore anomalo di Milano, un signore antico di grande cultura che mi presentò Nelo Risi (si chiamava Mortara): uno sulla pittura di Prampolini, poi su Milano, un altro film per l'Olivetti (con il fratello di Fruttero) ma la televisione italiana seguitava ad essermi preclusa: proponevo progetti ma nessuno li accettava.
Invece, un giorno,nel 1969,  mi cercò un funzionario-redattore della seconda  televisione tedesca (ZDF)  (che in quegli anni, non dimentichiamolo, produceva i primi film di Fassbinder, Schroeter, Lilienthal, Helma Sanders etc). Aveva visto in Francia Atto senza parole 2 e voleva vedere gli altri miei lavori. Dopo poco tempo mi chiese di proporgli un progetto. Non ho dovuto realmente emigrare in Germania, perchè i miei cinque film – tranne il secondo girato a Berlino – sono stati realizzati tutti in Italia. Con la ZDF ho collaborato per più di sei anni e per loro ho realizzato  cinque film  di durate differenti che comunque non potevano superare l’ora. L’ultimo,  Il sistema infallibile, un’ora di durata, muto, protagonista Flavio Bucci, fu il successo della Biennale 1976. Lo scrissi con il mio secondo compagno di strada Antonio Vergine, anche lui regista, bravo documentarista, a cui devo una lunga, complice amicizia e collaborazione che ci ha fatto sodali nella vita e nel lavoro da oltre quarant’anni. La partecipazione alla Biennale riformata fu un caso, perchè uno dei temi  di quell’edizione era il rapporto tra cinema e televisione, e per mostrare il cinema prodotto dalla tv, era stata invitata la Seconda Televisione Tedesca che propose cinque film. La Biennale ne scelse due e uno era Il sistema infallibile che dunque batteva bandiera tedesca. Con loro è stata una collaborazione splendida e proficua. Ho potuto lavorare al meglio, ho avuto una grande libertà espressiva e sono stato sempre il produttore di me stesso perché per loro l’autore costituiva un’unità produttiva. L’occasione della Biennale mi diede visibilità perché del Sistema infallibile si parlò molto sui giornali, e l’anno successivo riuscii finalmente, con il sostegno e con lo slancio determinato di Michelangelo, a realizzare il mio primo lungometraggio Per questa notte, tratto dall’omonimo romanzo di Juan Carlos Onetti che mi aveva molto appassionato, l’unico film italiano credo che la tv italiana non ha mai trasmesso e di cui non esiste né un’edizione in vhs né in dvd.

FR Ecco, torniamo ad Antonioni: vuoi raccontarmi cosa ha rappresentato per te - dagli anni '60 fino alla sua scomparsa?

CDC   Come ti ho detto l'ho conosciuto nel 1961 a Bologna: gli feci  vedere il materiale girato de La “menzogna” di Marzabotto e apprezzò il mio lavoro. Per due anni lavorai al primo libro su di lui che nel 1964 pubblicato da “Bianco e Nero” nel 1964 (ho detto primo perché fino ad oggi ne ho pubblicati tredici) ma rimanemmo  conoscenti. Michelangelo ha avuto sempre le donne per amiche e non gli uomini. Alla fine del 1965, dopo le riprese a Londra di Blow-up mi chiese di seguirlo nel lavoro di scelta del materiale girato: la collaborazione professionale e la nostra intesa umana si trasformò lentamente in un rapporto molto stretto, diventò un'amicizia e via via un’amicizia profonda che ha segnato la mia vita. Per Blow-up curai con lui anche il doppiaggio della versione italiana e poi, negli anni, le edizioni di tutti i suoi film fino ad Al di là delle  nuvole.
Un lavoro, questo del doppiaggio, diventato dal 1985, con la versione italiana di Heimat di Edgar Reitz, e poi del Decalogo di Kieslowski, un altro aspetto della mia professione che mi ha dato la possibilità di lavorare su opere e film di grande impegno e mi ha consentito di vivere, senza fare cose indesiderate.

FR  Il tuo primo rapporto con la RAI è stato il documentario sul festival di teatro in piazza di Santarcangelo.

CDC Fu un altro mio grande e antico amico Tonino Guerra, a fare il mio nome a un  funzionario RAI. E non posso non fermarmi per un attimo su di lui, oggi  giovane novantunenne passato attraverso prove durissime affrontate con forza, determinazione e coraggio. La nostra amicizia dura dal 1963, dalla fine degli anni sessanta un’amicizia quotidiana (quasi una telefonata al giorno) molto intensa, fatta di collaborazioni, iniziative, pubblicazioni ma anche di tante piccole cose, di respiri brevi. Compagni di grandi viaggi con mete esaltanti o piccoli viaggi per trovare un amico o per il gusto del cibo, condividendo sempre momenti felici e momenti tristi, anche gravi, e poi tante liti, tanti scontri, tantissime discussioni, tante risate. Una ricchezza.
Teatro in piazza, oltre a essere, finalmente, il mio primo lavoro per la RAI, fu un'esperienza molto interessante e anche una sfida. Questo tipo di evento che si svolge da tanti anni a Santarcangelo all’aperto implicava la necessità di muoversi in continuazione. Oggi è un gioco muoversi con la steadycam ma a quei tempi un Arriflex (sulla spalla del mio straordinario direttore della fotografia Maurizio Dell’Orco), era il massimo consentito, soprattutto per una piccola produzione come la nostra. Lavorammo ininterrottamente per dodici giorni, documentando un festival che sapeva davvero recepire e proporre  i gruppi e gli autori più sperimentali del teatro europeo dell'epoca, dal circo allo sperimentalismo. Rivedendolo oggi, mi sembra  un film  libero e arioso.

FR Parlami de La Repubblica Incanta. Come l'hai realizzato?

Il mio amico e collega Emidio Greco  aveva progettato per la RAI una “collana” di una decina di “programmi” (parola che si usa in tv)  “Uomini e idee del '900”, quasi certamente uno degli ultimi se non l’ultimo  progetto culturale del genere realizzato dalla RAI, la RAI vera di allora. Mi propose di realizzare un programma sulla cultura nella Repubblica di Weimar assieme ad Enrico Filippini. Fu l'occasione per diventare amici: Filippini è stato un amico con cui ho condiviso idee ma soprattutto un amico che mi manca perchè mi aprì la mente. Era un autentico intellettuale del nostro tempo, magnifico traduttore (sue traduzioni di Husserl, Benjamin, Dürenmatt, Frisch e anche  straordinario consigliere editoriale di Giangiacomo Feltrinelli - suo merito la “scoperta” della letteratura sudamericana e dei nuovi autori tedeschi).
Sono molto affezionato a La Repubblica Incantata,  a cui Filippini, oltre al titolo volle dare un identificante quanto provocatorio sottotitolo: Culture nella Germania di Weimar 1919/33. L'idea vincente fu quella di girare le principali opere della grande architettura Weimariana e di farne la struttura portante del film che parlava di  politica, di cinema, di teatro, di arte figurativa. In un mese, con Maurizio Dell’Orco e un organizzatore tedesco, attraversammo buona parte della Germania - da Norimberga a Lubecca, da Colonia a Berlino e poi all’est da Berlino a Potsdam, a Dessau per girare strutture architettoniche, ville e case popolari, fabbriche e quartieri.
In cinema non è facile dare volto all’architettura e occorre un metodo. Feci la scelta: cercavo di capire fino in fondo le costruzioni che avevo davanti, lo spazio intorno e il principio ordinatore che aveva ispirato l’architetto nel concepirla e che avevo studiato. Mi ricordo che fu un corpo a corpo con ogni opera per farmi quasi suggerire da essa stessa il modo di essere ripresa. E ognuna imponeva uno sguardo diverso. La genialità del testo di Filippini nel sostenere la tesi che Weimar sprigionò culture, ha ulteriormente accresciuto lo spessore del film aprendolo, credo, a una inedita dimensione saggistica.

FR  Non sembra un film italiano: non c'è nulla del provincialismo di certa nostra tv, ma piuttosto un rigore di analisi e un amore per la complessità che suscitano ammirazione. E sono gli stessi - uniti ad una tensione sperimentale inusitata per tv italiana - che si ritrovano ne Il fuoco della città. Com'è nato il progetto e come hai collaborato con un poeta - Roversi - e un musicista - Battistelli - riuscendo a tenere in tensione e a portare fino alla fine  una struttura così visivamente complessa?

Con Bologna - la mia città – ho sempre avuto e ho ancora,  un rapporto di odio-amore. Nel 1975  avevo girato un film documentario di un’ora, testo di Roversi, su Bologna, sindaco Renato Zangheri, per far vedere cos’era diventata la città e come le  esemplari amministrazioni comunali del dopoguerra l’avevano fatta crescere. Ma all'inizio del 1980 avevo finalmente maturato una mia idea, una mia immagine conclusiva della mia  città, dopo averla  pensata e cercata davvero per tanto tempo. Ero anche convinto che questa immagine doveva essere altra. Ecco la difficoltà, la scommessa. Fu l'incontro, a Santarcangelo, con i suoni del musicista sperimentale polacco Jan Kaczmarek (con un antico sitar, che  suonava seduto in posizione yoga) a sollecitarmi e suggerirmi l’idea de Il fuoco della città che consisteva nel costruire, sui  suoni che uscivano dal suo strumento, un’immagine  soltanto visiva della città. Ma mi domandavo però come fosse possibile senza un minimo di testo. E la voce, qualsiasi voce,  non rischiava di tradire l’idea visiva stessa? Dopo un incontro con Jan fui piuttosto deluso nel capire che non riusciva  proprio a entrare mentalmente nella struttura del mio progetto che andava costruito insieme, o forse io l’avevo chiara in testa, ma  non riuscivo a esprimerla. Spiegai il mio progetto a una amica che mi parlò  di Giorgio Battistelli autore allora della sua prima opera originale “Experimentum Mundi” che mi colpì molto. Consisteva nel riunire in scena i maestri artigiani di Albano Laziale con i loro strumenti di lavoro, concepiti come un’orchestra: ognuno  lavorava producendo nell’insieme strutture di suoni diretti da Battistelli, in un certo senso una sinfonia altamente suggestiva. Battistelli entrò subito nello spirito del film. Con lui scelsi gli strumenti e iniziammo le riprese. Un vero tour de force perché, seppure con una troupe ridotta, occorreva spostarsi di continuo, dentro la città, nel cuore del centro storico con tutte le difficoltà che ciò comportava, magari per rintracciare solo dei dettagli: una colonna, un capitello, un bassorilievo, l’arcata di un portico, l’affresco nel cortile di un palazzo. E poi, per girare le inquadrature in cima alla Torre dell’Arengo accanto alla Palazzo  Re Enzo, in Piazza Maggiore, portare Battistelli con i suoi strumenti e la troupe salendo gli oltre 200 scalini, unico passaggio accessibile per arrivare in vetta.

FR Mi sembra che ci siano due forze nel film, una in tensione con l'altra. Da una parte sono le immagini ad essere portate dal suono e dall'altra parte c'è come una controforza, e cioè è il suono che viene portato dalle immagini.

CDC Penso proprio di sì. Il film, montato, è formato da  275 inquadrature a stacco, con lenti carrelli che aiutano ad entrare nelle tre parti: pietre, foglie, gente. E per ogni parte uno strumento diverso: i gong, la marimba e un tamburo Darabouka. Il film finisce con il “libro celibe” di Battistelli che mi pare  sia una conclusione suggestiva: una performance, la sua, eseguita sotto la torre, dietro l'orologio di Palazzo d’Accursio (il Comune di Bologna), che conclude, in un quasi silenzio, il film. Roversi era costantemente avvisato delle modifiche e delle trasformazioni rispetto alla struttura originaria e in base a questo procedeva all’elaborarazione del testo, in assoluta libertà. Quando lo rapportai alle immagini, capii che le parole rendevano didascalico il film e qui ebbi l’illuminazione: solo un testo in poesia avrebbe potuto restituire in modo adeguato questo sguardo particolare su Bologna. Roberto vide il materiale e capì subito. Scrisse versi straordinari per forza, suggestione e stile. Ma l’illuminazione finale fu quella più importante e più giusta: dividere il testo, come in un film dell’epoca del muto, in tanti cartelli quanti la divisione delle parti lo richiedeva, scritti in bianco su fondo nero che si componevano parola dopo parola,  per farlo seguire con più attenzione dallo spettatore.

Carlo Di Carlo e il Presidente Napolitano 


LA “MENZOGNA” DI MARZABOTT O
Italia, 1961, 20 min, 35mm, b/n
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto e sceneggiatura: Carlo di Carlo, Agostino Bonomi,
Giuseppe Ferrara
Testo: Roberto Roversi
Fotografia: Claudio Racca
Musica: Roman Vlad
Montaggio: Pino Giomini
Produzione: Carlo di Carlo
Collaborazione artistica: Renata Viganò, Antonio Meluschi,
Roberto Roversi, Renzo Renzi
Voce: Nando Gazzolo
All’inizio del 1961 viene pubblicato un libello neonazista che
scagionava Reder e i suoi soldati da ogni accusa in merito
alla strage di Marzabotto per cui erano stati condannati. Il
giovane di Carlo, spinto da un’indignazione politica e storica
radicali, realizza un’opera che, rispondendo colpo su colpo
a quelle tesi negazioniste, mostra già in nuce le principali
caratteristiche del suo cinema. Il documentario è una scrittura
d’alta tensione etica, forgiata attraverso essenzialità e
rigore formale, aliena da sensazionalismo e non vincolata
alla mera cronaca: tanto più lo stile sarà sintetico e allusivo,
tanto più verranno lasciate allo spettatore libertà di lettura
e analisi, quanto più il film saprà trasformarsi in “cosa
mentale” e in strumento di critica della realtà. La struttura
è fondata su un impasto perfetto delle testimonianze dei
sopravvissuti, delle riprese dei luoghi della strage e della
lettura in voice-off di un testo del grande poeta Roberto
Roversi: una lezione di storia e di cinema.

TERRE MORTE
Italia, 1962, 10 min, 35mm, b/n
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto e sceneggiatura: Carlo di Carlo
Fotografia: Claudio Racca
Musica: elaborazioni di musica sperimentale e concreta
Montaggio: Renato May
Produzione: Enzo Nasso
Collaborazione artistica: Roberto Roversi, Aldo d’Angelo

Coevo dei tanti documentari etnografici italiani degli anni
’60, Terre morte se ne distacca per molteplici ragioni di forma
e di contenuto. Più che uno studio sul Gargano e i suoi
poveri abitanti, è un esperimento di linguaggio cinematografico
polimorfo e complesso: di Carlo, attraverso un insistito
e potente uso del teleobiettivo, non filma il paesaggio ma
l’idea di esso, gioca sapientemente sul rapporto fra figura
e sfondo e sfalda la grammatica filmica costruendo una
struttura volutamente deprivata di campi-controcampi. I volti
dei contadini parlano per la prima volta – talvolta volutamente
asincroni – nel loro dialetto e far loro da contrappunto c’è
un tessuto sonoro di ardita e inaspettata sperimentazione,
imbastito su trame di musica concreta: la denuncia politica
acquista maggior mordente perché viene risolta interamente
nella forma.

ISOLA DI VARANO
Italia, 1962, 9 min, 35mm, b/n
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto e sceneggiatura: Carlo di Carlo
Fotografia: Claudio Racca
Musica: elaborazioni di musica sperimentale e concreta
Montaggio: Renato May
Produzione: Enzo Nasso
Collaborazione artistica: Roberto Roversi, Aldo d’Angelo

Film gemello di Terre morte, ne riprende l’oggetto – ma
qui ai contadini si sotituisce una comunità di pescatori
pugliesi – e ne spinge ancor più in là la ricerca linguistica.
La musica concreta rende quasi inabitabile e astratto
un paesaggio fatto di povertà e abbandono: il dialetto
si trasforma in puro significante perché non c’è ombra
di populismo né nostalgia nell’uso che ne viene fatto,
ma bensì seria ricerca e analisi semantica. La tristezza
politica che ci assale è resa ancor più forte dal ritmo visivo
delle immagini, un tessuto di linee intersecate fra loro
ed orizzonti che imprigionano gli abitanti dell’isola e si
spezzano solo nell’ondeggiare inquieto dell’acqua. Non c’è
racconto né grammatica filmica che possa tenere la nudità
estrema del linguaggio nel suo farsi e disfarsi: anche la
luce e il colore sono state lavorate fino a raggiungere
un’essenzialità spoglia e desaturata. Il lungo finale,
che è una ricostruzione di montaggio come se fosse un
piano sequenza, studiato e realizzato con Renato May,
chiude circolarmente il film, ed è un pezzo di cinema
indimenticabile.

VIVERE CON LA BOMBA
Italia, 1963, 10 min, 35mm, col
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: Carlo di Carlo, Roberto Roversi
Testo: Roberto Roversi [la poesia La bomba di Hiroshima
da Dopo Campoformio, Feltrinelli]
Fotografia: Michele d’Ilio
Musica: elaborazioni di musica sperimentale
Montaggio: Carlo di Carlo
Produzione: Opus Film
Collaborazione artistica: Gianfranco Salina, Aldo d’Angelo
Voce: Giancarlo Sbragia

Film-poema di dura denuncia politica e urlo contro il
“civilizzato” mondo moderno. Di Carlo, innamorato della
splendida poesia La bomba di Hiroshima dell’amico Roberto
Roversi, decide di metterla in immagini seguendone
non solo l’oggetto di analisi ma soprattutto la forma.
L’espressionismo linguistico di Roversi viene declinato
attraverso una struttura ritmica iterativa ed un uso del
primissimo piano che seziona allo stremo la grana delle
immagini fotografiche d’archivio che documentano i
corpi bruciati e i paesaggi isteriliti dalla bomba nucleare
americana. La forza emotiva esplode e ci grida profeticamente
che “la notte non finisce ad Hiroshima”.

TEREZÍN
Italia/Cecoslovacchia, 1965, 28 min, 35mm, b/n e col
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto e sceneggiatura: Carlo di Carlo, Arnošt Lustig
Fotografia: Milan Horvatòvič
Musica: a cura di Vittorio Gelmetti
Montaggio: Roberto Perpignani
Produzione: Emanuele Cassuto
Collaborazione artistica: Aldo d’Angelo
Testimonianze: superstiti del ghetto di Terezín

Dal 1942 al 1944 abitarono a Terezín, un ghetto
modello che Hitler volle “donare” agli ebrei,
quindicimila bambini: fu per loro l’ultima casa
prima di Auschwitz. Di loro ci restano alcune
poesie ed oltre quattromila disegni: di Carlo realizza
un importante film-inchiesta intervistando
alcuni fra i pochissimi sopravvissuti e lavorando
sul campo con il prezioso aiuto del grande
scrittore ceco Arnošt Lustig. La toccante poesia
delle immagini realizzate dai bambini – filmate
a colori e quasi animate a passo uno – trova un
perfetto contrappunto sonoro nelle musiche di
Vittorio Gelmetti – struggenti canti yiddish – e
nella libertà di una macchina da presa che sa
far emergere da strade, piazze e volti l’orrore
che è stato.

ATTO SENZA PAROLE 2
Italia, 1966, 12 min, 35mm, b/n
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: dal mimodramma Acte sans paroles II
di Samuel Beckett
Fotografia: Angelo Bevilacqua
Effetti musicali: Sergio Pagoni
Montaggio: Gabriella Vitale
Produzione: Gruppo Ferranti
Collaborazione artistica: Alessandra Bocchetti
Interpreti: Cosimo Cinieri, Leo De Berardinis

“Di Acte sans paroles II Carlo di Carlo non realizza
una semplice versione cinematografica [...] ma inventa
un linguaggio filmico appropriato al testo. [...] L’adattamento
dei due protagonisti alla realtà e agli impulsi
esterni e fisici che li spingono all’azione, vengono
espressi per mezzo di continue effrazioni alle norme
di ripresa cinematografica, rallentandoli in relazione
all’uomo attonito fino alla stupidità, e invece accelerandoli
in relazione all’uomo integrato e soddisfatto di
se stesso. La giustapposizione successiva dei dettagli
“taglia” la consuetudine del gesto teatrale, che si
presenta invece sempre unitario e stilizzato. È questo
gusto di Carlo di Carlo per il dettaglio che arriva a
definire uno spessore materico logorato agli oggetti”.
(Alberto Boatto)

PIER PAOLO PASOLINI: CULTURA E SOCIETÀ
Italia, 1967, 20 min, 16mm, b/n
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: Carlo di Carlo
Fotografia: Angelo Bevilacqua
Fonico: Carlo Tarchi
Montaggio: Giuseppe Da Subiaco
Produzione: Unitelefilm per la serie Primo Piano
Collaborazione artistica: Alessandra Bocchetti

Un “Primo piano” intimo e fraterno di Pier Paolo
Pasolini, realizzato da un suo stretto collaboratore e
amico dell’epoca. La macchina da presa accarezza
amorevolmente il volto e i gesti del grande
scrittore-regista senza ingabbiarlo in una forma e
in una narrazione precostituita: ne accoglie in toto
le provocazioni politiche e le impennate polemiche,
i ricordi di gioventù e i dettami di poetica. Il ritratto
a tutto tondo dell’uomo e dell’artista è incorniciato
dalle immagini che aprono e chiudono il film: girate
sui luoghi di Mamma Roma, contestualizzano con
efficacia le parole di Pasolini, infondendo in esse, attraverso
una forma totalizzante – il piano sequenza
– la dura concretezza della vita.

L’INVASIONE DEL TEATRO
TEATRO IN PIAZZA A SANTARCANGELO
Italia, 1979, 77 min, 16mm, col
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: Carlo di Carlo
Parole introduttive: Tonino Guerra
Fotografia: Maurizio Dell’Orco
Suono: Roberto Petrozzi
Montaggio: Raimondo Crociani
Produzione: RAI, Terza rete, Sede regionale
dell’Emilia Romagna
Consulenza teatrale: Ugo Volli

Tonino Guerra, con le sue parole incantate, ci introduce
al mondo di Santarcangelo: un borgo medievale
romagnolo ogni anni invaso da migliaia di persone
venute da ogni dove per seguire il Festival di Teatro
di Piazza. Siamo alla fine degli anni ‘70, c’è ancora
un clima di festa e di carnevale – il ‘77 bolognese è
passato da due anni – ma si percepisce nell’aria che
presto tutto cambierà. La macchina da presa coglie
volti e gesti del pubblico e documenta con attenta
precisione performance circensi e messe in scena
quasi religiose delle compagnie teatrali più diverse: la
curiosità dell’occhio e la mobilità dell’intelligenza trasformano
un semplice reportage in un’opera aperta, in
un esperimento di cinema fusionale e al tempo stesso
autoriflessivo.

LA REPUBBLICA INCANTATA
CULTURE NELLA GERMANIA DI WEIMAR 1919-1933
Italia, 1980, 60 min + 65 min, 16mm, b/n e col
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: Carlo di Carlo, Enrico Filippini
Testo: Enrico Filippini
Fotografia: Maurizio Dell’Orco
Musica: Arnold Schönberg, Alban Berg
Montaggio: Raimondo Crociani
Produzione: Carlo di Carlo per RAI, Secondo Canale tv per la collana
diretta da Emidio Greco e Vittorio Marchetti Uomini e idee del ‘900
Voci: Antonio Colonnello, Ludovica Modugno

Film-saggio polifonico e stratificato su
uno dei periodi storici decisivi del ‘900: il
laboratorio artistico e politico di Weimar
viene affrontato su molteplici livelli e
attraverso un montaggio che crea echi e
spazi di riflessione, liberando la struttura
da costrizioni didattiche e trovando una
forma di cinema pensante lontano da
ogni riduttiva ideologia. L’architettura, la
pittura, il cinema e il teatro sono le materie
prime di un impasto intellettuale di cui si
danno gli elementi ma la cui “cottura” è
affidata allo spettatore: il penetrante e
ricchissimo testo di Enrico Filippini – grande
intellettuale prematuramente scomparso,
germanista, scopritore della nuova letteratura
sudamericana e tedesca per Feltrinelli,
traduttore tra gli altri di Husserl, Benjamin,
Grass, Dürrenmatt, Frisch – guida le
immagini e innerva lo spazio architettonico,
filmato con rara sensibilità. È un filmcostellazione,
pieno di reminiscenze e
profezie: un esempio da seguire.

IL FUOCO DELL A CITTÀ
Italia, 1982, 54 min, 16mm, col
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: Carlo di Carlo
Testo in poesia: Roberto Roversi
Fotografia: Maurizio Dell’Orco
Musica: Giorgio Battistelli
Suono: Dino Raini
Montaggio: Carlo di Carlo, Tullio Pascucci
Produzione: RAI, Terza rete, Sede regionale dell’Emilia Romagna
Con il musicista compositore Giorgio Battistelli

Film-poema e film-sinfonia su Bologna: “una città
intesa come un corpo non spento ma vivo di pietre
foglie facce [...] il modo è stato quello di avvicinare
singolarmente e poi di riavvicinare insieme, con un ritmo
narrativo di eccezionale rigore ‘foglie pietre gente’
di questa patria padana quasi a comporre il costato
liscio e fragile ma generoso e resistente di un santo
martirizzato; e di ascoltare la musica affascinante di
Battistelli quasi fosse una freccia avventata e infilzata
in quella carne viva non per sconfiggere ma per tenere
uniti questi lacerti intrappolati e aggrediti dall’occhio e
dal suono, alle volte con un’attenzione puntigliosa ai
particolari. [...] La città è compulsata ma non è mai accettata;
è discussa mai celebrata”. (Roberto Roversi)

ANTONIONI SU ANTONIONI
Italia, 2008, 55 min, video, b/n e col
Regia: Carlo di Carlo
Soggetto: Carlo di Carlo
Musica: “Stroll On” di The Yarbirds (da Blow up);
“Concerto di Aranjuez” di Joaquín Rodrigo e Manuel de Falla
(da Professione reporter)
Suono: Gilles Barberis
Montaggio: Laura Pavone
Collaborazione alla ricerca immagini: Ciro Giorgini
Produzione: Cineteca del Comune di Bologna;
in collaborazione con Rai Teche, Rai Trade, Mediaset
Post produzione: L’Immagine Ritrovata

“Antonioni su Antonioni propone immagini di archivio RAI, da me
registrate negli anni durante la loro messa in onda, assieme a
molti significativi interventi di Antonioni a programmi e trasmissioni
RAI che costituiranno il tessuto narrativo di un ritratto inedito
di Antonioni. Sono immagini che coprono un arco di trent’anni,
viste dal pubblico forse una sola volta nei tg, nei servizi speciali
televisivi, o in finestre di contenitori di programmi tv oltre ad
estratti dell’ultima sua apparizione pubblica nel dicembre 1985,
prima della malattia, al “Costanzo Show”. Queste immagini, nel
loro insieme, oltre a conservare il sapore del tempo, raccontano
un Antonioni che riflette e ragiona sul lavoro e sulla vita,
mettendosi continuamente in gioco, pronto a difendere fino in
fondo, con tenacia e coraggio, le sue scelte, con un occhio vigile
e anticipatorio delle trasformazioni e del futuro. Parole pensieri
argomentazioni che compongono una rara testimonianza di un
autore che, pur avendo consentito raramente di raccontarsi, si
scopre di non essere mai stato reticente, nemmeno verso se
stesso.Dunque un Antonioni intimo, talvolta timido e imbarazzato,
perfino impacciato e severo davanti ai microfoni del suo
interlocutore, ma poi subito disponibile, cordiale, gentile, ironico
e spiritoso. Ho pensato che questo film, dopo più di quarant’anni
di sodalizio con Michelangelo, fosse per me il miglior modo di
ricordarlo e di consegnarlo con affetto alla moglie Enrica”.
(Carlo di Carlo)