Il 12 e 13 marzo, oggi e domani, a Roma si proietta un film formidabile e imperdibile, “Rabin The Last Days”, reduce dalla Mostra di Venezia ma ancora senza distribuzione in Italia, proprio come l’altro importante capolavoro dell’anno, “Mediterranea” di Jonas Carpignano. Poi si dice che il nostro pubblico non va più al cinema come una volta. Non sarà piuttosto una forma di disubbidienza civile?
L’iniziativa benemerita di presentare questa formidabile lettura di un nodo geopolitico fondamentale della contemporaneità (l’assassinio di Rabin ha cambiato il mondo e nonha solo allontanato la soluzione del conflitto israelo-palestinese) è del Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo, e della direttrice Giovanna Melandri che ha presentato giovedì 11 marzo scorso, assieme ad Amos Gitai e a Hou Hanru, cui si deve l’imput della mostra, “Chronicle of an Assassination Foretold”, Cronaca di una morte annunciata, seconda parte del progetto dedicato a Yitzahk Rabin, premio Nobel per la pace e allora primo ministro, a 21 anni dall’assassinio.
Il trittico comprende infatti oltre al film, l’allestimento, ad Avignone, di uno spettacolo teatrale, e una mostra itinerante (prossima tappa a giugno, al Bozar di Bruxelles che coproduce) che ha proprio a Roma la sua anteprima. Fino alla metà di giugno è infatti allestita, nella sala Gian Ferrari del Maxxi (accuratamente “riedificata” da Gitai che è oltre che cineasta architetto e figlio di un architetto Bauhaus), l’istallazione che comprende 5 proiezioni. Tre video sull’uccisione di Rabin e le due grandi manifestazioni pro Rabin (1995) e anti Rabin (1994 e 1995) separate da un muro eretto da Gitai per dividere destra e sinistra israeliana, chi vuole la guerra e chi vuole la pace, chi vuole imporre la propria volontà di potenza (tecnologicamente assistita) e chi vuole negoziare un modello di convivenza dopo 70 anni di odio fratricida. Inoltre Gitai si rivela anche scultore perché è suo un “presepe laico” composto da 25 elementi in terracotta bianca, le anime belle della tragedia, “Manifestants pur la paix, Place des Rois d’Israel Tel Aviv, 4 novembre 1995”, le sui ombre vengono proiettate su un angolo della sala, e per sempre. Sempre di Gitai sono tre collages e la “Série sur l’assassinat d’Yitzhak Rabin”, composta da 9 fotografie che richiamano la costruzione del film. Il collage più impressionante è quello che racconta la macchina del fango contro Rabin, il lavaggio di cervello attuato dai giornali conservatori per aizzare all’odio e al linciaggio di un uomo politico rappresentato nei fotomontaggi via via come nazista, traditore, spia, membro dell’Olp travestito…La parte sonora è affidata a Jeanne Moreau e Hanna Schygulla. L’attrice francese legge “I figli della luce contro i figli delle tenebre” dalla “Guerra giudaica” di Flavio Giuseppe; mentre l’attrice tedesca canta Yet Each Man Kills The Things He Loves, dalla “Ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde, con musiche di Markus e Simon Stockhausen (dal film “Metamorphosis of a Melody” di Amos Gitai). Il suono registrato degli spari dell’assassino e, in terra, tante sagome di corpi senza vita, ricoperti da plastica nera, come tracce dei tanti morti del conflitto, di qua e di là del Muro, completato il viaggio “topografico” nella memoria, che è anche la cifra strutturale del suo lavoro di cineasta capace di sondare le dinamiche storiche del mondo e del Mito dando energia e nuova vita al perdente e al rimosso. Chi non conosce Gitai potrà ammirare oggi “Esther” (19886) e domani Kadosh (1999) e Kippur (2000) in doppia proiezione alle 18.30 e 21 al prezzo di 7 euro (ridotto 5).
Giovanna Melandri ha spiegato inoltre che questa mostra-omaggio si colloca in una più ampia linea di ricerca a tutto campo che il Maxxi sta sviluppando dal 2014 a partire dalle culture mediterranee e mediorientali, e che ha toccato in questi mesi, oltre all’artista israeliano dissidente Gitai, l’arte contemporanea iraniana e turca (fino all’8 maggio) e si concentrerà nel 2017 sul Libano e sui tesori richiusi (finora) nelle segrete del Museo d’arte contemporanea di Tehran, Picasso, Modigliani, Matisse, Van Gogh, acquistata da Farah Diba e oggi finalmente “liberati”. Si potrebbe commentare: non c'è un ritardo colpevole, di almeno trenta-quaranta anni, delle nostre istituzioni culturali, Rai compresa, a proposito della diffusione della cultura e dell'arte "dirimpettaia" così strettamente legata alle scaturigini della nostra? Questa svolta benemerita di sensibilità è merito solo di Zaha Hadid, l'architetta irakena che ha costruito il Maxxi e di Giovanna Melandri che ne sta subendo le suggestion ispaziali? O si spera che il Maxxi diventerà nei prossimi tempi il luogo privilegiato di incontri scontri scambi e sovrimpressioni tra oriente e occidente, Black Athena e White Athena? C'è tutto un tesoro nascosto, per esempio, di film italiani d'Egitto o turchi d'Italia da riscoprire e socializzare.....
Amnos Gitai |
di Roberto Silvestri
Vogliamo riconoscerlo questo stato palestinese, per quanto sempre più piccolo sia diventato nel corso dei decenni? E riavviare trattative di pace?
E' dal 1948 che l'Onu (l'Italia postfascista non ne era stata ancora ammessa) ha chiesto la proclamazione e l'esistenza della Palestina indipendente. Ma Egitto e Giordania, allora, si opposero (e l'intero mondo arabo: nessuno tocchi il territorio sacro ad Allah!). E tutt'oggi molte organizzazioni sia di ebrei ortodossi che di islamisti tuonano contro - a parole, a fatwa, e con le armi - gli accordi di Oslo stipulati da Rabin e Arafat che ne riavviarono la possibilità. Non vogliono il riconoscimento di questo stato, anche se è diventato via via quasi un bantustan (che, anche grazie al muro, Israele intanto continua a rosicchiare). Senza dimenticare altre organizzazioni di ebrei superortodossi che considerano blasfema l’esistenza stessa dello stato di Israele.
Credo che Hamas e la sinistra radicale palestinese siano infastiditi, ancor più dei kassidici, ogni volta che la Francia, la Svezia o altri paesi d'Europa o la Ue riconoscono ufficialmente questo stato palestinese.
Eppure. Due stati, due popoli. Almeno questo, visto che non è più pensabile, nell’epoca dominata da Nethanyahu e Isis, uno stato unico non confessionale, laico e per tutti. Meglio far fuori Arafat e Rabin, prima che arrivi Obama.
Così, con la scusa che gli arabi non mai hanno accettato la proclamazione dello stato di Palestina così come era disegnato nel 1948, Knesset e esercito israeliano, nonostante le tante deliberazioni contrarie dell'Onu, continuano a fare i palazzinari, a erigere muri, a scavare, provocatoriamente, come Indiana Jones, sotto la Moschea, a distruggere case, rubare appartamenti, istigare coloni, armarli e proteggerli, e mangiare la terra altrui. Contro chi si può difendere solo a sassate e poco altro (dirottamenti spettacolari non se ne possono fare più). Likud e laburisti israeliani non li considerano affatto territori occupati. Occupati a chi?
Adesso, con la distruzione dell'Iraq e della Siria e con la fuga delle popolazioni in Europa perfino la profezia biblico della Grande Israele "Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume dell'Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate" (Genesi 15,18), rievocato sinistramente nel kolossal esotico di Ridley Scott Exodus, potrebbe trasformarsi in realistico e sinistro progetto. Grazie all’Isis e all’antisemitismo uno stato confessionale si troverebbe a fronteggiare un altro stato confessionale (l’Iran)…
Ma questo inquietante scenario è stato provocato da un piccolo, semplice gesto. La notte del 4 novembre 1995. Quando Yigal Amir, un venticinquenne ebreo iperortodosso e piuttosto psicopatico, affiliato al Kach, partitino di estrema destra che teorizza l'eliminazione fisica di tutti i musulmani da Israele, colpì a morte, con tre pistolettate (una a pallottola esplosiva), il primo ministro di Israele Rabin ("un rodef, un traditore, un novello Hitler, un Arafat travestito, un infame!") reduce da una trionfale manifestazione in appoggio del suo governo e per la Pace.
Lo uccise senza troppe difficoltà logistiche, nell'indifferenza operosa del Mossad, della polizia e delle guardie del corpo. Probabilmente era pure vivo, dopo i colpi, ma ci misero qualche minutino di troppo per portarlo in ospedale. "La Cisgiordania non si regala. Hebron la vogliamo noi". Sappiamo cosa succede da mesi a Hebron....Quel che combinano i seguaci codardi di Baruch Goldstein, quelli che non dicono mai West Bank e striscia di Gaza ma Yesha.
Amos Gitai ha costruito e ricostruito su questi fatti un superbo film. Il più importante dell’anno. E non se la cava dicendo che la notte dell'omicidio, in alcuni ristoranti kosher, sono stati trovati alcuni volantini sparsi firmati da gruppuscoli di estremisti che aizzavano all'omicidio. Ma parla di una vera campagna di linciaggio politico, criminale, possente, continuata, articolata e organizzata.
Che stranezza. La commissione di inchiesta non riuscì a provare l’esistenza di alcun complotto. Perché non ci fu. Non c'era bisogno. Il verdetto fu giusto: “gesto isolato”. Come quello di Oswald. Eppure il film inchiesta di Amos Gitai Rabin the last days ci racconta di un paese diviso, spaccato completamente in due. Da materiali di repertorio che non ricordavamo scopriamo che Netanyahu coordinava, strumentalizzava e portava in minacciosa piazza, un vasto fronte politico e religioso che chiedeva la messa a morte della politica di Rabin. E ovviamente, sottinteso, del suo leader. Sembra quasi Cecil De Mille, il re dei re, la fanatica richiesta di crocifissione di un pericolosissimo pacifista.....Con tanto di fatwa ebraica. Che non so se chiami Halakhic o in altri modi perché le sfumature chassidiche sono troppo complicate e Gitai non le chiarisce bene....Si tratta di un tipo specifico di fatwa, applicata nella storia solo in due casi, ci ricorda Gitai. Contro Rabin e contro ...Trotsky (la racconterà in un prossimo film? speriamo). Un lavoro, questo di Gitai, che in effetti aspettiamo proprio da 20 anni. Sappiamo quanto il regista stimasse Rabin, fino al punto da traslocare e rientrare in Israele dall'Europa nonostante il tradimento, quello sì, del sogno socialista, del movimento kibbutz. E lo considerasse un’anomalia salutare, quasi impensabile dentro il partito laburista. Ma.
Yitzhak Rabin |
Come ogni film politico riuscito Rabin the last days si prende la responsabilità più che di moltiplicare domande, da giornalisti che fanno dell’oggettività una stolida ideologia, di dare alcune risposte, e molto preoccupanti. E, anche al di là della commissione di inchiesta Shamgar sull'omicidio, le cui sedute e interrogatori vengono ricostruiti con filologica cura (e con la partecipazione di attori splendidi come Yael Abecassis, spesso al fianco di Gitai), che negherà l'esistenza di un complotto organizzato dall'estrema destra religiosa (cosa che avrebbe comunque fatto molto comodo al Likud per lavarsene le mani), ci spiega alla perfezione chi ha ucciso davvero Rabin, al di là dei tre colpi di pistola. Metà paese lo voleva morto. Quella metà che considera transeunte lo stato di diritto e le regole costituzionali di una democrazia moderna. E pretende, come a Ryad e come a Doha, e come nella Mosca di Putin, la "sharia" come fonte unica del diritto. La Torah, ma mi raccomando interpretata come diciamo noi.
la commissione di inchiesta |
Sono sicuro che Ygal Amir sarebbe d'accordissimo con la ricostruzione fatta da Gitai. Non sono sicuro che Netanhyau, che lo ha subito nelle sale, invece apprezzerà. Eppure il film parla proprio di quella terra che potrebbe sperimentare qualcosa di inedito per tutto il mondo. Una no man's land fertile. Scrive Agamben: "Si tratta realmente di identificare questa zona, questa «no man’s land» che starebbe tra un processo di soggettivazione e un processo contrario di desoggettivazione, tra l'identità e la non identità. Bisognerebbe identificare questo terreno, perché questo terreno sarebbe quello di una nuova biopolitica". Testimoniare quello che succede in questa no mann's land è il compito di Amos Gitai.
Il testimone non testimonia nient'altro se non la sua stessa desoggettivazione, sua e del "nemico" semita, a lui così prossimo. Lo "scampato" (non ai campi ma alla guerra del ippur) Gitai testimonia soltanto "per i Musulmani". E i musulmani, qui e ad Aushwitz, direbbe Agamben, sono Der Muselman, il «musulmano» designa, nel gergo dei campi di sterminio, l’uomo-mummia. il morto vivente, colui che cha cessato di lottare, che perso qualsiasi coscienza e volontà. Questo termine rimanda probabilmente al senso letterale del termine arabo «muslim», che significa «colui che si sottomette senza condizione alla volontà divina». Secondo l’Enciclopedia Judaica, potrebbe provenire «dall’atteggiamento tipico dei suoi detenuti, rannicchiati da soli, con le gambe piegate nel modo orientale, il viso rigido come una maschera». Per Giorgio Agamben, “il musulmano” è il nome dell’intestimoniabile: «Il testimone testimonia inizialmente per la verità e la giustizia, che danno alle sue parole consistenza e pienezza. Ora invece la testimonianza vale essenzialmente per ciò che gli manca; porta nel suo cuore questo “intestimoniabile” che priva i sopravvissuti di qualsiasi autorità. I «veri» testimoni, i “testimoni integrali”, sono coloro che non hanno testimoniato e che non avrebbero potuto farlo. Sono “coloro che hanno toccato il fondo”, «i «musulmani», i sommersi. I sopravvissuti, pseudo-testimoni, parlano al loro posto, in delegazione – testimoniano di una mancata testimonianza. Ma parlare di delegazione qui non ha alcun senso: i sommersi non hanno nulla da dire, nessuna istruzione o memoria da trasmettere. Non hanno né “storia” (...), né viso, né pensiero. Chi si fa carico di testimoniare per essi sa che dovrà testimoniare dell’impossibilità di testimoniare».
l'omicidio |
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