venerdì 27 febbraio 2015

Maraviglioso Boccaccio, cinque sfumature del Decameron

Carolina Crescentini
Mariuccia Ciotta

Perché i fratelli Taviani si rivolgono a Boccaccio? E dopo il Decameron di Pasolini ('71)? I registi premiati con l'Orso d'oro per Cesare deve morire sembrano lontani da novelle e linguaggi “licenziosi” attribuiti allo scrittore trecentesco. I cento racconti da “mille una notte”, però, parlavano soprattutto d'amore, più forte della peste di Firenze e anche degli uomini in nero di oggi che, come allora, scavano fosse comuni per seppellire la vita e l'arte.
E di amore si parla.
Maraviglioso Boccaccio è una risposta cromatica alle “cinquanta sfumature di grigio” (inerte tentativo “boccaccesco” di accendere i sensi) e di sfumature ne sceglie cinque per tessere una trama di sensualità come forma di resistenza alla morte. 


A rischio di effetto filodrammatica, i registi si pongono la questione del testo letterario a contatto con i fotogrammi, così come ha fatto Paul T. Anderson in Vizio di forma da Pynchon e prima ancora David Cronenberg con Cosmopolis di DeLillo. Il coro degli attori, dalle star (Crescentini, Riondino, Rossi Stuart, Scamarcio, Smutniak, Trinca...) ai giovani “ronconiani”, traccia una linea parallela -  dialoghi dichiaratamente scollati dalle immagini - così che i versi aulici risultano straniati.
L'attualità non sta tanto nella metafora per aggirare un discorso etico sul presente - “avevamo voglia di avvicinarci ai nostri giovani e a questo presente brutale che li esaspera” - ma nella ricerca di un cinema che rivitalizzi i suoi canoni espressivi, che si rimetta in forma.

Ogni cosa trasmette nel film questo tentativo, nella geometrica sontuosità dei costumi - magnifica “sfilata” di Lina Nerli Taviani da far invidia agli stilisti più in - alle coreografie disegnate tra prati e castelli di Toscana e Lazio. Tutto dentro un laboratorio dal sapore pre-raffaellita, che proprio al décor rinascimentale opponeva le sue figure “primitive” iper-colorate, segni di nostalgia e al tempo stesso movimenti di fuga e di rinnovamento.
Nel rimescolare le novelle di Boccaccio, narrate da dieci giovani (sette donne e tre uomini) fuggiti dalla Firenze pestilenziale, il film tocca punti emozionalmente alti, sempre sul crinale di un estetismo da “belle statuine”, come nel racconto di Catalina (Vittoria Puccini), creduta morta di peste, abbandonata in una chiesa dal marito, e “resuscitata” da Gentile Carisendi (Riccardo Scamarcio) innamorato da sempre, e che i Taviani femministi riscrivono: la bella, incinta, non tornerà a casa, ma in un fermo immagine degno di Dante Gabriele Rossetti resterà con il suo salvatore. E ancora, tra il thriller e il melodramma, l'episodio con Jasmine Trinca-Giovanna, scolpita nel marmo, la donna adorata da Federico degli Alberighi (Josafat Vagni) che per lei sacrifica l'unico affetto che gli è rimasto, un falco, come in una ballata di De André.
L'azzardo del mash-up di Maraviglioso Boccaccio s'infrange, però, nella colonna sonora, vibrazione elettroniche e sound contemporaneo coniugati con Rossini, Verdi, Puccini, un'ondata fragorosa che si abbatte sullo schermo e sul delicato equilibrio di un film avvolto nella bella luce di un cinema che ha ancora il desiderio di se stesso. 
Vittoria Puccini
 

giovedì 26 febbraio 2015

Solo oggi 27 febbraio in tutta Italia lo Xavier Zanetti Day. Per interisti e non solo. Un film di Carlo A. Sigon e Simone Scafidi




di Roberto Silvestri

Solo chi cade può risorgere. E l’Inter conosce molto bene questo tragitto. Che la resurrezione la debba però soprattutto a un campione di umiltà oltre che di classe, a una persona speciale che ha lottato ogni istante per essere giusto e generoso fa capire che non stiamo parlando di José Murinho. Ma senza un’anima generosa e di correttezza démodé anche il più grande stratega cinico del calcio moderno, il primo fenomenologo del football, avrebbe trovato la sua Waterloo….Solo oggi, alle 20.30 in 170 sale di tutta Italia, ma in un solo spettacolo-evento per interisti e per non interisti, da non mancare il film Zanetti, capitano da Buenos Aires. Il ritratto di un asso del calcio “estremamente normale”, pagmatico con la testa sulle spalle e mai un capello fuori posto, che inizia a Buenos Aires qualche decennio fa, ma non è privo di lati sorprendenti e perfino dark…
L’Indipendiente lo scarta. E non senza ragione… è troppo fragile e delicato. La vera ragione, certo inconscia, è però un’altra. Anche se il team argentino ne è ancora inconsapevole. E Xavier Zanetti, detto Pupi, non molla. Viene da una famiglia proletaria. E’ ostinato. Lavora duramente da cucciolo per sbarcare il lunario, ma si allena sempre. Corre come nessun altro mai, lo farà ogni volta che può, è un perfezionista appassionato e crede profondamente nelle sue qualità tecniche. Proprio come la sua compagna di allora, che è anche quella di oggi, Paula. Zanetti, 618 presenze nel nostro campionato, un record, diventerà un fuori classe, il difensore-incontrista insostituibile della nazionale argentina - nonostante alcune divergenze con il compagno capitano allenatore Maradona - ma anche il cursore instancabile, il pilastro etico e il simbolo atletico della squadra che aveva avuto dei vecchi conti in sospeso proprio con l’Indipendiente: l’Internazionale di Milano. La squadra italiana che raggiunge, quasi per caso, come seconda scelta, nel 1995, a 22 anni, e che trent’anni prima proprio l’Indipendiente aveva affrontato, odiato e malmenato in una famigerata finale di Supercoppa, degna di un gangster movie. 




Quando si ritira, a 40 anni, dopo un match contro la Lazio, partita 858 in nerazzurro, capitan Zanetti ha vinto più titoli di Angelillo, Picchi e Facchetti. 5 scudetti, 4 coppe Italia, 4 Supercoppe, 1 Coppa Uefa, 1 Champions League e 1 Coppa del Mondo per Club Fifa. E’ diventata una delle leggende del calcio mondiale. Un atleta amato dai suoi compagni e rispettato perfino dagli avversari.  Ha sempre la battura pronta e il sorriso più veloce della smorfia polemica di disappunto. Non ricordo un solo “vaffa” di rilievo contro gli arbitri, odioso contrappunto ormai (pensate a Lichtsteiner) a ogni fischio da fallo spudorato: “come osa? lei non sa che conto in banca svizzera ho io!”. Zanetti, indimenticabile numero 4, ha inoltre elaborato alcune tecniche di controllo palla e ripartenza spiazzante, facili da ammirare e studiare in tv, ma impossibili da fermare in campo. Quella coppa di Champion League, innalzata sul terreno l’anno della “triplete di Mourinho”, stamperà sul suo volto un’indelebile maschera, misto di disumana felicità e deformata soddisfazione, che nessun tifoso nerazzurro e nessun appassionato di calcio potrà mai dimenticare. Altro che buonismo. Come una canzone dolce e roca di Tom Waits. Grande canterino, Zanetti, infatti. Anzi. “La sua vera passion segreta” conferma la moglie. Per il compagno di squadra e connazionale Cordoba: “Guardate che Pupi è il più pazzo di tutti noi”. E quando José Mourinho ne deve parlare, rievocando con parole perfette, da analista profondo, la sua insostituibile presenza in campo e nello spogliatoio, non può fermare qualche lacrima di commozione. Senza Xavier, niente miracolo: vincere tutto con una grande squadra dell’Olimpo, come Real Madrid, Barcelona o Bayern o Manchester è scontato, ma con la squadra più scapestrata dell’Olimpo, l’Inter, macchina masochista di insuperabile perversione, diventa davvero un’impresa mitologica. Solo apparentemente dunque la storia di Javier Zanetti, raccontata in questo imperdibile documentario diretto dagli interisti Carlo A. Sigon e Simone Scafidi, è quella di un campione “normale”. E’ invece quella di un “diversamente super eroe”. Ha salvato dalla disperazione nera milioni di interisti infelici.

José Murinho
Il ritratto a tutto tondo tracciato da una trentina di intervistati  tra amici di infanzia, parenti, colleghi e intellettuali italiani e argentini, sarà però più sorprendente di quanto non ci si possa aspettare. I “normali” interisti in fondo fermarono e piegarono i fenomeni del Barca applicando la formula di Kropotkin per spiegare l’evoluzionismo. Non è il più forte che vince. Ma Solidarnosc. Il gruppo capace di solidarizzare. E ci vuole a vuole un grande Capitano per cementare lo spirito di squadra … Inoltre. Si può essere eccentrici e solidali, e anche campioni di abnegazione come Zanetti, per esempio pignoli del dettaglio e del pressing perfetto in sede di intervista, anche girando un film…Filmando per divertirsi, sempre con la cinepresa attenta in mano, si può scavare meglio nei segreti del proprio soggetto che puntando sull’agiografia sterile. Anche perché il vero mago del racconto è uno scrittore argentino, affabulatore straordinario, e come ogni realista sudamericano un po’ magico e misterioso, come Albino Guaron, che dribbla ogni iniziale perplessità del non ultras interista: “cosa ci vuole a scrivere un libro su Che Guevara o Gesù Cristo? Che fantasia serve per fare un film su Diego Maradona?” e copre dietro i suoi interventi anche il tradizionale riserbo del Capitano, modesto sempre, figuriamoci quando si parla di lui e anzi si tratta di parlare…Non a caso Guaron sta scrivendo un romanzo proprio su Zanetti.  E nelle ultime scene del film i due confabulano a microfono spento, come Ghezzi con Pelesian nel film di Pietro Marcello.  L’evento cinematografico, prodotto da Luchino Visconti di Modrone è distribuito in diretta via satellite da Inter e Nexo Digital in collaborazione con Pirelli e con i media partner Gazzetta dello Sport, Radio Italia, MYmovies.it, e scodellerà gli interventi di Massimo Moratti, Roberto Baggio, Lionel Messi, Esteban Cambiasso, Ivan Ramiro Cordoba, Sebastian Rambert, Sandro Mazzola, Giuseppe Bergomi, Leonardo, e dei super fan Gad Lerner, Fiorello, Michele Serra e Beppe Severgnini. E serve anche a lanciare una iniziativa lodevole, la Fondazione Pupi che si prefigge di aiutare culturalmente bambini socialmente più svantaggiati e diversamente abili dell’Argentina attivando reti solidaristiche dal basso.

ps. non sono interista. Tifo per il Lecce. Ma ho tifato Inter quando c'era Jair (e il Lecce era in serie C) e quando c'era Murinho. E poi mi piacciono Ricardo Quaresma e Juary, dunque....
  



venerdì 20 febbraio 2015

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza. Esce il film di Roy Andersson, Leone d'oro 2014




Mariuccia Ciotta



Leone d'oro a sorpresa, il piccione esistenzialista di Roy Andersson che ha battuto Birdman di Inarritu, il favorito alla Mostra di Venezia 2014, è ora nelle sale italiane, opera stralunata del regista settantenne di Goteborg. 
Quanto sarebbe triste la Svezia se non fosse per due svitati venditori ambulanti di “cose che fanno ridere la gente”, Sam e Jonathan, una coppia più vicina a Oliver e Hardy travestiti da becchini che a Don Chiscotte e Sancho Panza (secondo il regista). 

Già il titolo dice il tono surreal-comico-filosofico del film, Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza (En duva satt på en gren och funderade på tillvaron). Il titolo del film è un riferimento al quadro Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel il Vecchio. Il dipinto raffigura un paesaggio rurale invernale, con alcuni uccelli appollaiati sui rami degli alberi. Andersson disse che immaginò gli uccelli della scena guardare le persone sotto di loro, ed immaginare cosa stessero facendo. Un Aki  Kaurismaski in combutta con Monsieur Hulot, humour ghiacciato da tragi-commedia con i due figuri, che spacciano canini “extra-lunghi” di vampiro, “classici” sacchetti ridacchianti e l'orribile maschera dal “dente solitario”.
Il film parte esilarante in piani sequenza catatonici, dentro locali deprimenti, personaggi solitari e imbambolati, dialoghi nonsense, colpi di scena inverosimili, numeri di danza demenziali e si avvia verso “quadretti” seriali di  gag, straziante nella sfortuna che perseguita Sam e Jonathan (Nils Westblom e Holger Andersson).   
Nessuno compra gli stupidi giochetti che i due maldestri venditori offrono a botteghe e passanti, e saranno loro i veri “giocattoli”, sognatori e nostalgici di altre epoche, catapultati in mondi immaginari. Una disadorna caffetteria diventa set di un musical corale e poi scenario dell'esercito di re Carlo XII di Svezia con il suo esercito in alta tenuta militare che sfila diretto alla grande battaglia contro i russi di Pietro il Grande, per poi tornare lacera e sconfitta. Il re, giovane e grazioso, si concede un bicchiere al bancone e un idillio fugace con il cameriere. 


Incursioni nella pittura di Otto Dix (ispiratore dichiarato di Andersson), tra crudeltà e tenerezza, nella spietata liturgia della borghesia svedese che si diletta, tanto per ridere, a bollire gli schiavi in un gigantesco container rotante. Altre digressioni, altri pensieri all'humour nero di Sam e Jonathan, che ascoltano a manetta una vecchia canzone lacrimosa nella loro stanzuccia offerta dall'assistenza sociale.

Terzo capitolo della Trilogia vivente  (il primo ha vinto il premio della giuria a Cannes 2011), l'ipnotica commedia filosofeggia  con le sue marionette in soliloquio, anime perse ma resistenti come la risata agghiacciante del misterioso sacchetto, molto apprezzato in tutte le feste, party e funerali.  


La critica cinematografica come super star. Life Itself di Steve James su Roger Ebert, vita, opere e morte


Roger Ebert, critico cinematografico del Chicago Sun-Times
Roberto Silvestri


Se ben due pollici in alto sono il simbolo del capolavoro assoluto, ed è il segno grafico più gratificante che un film possa mai avere, sono chicagoans i suoi inventori. Uno, Roger Ebert, proveniva dal quotidiano progressista Chicago Sun-Times, l’altro, Gene Siskel, dal conservatore Chicago Herald Tribune. In un celebre programma televisivo statunitense (diffuso dalla rete pubblica Pbs) nato nel 1967, nel quale si azzuffavano per davvero, il primo, più passionale, allargava con sagacia e buon senso i confini del bello schermico, deturpando il canone ufficiale e spiegando l’importanza ‘estetica’ di sensibilità ricettive e contestative ancora underground, ai margini della cultura e dei comportamenti ufficiali e wasp, come il punto di vista zen, rasta, black, gay&lesbian, della satira estrema stile Mad o camp. 

Gene Siskel (a sinistra) e Roger Ebert discutono di cinema in tv
L’altro, più strutturato, cercava, con humour fine, di frenare l’irruzione di quei pericolosi virus subculturali, erigendosi a paladino dell’aristocraticità critica, dei gusti accademici, altezzosi e rispettabili rispetto alla vitalità pericolosa del fumetto, dell’horror, del soft porn, della fantascienza, del pensare criminalmente altri corpi possibili e immaginabili… Insomma il subumano era in lotta con il sovrumano, e il problema era: come si può paragonare o equiparare un capolavoro di Bergman con un Grease qualsiasi? Perché El Norte di Gregory Nava è più interessante di uno spigoloso e slabbrato Kubrick? Come mai Toro scatenato è un capolavoro e Il colore dei soldi un abominio? 

Martin Scorsese intervistato da Steve James per "Life itself"
Ma qualche volta il sovrumano e il subumano si alleavano contro il pregiudizio dell’umano medio o del luogo comune e il “doppio pollice in alto” indicava, smodatamente e smoderatamente, i film che scavalcano il cinema, andavano oltre, portavano all’estasi eccitante e ipotizzavano vita e mondo diversi da questo. Senza parolone difficili, senza troppa filosofia… Infatti l’intento del programma era rossellinianamente didascalico:  si consigliava allo spettatore in cerca di un giudizio intelligente da affermare su un film di applicare il celebre e mai fallace test Siskel: “questo film è interessante almeno quanto un documentario con gli stessi attori che mangiano a cena?”. E, commentava Ebert: “ogni filmaker saggio dovrebbe essere abbastanza saggio da porsi questa domanda, intraprendendo un nuovo progetto”.  Martin Scorsese che era amico di Ebert – il Sun-Times lo aveva calorosamente sostenuto fin dalle prime prove di regia - fu molto colpito, e in pieno mento, dalla stroncatura pubblica subita in quel programma di successo dal suo remake con Paul Newman: “Ero completamente distrutto in quel momento dalla cocaina. La franchezza di quella critica mi rimise in sesto”.  
Il poster del film su Roger Ebert
All’inventore (duale) di thumbs system è dedicato un bellissimo film, Life itself, diretto da Chicago Steve James (suo il celebre e acclamato High Dreams, un documentario del 1994 sul basket universitario di Chicago che non fu - scandalosamente - candidato agli Oscar, proprio come questo) che incredibilmente è arrivato perfino sui nostri schermi. Non perdetelo. 
In realtà è su Roger Ebert, anzi sugli ultimi giorni di vita del critico malato terminale di cancro che racconta (tra scene clinica di insostenibile autenticità, che la moglie african-american Chazz non sempre aveva autorizzato) la sua vita e le sue opere, perché Siskel era già morto, anche lui  prematuramente, nel 1999. E oltre a materiali di repertorio gustosissimi, e alla testimonianza coraggiosa di Scorsese, vedremo parlare di Ebert anche amici imprevedibili, come Werner Herzog, o talenti in grande crescita, come il gentile e premuroso filmaker di origine iraniana Ramin Barhani. 

Il regista Steve James
Ma Ebert è sconosciuto in Italia. Addetti ai lavori a parte. Lo incontravamo sempre al festival di Cannes. E la sua passione, allegria e energia erano davvero contagianti. E affiorano anche dalle immagini più dolorose del film, come se quel sorriso infantile nessuna morte sarebbe mai stata in grado di cancellare. Che poi è il senso del lavoro critico. Non uccidere mai i film, anche quando sembra, perché il cinema è un un grande sì alla vita e il movimento critico è sempre un processo di avvicinamento al suo punctum, non al verdetto capitale di un tribunale….Life itself. E’ la vita stessa. Ma. I suoi saggi e le sue recensioni non sono mai state tradotte in Italia. 
Eppure i navigatori della rete lo conoscono benissimo perché Ebert socializzava da sempre tutti i suoi scritti. E ha creato un vero movimento critico collettivo. Alcuni dei suoi libri (uno, per esempio, l’Ebert’s Bigger Little Movie-Glossary, sui clichés, i luoghi comuni, le convenzioni, gli stereotipi e le scene “fatte” o “obbligatorie” dei blockbuster) è stato scritto da Ebert nel 1999 proprio in comune, assieme ai suoi fan, e composto in rete… Dunque bisogna tornare un po’ indietro nel tempo e vedere come è nato il modo sessantottino di fare critica. La terza via. Né apologia dell’esistente e del vincente, né la snobberia del rifiuto di un’arte troppo commerciale….
Primo anno a Cannes ....
Chi ci piace leggere oggi tra i critici viventi di tutto il mondo? Bill Krohn, tutti quelli di Trafic, il brasiliano Amir Labaki, la femminista Molly Haskell, il tedesco Olaf Mueller, gli italiani Aprà, Ghezzi e Cappabianca, Noel Simpsolo, Rancière…. Chissà perché non li troviamo mai nelle giurie dei grandi festival internazionale di serie A. Il loro approccio sempre leggiadramente dentro/profondamente fuori le opere ha quel tocco barocco in più… Ma all’inizio fu James Agee (1909-1955). 
Il decano della critica nordamericana, James Agee
Prima delle nouvelle vague, di Pauline Kael, di Farber & Sarris & Vogel, e della generazione dei critici-registi nipotini di Eisenstein (da Godard e Truffaut a Glauber Rocha e Bogdanovich da Oshima e Ruiz a Ghatak e Joe Dante)… Prima anche dei grandi festival anomali (come Massenzio, o Salsomaggiore o Telluride, o Torino di Turigliatto/D’Agnolo Vallan) che trasformarono la critica in una pratica collettiva di rimessa in discussione dei (dieci?) comandamenti dello sguardo e delle pose. Insomma prima di tutto questo Agee era il punto di riferimento colto della critica cinematografica statunitense scritta.
Veniva da Harvard, dove era arrivato dal Tennessee. Grande bevitore e fumatore. Le sue recensioni uscivano su Time e The Nation, ma anche su Fortune e Life. La resurrezione di Buster Keaton e dei grandi divi del muto si deve a lui. Appoggiò contro tutti Monsieur Verdoux di Chaplin. E scandalizzò i connazionali riempiendo di elogi Enrico IV, Enrico V e Amleto di Laurence Olivier e quello stile “tutto inglese” e così poco naturale di mettere in scena Shakespeare come fosse teatro No. Come fanno divinamente bene gli inglesi i cattivissimi…Ma Agee non era un critico “puro”, come, in Eva contro Eva, è George Sanders, il terrore di Broadway e off Broadway. O come era Bosley Crowther, che sul New York Times aveva difeso i black listed contro il senatore McCarthy, ma non ebbe il coraggio di scagionare Gangster Story di Arthur Penn dalle accuse di “ultraviolenza” (così come la pronipote radicale newyorker Pauline Kael fraintese perennemente Clint Eastwood).
Agee non aveva studiato nel dipartimento cinema dell’Ucla, ma letteratura ad Harvard e “vita agra” sulle strade di tutto il mondo.  Era, infatti, un romanziere e un poeta necrorealista che scriveva anche di cinema. Come in Europa (Elsa Morante, Marotta, Moravia…), negli Stati Uniti i primi critici cinematografici, di sostanza ma popolari, infatti, erano scrittori raffinati (Graham Greene, Weldon Kees…) o, al limite, giornalisti di grande livello. Dei Premi Pulitzer. Un riconoscimento che Agee infatti vinse, postumo, nel 1958. Oppure scrittori coinvolti in sceneggiature mirate e particolarmente significative. Nel suo caso due classici degli anni 50, La regina d’Africa, per John Huston (1951) e, non senza problemi e bisticci, di La morte corre sul fiume, per Charles Laughton (1955). 

Chazz e Roger Ebert
Chi, proprio come Agee, ha bevuto per tutta la vita anche troppo (prima che Chazz lo salvasse), vinto giovanissimo il premio Pulitzer (il primo come film critic, nel 1975) e ha scritto una sceneggiatura altrettanto memorabile per catturare la scultura interiore di un decennio (senza Beyond the Valley of the Dolls di Russ Meyer niente Boogie Nights e niente Vizio di forma, il formidabile dittico di Paul Thomas Anderson su Ellei), ma ha inventato la critica cinematografica televisiva, è stato proprio Roger Ebert, from Chicago. 
Il giovane Ebert
I critici sono poeti della prassi preziosi. La libertà di ricezione che permette il cinema porta a fabbricare pericolosi tumori immaginari che solo questi matematici della chirurgia del cervello sanno estirpare. Chicago (da Lincoln a Disney, da Al Capone a Obama, da Landis a Reagan) è stata una città molto vitale per il cinema e dunque per la storia americana. Molti i cineasti che ne conservano cultura e ritmi. I Belushi. John Hughes. Jack Benny. I Cusack. Bill Murray. Il compianto Harold Ramis. Bob Fosse, Preston Sturges. Gloria Swanson. Robert Young. Blanche Sweet. Kim Novak. Harrison Ford. Bruce Dern. Rock Hudson. Jason Robards jr. Deryl Hannah. John Malkovich. Gregg Toland. Louella Parsons, la “pettegola di Hollywood”… 
Almeno una cinquantina i film memorabili girati dentro i suoi paesaggi, abbelliti (Ordinary People) o imbruttiti (The Blues Brothers) ad arte. Chicago è tuttora sede di un prestigioso film festival che porta da decenni in città il meglio della produzione mondiale, e non mainstream, grazie al pioniere nella crescita e nello sviluppo di un alto “gusto interno lordo”, Richard Penha (che infatti poi fu acquistato dal Lincoln Center di Manhattan). Roma dovrebbe studiarlo a fondo. Ma la metropoli n.2 Chicago non è Los Angeles né New York. Né la consumistica capitale dell’industria pop (gli studios e il sistema ad esso collegato e non poco omertoso), né quella dell’arte cinematografica estrema (l’underground, il Village Voice, Warhol, il punk lower east side, l’hip hop nero e ispanico…). 
Diciamo che il suo punto di vista è equidistante dall’apologia dell’esistente, per quanto esiziale, e dallo snobismo del pensiero negativo, per quanto vitale. Ebert si è collocato proprio nella via di mezzo. Ottimo punto di osservazione, credibile e degno di fiducia, che ha permesso un vitale mantenersi fuori dai giochi (perfino il curioso e “aperto” critico Jonathan Rosenbaum, geneticamente esercente, combatte ereditari e interiori “conflitti di interesse”…).

mercoledì 18 febbraio 2015

Jupiter. Perché vederlo

Mariuccia Ciotta
 

Jupiter di Lana e Andy Wachowski sarà pure un pasticcio interstellare, ma, attenzione, spiega tutto sul reclutamento dei barbuti Isis in occidente. 
Una sfortunata immigrata russa” pulisce i gabinetti di Chicago, e ancora non sa di essere la “regina della Terra”. La notizia le arriva direttamente dal cielo, e la trasformerà in una guerriera, pronta a combattere gli sfruttatori galattici dell'Abrasax Industries che succhiano agli esseri umani (gli “immigrati”) il siero della giovinezza a fini commerciali. Pensi di essere uno schiavo del capitalismo, l'ultimo della scala sociale? Vieni con noi e sarai un principe combattente. Dai cessi al paradiso. Così si compie, in nome di dio, il “destino dell'universo”.

giovedì 12 febbraio 2015

Selma, la strada della libertà di Ava Du Vernay. Quando la preghiera è un'arma contundente

La marcia Selma-Montgomery






Roberto Silvestri


Chissà come sarebbe stato nelle mani di Michael Mann, Stephen Frears, Paul Haggis, Spike Lee, Lee Daniels e perfino Steven Spielberg…Eppure il film “si muove”. Si potrà certo trovare, e legittimamente, qualcosa di strano, di falso e addirittura di “distorto” in Selma – La strada della libertà, opera a budget medio (20 milioni di dollari) di Ava Du Vernay, 42 anni, losangelina, uscito ieri 12 febbraio nelle sale italiane e in procinto di lottare per conquistare l’Oscar del miglior film dell’anno.

Ava Du Vernay, regista di "Selma"
Anche se attori e regista sono fuori dalla gara degli Academy Awards per futili motivi burocratico-procedurali. E non è soltanto, a spaesare, il ritorno imprevisto della parola proibita “negro” (ma si pronuncia in inglese “nigro”) che negli anni 60 in cui il film si svolge, stava, a differenza dell’offensivo “nigger”, a indicare senza finalità offensive i cittadini african-american (a differenza che in italiano). O il fatto che il copione sia stato scritto nel 2007 da Paul Webb, uno sceneggiatore inglese (per quanto rimaneggiata dalla regista) e che i due attori protagonisti siano gli anglo-nigeriani David Oyelowo (Martin) e Carmen Ejogo (Coretta). O che, vampirizzando lo stile di ripresa libera televisiva le cineprese che raccontano le tre marce sull’Edmund Pettus Bridge fanno un po’ quel che gli pare anche in fatto di campi e controcampi. E che sono sei, e chissà come hanno bisticciato, le realtà produttive semi indipendenti (tra queste Pathé britannica e Brad Pitt) che hanno contribuito a realizzare il progetto…

Copretta King (Carmen Eyogo)
Eppure. Il film è impegnato, militante, commuovente. Come era Butler. Il New Yorker, eccitatissimo, ha perfino paragonato le scene di repressione armata alla Corazzata Potemkin di Eisenstein. Non arrivo a tanto ma almeno Du Vernay colorizza quelle immagini che la storia ci ha tramandato solo in sbiadito bianco e nero tv. E le rende più forti, più definite. Il boicottaggio degli autobus e dei locali proibiti ai ‘colored’. L’ingresso nelle scuole scortati dalle truppe federali. Le prime rivolte…. Selma si concentra, e “correttamente”, su un episodio chiave della vita di Martin Luther King jr e su una pagina sanguinosa e molto imbarazzante della democrazia statunitense. Il famoso Bloody Sunday del 7 marzo 1965 quando la guardia nazionale dell’Alabama, su ordine del governatore democratico bianco e razzista George Wallace, fermò la marcia di 50 miglia da Selma a Montgomery e represse con sadica violenza una dimostrazione pacifica e di massa guidata dal reverendo nero King, premio Nobel per la pace 1964, contro il regime di apartheid ancora vigente e fiorente nel sud del paese, che si dirigeva proprio verso il palazzo del governatore Wallace (interpretato da un perfettamente infame Tim Roth).

George Wallace (Tim Roth)
I feriti e i morti di quelle settimane (compresa la terribile strage precedente di Birmingham, quando una bomba fatta esplodere in una scuola elementare aveva ucciso quattro scolarette) non piegarono il movimento di emancipazione african-american che anzi utilizzò le riprese televisive di quegli eventi per scandalizzare e indignare l’opinione pubblica bianca del paese e rafforzare la lotta, e costrinsero il riluttante presidente Lyndon Johnson (molti storici liberal si sono indignati per questo ritratto di Tom Wilkinson, che a occhio radical pare più che corretto e equilibrato) a imporre, poco dopo il Civil Right Act anche il Voting Right Act. Cioè il diritto di voto non formale ma sostanziale per tutti. Dalla fine della Reconstruction Era, nel 1870 - Nasciata di una nazione di Griffith scolpì quell’ingiustizia fascista in una unica, stupenda sequenza - infatti era stato impedito alla maggioranza dei cittadini neri di votare, sia con le buone (cavilli burocratici e regolamenti razzisti) che con le cattive (Kkk). E senza quella forzatura di King niente Obama, oggi.

Si prepara la grande marcia
La stranezza del film della Du Vernay deriva però dal fatto che i diritti di sfruttamento commerciale tutti i testi di Martin Luther King pare che siano stati acquistati da un’altra grande compagnia cinematografica (ma è mai possibile questo fatto?) e dunque la giovane regista african-american, che viene dalla produzione, dalla pubblicità e dal marketing, ha dovuto ‘falsificare’ tutti i suoi discorsi, accettazione del premio Nobel compreso, cercando di reinventarli in maniera verosimile. Per questo motivo il film non ha proprio il tempo di sprofondare nella retorica del santino e anzi spesso si dilunga più del solito nelle scene “private”, nei duetti casalinghi tra Martin e Coretta Scott King (come quella bellissima che apre il film, con il leader pacifista finalmente in difficoltà perché non sa come annodare un ascot) o nelle scene ‘senza testimoni’ come gli incontri con Malcolm X, o in automobile tra King e i suoi più stretti collaboratori come Andrey Young e Abernaty, o quelli riservati tra King e Johnson, o tra Johnson e Edgar J. Hoover, o tra Johnson e Wallace….   Nel 1999 Charles Burnett, decano del cinema indipendente african-american, aveva diretto un bellissimo Selma Lord Selma, una produzione Disney per la tv che per la prima volta aveva raccontato quell’episodio cruciale della lotta contro la segregazione razziale prendendo spunto dal racconto che di quella marcia fece una bambina di 11 anni, Sehyann Webb, diventata militante dopo aver ascoltato un discorso di King. Probabilmente Burnett sarebbe stato più fedele all’insegnamento politico di Martin Luther King. Magari avrebbe collegato quella fase della sua lotta alla funzione di leader “a tutto tondo” che stava per assumere, collegando questione razziale a questione sociale e politica e diventando un pericoloso punto di sintesi della sinistra antagonista capace di lottare non solo contro la guerra del Vietnam e contro la segregazione razziale ma addirittura contro il sistema capitalistico in quanto tale. Sintesi proibita che decreterà certamente la morte del reverendo indocile dopo quelle di Malcolm X e di molte pantere nere….
Martin Luther King jr. infiamma le folle
Ma Du Vernay fa il film con un altro intento. Per far leggere libri di storia agli spettatori, certo, ma non con le sue immagini, magari solo dopo l’uscita dai cinema. Per far approfondire le questioni che si sfiorano e si accavallano. Il massimo che riesce a produrre è però altro. Un certo grumo potente di emozioni che certamente imbarazzerà per la sua inguaribile semplicità di fraseggio il pubblico più sofisticato, mentre sedurrà e commuoverà tutto l’altro. Certo, l’esplosione di Birmingham arriva come una vera bomba in sala. C’è chi potrà trovare l’effetto una trovata efferata, un effettaccio abietto e ‘pornografico’. Ma è interessante come questo bio pic sia stato dalla regista totalmente e anche ingenuamente a volte reintepretato. Togliendo la funzione di protagonista a King e dandola al Movimento. E soprattutto ai suoi esponenti più secondari. Uno studente del Naacp nervoso, settario perfino ma attento al cambiamento. Una donna, l’attivista Annie Lee Cooper, che vuole votare e non ci riesce perché il funzionario bianco la tortura di burocrazia (Oprah Winfrey). Un giornalista obiettivo. Un avvocato bianco che si unisce alla lotta e verrà massacrato dai fascisti del Kkk. Il complotto Fbi che inventerà la storia degli adulteri a ripetizione… Il magistrato Martin Sheen (l'attore della sinistra più estrema di Hollywood).... 



David Oyelowo (Martin Luther King jr.)
Il film ha comunque come protagonista unico Martin Luther King jr., con la sua voce pacata nel privato e infiammata in pubblico. Ma dimostra che negli ultimi anni, da Lincoln in poi, il bio-pic come genere sempre più praticato e dominante (non solo a Hollywood) stia modificando il proprio format storico. Ricordiamo che il genere si è conquistato a stento (grazie al periodo rooseveltiano) il suo posto al sole, ed è stato a lungo osteggiato dai tycoon storici che lo consideravano didattico, respingente e noiosissimo. Ma dall’epoca di William Dieterle (anni 40) e di Roberto Rossellini (anni 70) qualcosa è cambiato. Si sceglie un episodio chiave nella vita delle grandi personalità della storia, o una fase particolare della biografia illustre, e la si analizza in profondità piuttosto che tratteggiare l’intera parabola di una vita che obbliga alla sintesi superficiale, all'ellissi e all'aneddotica superficiale.
I contrasti tra King e gli studenti del Naacp
  
David Oyelowo, l’attore che ha fortemente desiderato questa parte, e che è conosciuto per aver recitato in Middle of Nowhere, segue le indicazioni della regista di “I Will Follow” come se King ricevesse ordini di regia dall’alto dei cieli, ora moralista ora leninista ora populista, e luce perfetta e spirituale dall’operatore Bradford Young, e si muove dunque senza mai sbagliare un colpo, dominando lo spazio, domestico a parte, che polemizzi senza complessi con il Presidente o tenti di convincere i riottosi membri del comitato locale pacifista studentesco John Lewis, l’attore Stephan James e James Forman, che è interpretato da Try Biers (influenzati, anche se il film non lo dice, dalle posizioni più radicali e intransigenti di Stokely Carmichael e Rap Brown) a seguire le indicazioni, a volte davvero stupefacenti, della sua Southern Christian Leadership Conference. 


I soprusi e le recenti rivolte di Ferguson, Cleveland e New York, il comportamento da vigile romano dei poliziotti di Manhattan contro un sindaco non suprematista sono la dimostrazione che certe conquiste sono sempre in discussione. E che ai 5 anni di potere nel sud dei politici african-american insediati da Lincoln, quel che nei libri di storia si chiama Reconstruction Era, il potere bianco ha voluto rispondere con un secolo di seconda schiavitù, linciaggi e squadrismo quotidiano. Perché non accada la stessa cosa dopo lo shock Obama, perché la memoria non si disperda e l’imaginario non si inquini, film come questi sono utili e danno indicazione di tendenza a tutta la cinematografia mondiale. Occidentale e Orientale. Del Sud e del Nord. The King of Cinema è questo.   
Il magistrato Martin Sheen (a destra)


Romeo&Juliet. Il dramma d'amore nel Rinascimento festivo. Per San Valentino gli auguri di Carlo Carlei



Hailee Seinfeld e Douglas Booth
Roberto Silvestri


Cos’è cinema se si dimentica il tragitto Eschilo, Dante, Shakespeare, Griffith, Eisenstein, Ford e Michael Mann? Questo Romeo&Juliet - sterzata originale e inattuale e ritorno ai classici basilari del dramma - di Carlo Carlei (e tutta la carriera cosmopolita e off Hollywood del cineasta calabrese), che esce quasi a San Velentino e che segnana un ritorno massiccio del più romantico testo shakesperiano sul grande schermo, mi riporta al clima che circondava Renato Castellani nel 1952 quando girò, tra la perplessità generale, il suo Giulietta e Romeo, dorato come una tela di Ghirlandaio, con il ventenne Laurence Harvey. 
Da sinistra Leslie Manville, Hailee Steinfeld e Douglas Booth
Mentre il mondo tremava per una minacciata terza guerra mondiale tutta nucleare (crisi in Corea, e poi conflitto aperto) il cinema italiano era sospinto a forza di allegria verso la commedia italianissima e patriarcale. Come orizzonte produttivo unico. In cambio del mono-cinema d’evasione, di sorrisi, poi di risate e poi di risate sempre più sgangherate, e di qualche truppa mandata a aiutare Seul, magari finalmente l’Italia sarebbe stata riammessa al consesso delle Nazioni Unite e i pericolosi veleni del neorealismo, e di quel suo particolare, e pericolosissimo senso dell’umorismo, che colpisce più in alto che in basso, sarebbero stati definitivamente sconfitti. Riportando il cinema italiano, minacciosamente a gittata planetaria, nel suo alveo localistico.
Il regista Carlo Carlei
Grazie a Shakespeare (anche Otello attirò l’attenzione del cineasta di Due soldi di speranza) si poteva però ricominciare dai fondamentali e combattere, creare un’antitesi, contrastare quel periodico abbassamento d’immaginario, quel ritorno al clima giocondo, autarchico e sciovinista che contraddistingue troppo spesso il panorama cinematografico postfascista.
Ed eccoci a questo Romeo e Giulietto, alla tragedia dell’eterna disfatta dei giovani nel conflitto con la società (Freda e Zeffirelli, nel 1964 e nel 1968, notate le date, forzarono, con grande fiuto fashion, sull’estremismo new romantic) che oggi, con l’oltre 40% di disoccupazione giovanile, e la guerra già in corso e sempre più vicina, assume tutto il suo senso antagonista.
Hailee Steinfeld e Douglas Booth
Anche se il film, realizzato nel 2013 (lo abbiamo visto al Festival di Roma) è uscito nelle sale prima degli Usa e del Portogallo che dell’Italia. E l’accoglienza critica semifreddina, allora, è stata inversamente proporzionale a quella, calda e emozionata, del pubblico più giovane. Non fosse dunque che per aver seguito, assieme a Martone e Ferrara, l’indicazione guerrigliera rosselliniana di un cinema ad apertura didattica ampia (ricordiamo il Ferrari e perfino il Padre Pio televisivo di Carlei) che si contrapponga al lavaggio scientifico dei cervelli più cuccioli, operazione lanciata dopo il 68 da qualche servizio segreto scolastico, già l’impresa di Carlei sarebbe da ammirare. 
Shakspeare, che visse in un momento di grave crisi socio-politica, scrisse e mise in scena tutti  suoi drammi (e il pubblico elisabettiano li premiò con un eccitante successo al botteghino e un clima ultrà in galleria) indicando la zona fertile in cui il vecchio mondo stava trasformandosi in mondo nuovo. I suoi personaggi sono in conflitto radicale con la società e della propria individualità i primi a prendere coscienza sono proprio i giovani. 

Sono loro che superano sia lo stadio delle torri armate l’un contro l’altra, di cui sono le vittime privilegiate (il feudalesimo medievale nel quale è ambientato il dramma d’amore di Shakespeare, fedele omaggio a Dante, oggi anelato dai Leghisti) che quello rinascimentale: il principio e la fine dell’Universo è certo l’individuo, ma troppe “signorie” vecchie e nuove lo schiacciano ancora, nell’Europa del XV e XVI secolo, e anche del XXI secolo, per impedirgli di diventare un individuo massa, e poi “democratico”. Quel pubblico viveva in una società, religiosamente e politicamente totalitaria, dopo la rivoluzione fallita. Ma quello di oggi? Nessuno ha provato, neanche su Netflix, a trascrivere in miniserie l’intero testo. Forse nell’epoca di Occupy Wall Street e di Tsipras, reggerebbe, dalla prima all’ultima parola.   
Giulietta, Hailee Steinfeld, e Romeo, Douglas Booth
Nella novella quattrocentesca di Luigi da Porto, una delle basi di partenza della rielaborazione shakesperiana, i Montecchi sono la famiglia più nobile. Aristocratici allevatori di cavalli, i genitori di Romeo. I Capuleti sono invece la famiglia dei “nuovi ricchi”, come li chiameremmo oggi. Importano sale dall’Austria, la dinastia di Giulietta. Allevatori contro commercianti. Sottomessi entrambi, però, a un potere dispotico superiore… Sembra lo scontro tipico di un film western. E un po’ Carlei gioca all’Ok Corral. Risse e duelli non mancano. Così come sbronze, agguati, fughe…

Ma non basta innervare il più romantico dei drammi elisabettiani dentro una dinamica d’azione per imbrogliare il distratto pubblico di oggi, sconvolto dal rigoglio linguistico barocco e immaneggiabile del Bardo. E poi un po’ lo ha già fatto quasi 20 anni fa Baz Lurhmann, nella sua attualizzazione acida e alla moda del melodramma veronese. E ancor prima, nel Giulio Cesare con Marlon Brando, Mankiewicz riempì, per rendere la seconda parte della storia sopportabile, di costose battaglie campali e navali filologicamente corrette, un testo decifrabile solo vivendo nell’orrore di una tirannia schiacciante. Come facevano russi, ungheresi, cechi e polacchi durante le dittature del capitalismo di stato. 

Hailee Steinfeld
Basterà questa volta la rielaborazione swinging dello sceneggiatore Julian Fellowes, che ha ritoccato il capolavoro per fluidificare e rimodernare? O un cast mozzafiato, da Royal Company, che ci scodella Paul Gamatti, il frate, Damian Lewis, il padre di Giulietta, Leslie Manville, la nutrice, Natasha McElhorne, la mamma di Giulietta, Stellan Skarsgard, il Principe di Verona, Ed Westwick, Tebaldo, Christian Cook, Mercuzio e soprattutto il Benvolio di Kodi Smit-McPhee? O la bellezza record di Romeo, Douglas Booth, e la grazia conturbante di Hailee Steinfeld, una Giulietta spregiudicata come ogni sedicenne di oggi, specie se reduce da un set dei Coen (True Grit)? O la ricchezza di castelli, chiese, mura, torri, giardini, quadri, piazze, scorci rinascimentali autentici e di tessuti e di costumi usciti dagli arazzi e dalle tele dell’epoca a iniettare Shakespeare nelle vene di oggi? Non è la colonna sonora ansiogena e onnipresente di Abel Korzeniowski ma la teoria del tutto di Carlei. Cioè la capacità alchemica di collegare tutto - e soprattutto quell’eclettico cast non facilmente incastonabile in un paesaggio italiano e nei tessuti preziosi di Carlo Poggioli (e Milena Canonero) - in un unico flusso spaziale, erotico ed emotivo che si trascina nell’abisso. Oltre al tributo pagato subliminalmente da Carlei al capovolgimento dei ruoli, imposto oggi dalla donna sia occidentale che orientale, vista la barbutissima reazione isterica dei ventenni e dei millennial in generale, tra Romeo e Giulietta. 
Hailee Steinfeld
Non solo è lei a sedurre lui, ma sono le donne, la nutrice e la madre, a collaborare senza neppure un dubbio, alla relazione sovversiva. Tanto che ci si chiede come mai Carlei non abbia preferito il titolo di Castellani (e di Da Porto) al suo (e a quello di Shakespeare)…L’adolescente di 14 anni magra e gracile con le scapole leggermente sporgenti che è un po’ nel nostro immaginario Giulietta diventa una solida ragazza da campus universitario che stuzzica per prima Romeo facendogli dimenticare d’un tratto l’altra donna per cui spasimava e conquistandolo con un solo giro di danza. Ma anche capace di manovrare la tata, sfoggiando virtù diplomatiche e soprattutto di interpretare con sorprendente duttilità anche il lato dark che il testo non cela. “Morir vorrei, non altro”. Emblema della blank generation, da un bel po’ di decenni.  
Paul Giamatti (sinistra) e Leslie Manville (destra)