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La marcia Selma-Montgomery |
Roberto Silvestri
Chissà come sarebbe stato nelle mani di Michael Mann,
Stephen Frears, Paul Haggis, Spike Lee, Lee Daniels e perfino Steven
Spielberg…Eppure il film “si muove”. Si potrà certo trovare, e legittimamente, qualcosa
di strano, di falso e addirittura di “distorto” in Selma – La strada della libertà, opera a budget medio (20 milioni
di dollari) di Ava Du Vernay, 42 anni, losangelina, uscito ieri 12 febbraio
nelle sale italiane e in procinto di lottare per conquistare l’Oscar del
miglior film dell’anno.
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Ava Du Vernay, regista di "Selma" |
Anche se attori e regista sono fuori dalla gara degli
Academy Awards per futili motivi burocratico-procedurali. E non è soltanto, a
spaesare, il ritorno imprevisto della parola proibita “negro” (ma si pronuncia in
inglese “nigro”) che negli anni 60 in cui il film si svolge, stava, a
differenza dell’offensivo “nigger”, a indicare senza finalità offensive i
cittadini african-american (a differenza che in italiano). O il fatto che il
copione sia stato scritto nel 2007 da Paul Webb, uno sceneggiatore inglese (per
quanto rimaneggiata dalla regista) e che i due attori protagonisti siano gli
anglo-nigeriani David Oyelowo (Martin) e Carmen Ejogo (Coretta). O che,
vampirizzando lo stile di ripresa libera televisiva le cineprese che raccontano
le tre marce sull’Edmund Pettus Bridge fanno un po’ quel che gli pare anche in
fatto di campi e controcampi. E che sono sei, e chissà come hanno bisticciato,
le realtà produttive semi indipendenti (tra queste Pathé britannica e Brad Pitt)
che hanno contribuito a realizzare il progetto…
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Copretta King (Carmen Eyogo) |
Eppure. Il film è impegnato, militante, commuovente. Come
era Butler. Il New Yorker, eccitatissimo, ha perfino paragonato le scene di repressione armata alla Corazzata Potemkin di Eisenstein. Non arrivo a tanto ma almeno Du Vernay colorizza quelle immagini
che la storia ci ha tramandato solo in sbiadito bianco e nero tv. E le rende
più forti, più definite. Il boicottaggio degli autobus e dei locali proibiti ai
‘colored’. L’ingresso nelle scuole scortati dalle truppe federali. Le prime
rivolte…. Selma si concentra, e
“correttamente”, su un episodio chiave della vita di Martin Luther King jr e su
una pagina sanguinosa e molto imbarazzante della democrazia statunitense. Il
famoso Bloody Sunday del 7 marzo 1965 quando la guardia nazionale dell’Alabama,
su ordine del governatore democratico bianco e razzista George Wallace, fermò
la marcia di 50 miglia da Selma a Montgomery e represse con sadica violenza una
dimostrazione pacifica e di massa guidata dal reverendo nero King, premio Nobel
per la pace 1964, contro il regime di apartheid ancora vigente e fiorente nel
sud del paese, che si dirigeva proprio verso il palazzo del governatore Wallace
(interpretato da un perfettamente infame Tim Roth).
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George Wallace (Tim Roth) |
I feriti e i morti di quelle settimane (compresa la
terribile strage precedente di Birmingham, quando una bomba fatta esplodere in
una scuola elementare aveva ucciso quattro scolarette) non piegarono il
movimento di emancipazione african-american che anzi utilizzò le riprese
televisive di quegli eventi per scandalizzare e indignare l’opinione pubblica
bianca del paese e rafforzare la lotta, e costrinsero il riluttante presidente
Lyndon Johnson (molti storici liberal si sono indignati per questo ritratto di
Tom Wilkinson, che a occhio radical pare più che corretto e equilibrato) a
imporre, poco dopo il Civil Right Act anche il Voting Right Act. Cioè il diritto di voto non formale ma sostanziale
per tutti. Dalla fine della Reconstruction Era, nel 1870 - Nasciata di una nazione di Griffith scolpì quell’ingiustizia fascista in una unica, stupenda sequenza
- infatti era stato impedito alla maggioranza dei cittadini neri di votare, sia
con le buone (cavilli burocratici e regolamenti razzisti) che con le cattive
(Kkk). E senza quella forzatura di King niente Obama, oggi.
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Si prepara la grande marcia |
La stranezza del film della Du Vernay deriva però dal fatto
che i diritti di sfruttamento commerciale tutti i testi di Martin Luther King
pare che siano stati acquistati da un’altra grande compagnia cinematografica
(ma è mai possibile questo fatto?) e dunque la giovane regista african-american,
che viene dalla produzione, dalla pubblicità e dal marketing, ha dovuto
‘falsificare’ tutti i suoi discorsi, accettazione del premio Nobel compreso,
cercando di reinventarli in maniera verosimile. Per questo motivo il film non
ha proprio il tempo di sprofondare nella retorica del santino e anzi spesso si
dilunga più del solito nelle scene “private”, nei duetti casalinghi tra Martin
e Coretta Scott King (come quella bellissima che apre il film, con il leader
pacifista finalmente in difficoltà perché non sa come annodare un ascot) o
nelle scene ‘senza testimoni’ come gli incontri con Malcolm X, o in automobile
tra King e i suoi più stretti collaboratori come Andrey Young e Abernaty, o
quelli riservati tra King e Johnson, o tra Johnson e Edgar J. Hoover, o tra
Johnson e Wallace…. Nel 1999 Charles
Burnett, decano del cinema indipendente african-american, aveva diretto un
bellissimo Selma Lord Selma, una
produzione Disney per la tv che per la prima volta aveva raccontato
quell’episodio cruciale della lotta contro la segregazione razziale prendendo
spunto dal racconto che di quella marcia fece una bambina di 11 anni, Sehyann
Webb, diventata militante dopo aver ascoltato un discorso di King. Probabilmente
Burnett sarebbe stato più fedele all’insegnamento politico di Martin Luther King.
Magari avrebbe collegato quella fase della sua lotta alla funzione di leader “a
tutto tondo” che stava per assumere, collegando questione razziale a questione
sociale e politica e diventando un pericoloso punto di sintesi della sinistra
antagonista capace di lottare non solo contro la guerra del Vietnam e contro la
segregazione razziale ma addirittura contro il sistema capitalistico in quanto
tale. Sintesi proibita che decreterà certamente la morte del reverendo indocile
dopo quelle di Malcolm X e di molte pantere nere….
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Martin Luther King jr. infiamma le folle |
Ma Du Vernay fa il film con
un altro intento. Per far leggere libri di storia agli spettatori, certo, ma
non con le sue immagini, magari solo dopo l’uscita dai cinema. Per far
approfondire le questioni che si sfiorano e si accavallano. Il massimo che riesce
a produrre è però altro. Un certo grumo potente di emozioni che certamente
imbarazzerà per la sua inguaribile semplicità di fraseggio il pubblico più
sofisticato, mentre sedurrà e commuoverà tutto l’altro. Certo, l’esplosione di
Birmingham arriva come una vera bomba in sala. C’è chi potrà trovare l’effetto
una trovata efferata, un effettaccio abietto e ‘pornografico’. Ma è
interessante come questo bio pic sia stato dalla regista totalmente e anche
ingenuamente a volte reintepretato. Togliendo la funzione di protagonista a
King e dandola al Movimento. E soprattutto ai suoi esponenti più secondari. Uno
studente del Naacp nervoso, settario perfino ma attento al cambiamento. Una
donna, l’attivista Annie Lee Cooper, che vuole votare e non ci riesce perché il
funzionario bianco la tortura di burocrazia (Oprah Winfrey). Un giornalista
obiettivo. Un avvocato bianco che si unisce alla lotta e verrà massacrato dai
fascisti del Kkk. Il complotto Fbi che inventerà la storia degli adulteri a
ripetizione… Il magistrato Martin Sheen (l'attore della sinistra più estrema di Hollywood)....
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David Oyelowo (Martin Luther King jr.) |
Il film ha comunque come protagonista unico Martin Luther
King jr., con la sua voce pacata nel privato e infiammata in pubblico. Ma
dimostra che negli ultimi anni, da Lincoln
in poi, il bio-pic come genere sempre più praticato e dominante (non solo a
Hollywood) stia modificando il proprio format storico. Ricordiamo che il genere
si è conquistato a stento (grazie al periodo rooseveltiano) il suo posto al
sole, ed è stato a lungo osteggiato dai tycoon storici che lo consideravano
didattico, respingente e noiosissimo. Ma dall’epoca di William Dieterle (anni
40) e di Roberto Rossellini (anni 70) qualcosa è cambiato. Si sceglie un
episodio chiave nella vita delle grandi personalità della storia, o una fase
particolare della biografia illustre, e la si analizza in profondità piuttosto
che tratteggiare l’intera parabola di una vita che obbliga alla sintesi superficiale, all'ellissi e all'aneddotica superficiale.
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I contrasti tra King e gli studenti del Naacp |
David Oyelowo, l’attore che ha fortemente desiderato questa parte, e che è
conosciuto per aver recitato in Middle of
Nowhere, segue le indicazioni della regista di “I Will Follow” come se King
ricevesse ordini di regia dall’alto dei cieli, ora moralista ora leninista ora
populista, e luce perfetta e spirituale dall’operatore Bradford Young, e si
muove dunque senza mai sbagliare un colpo, dominando lo spazio, domestico a
parte, che polemizzi senza complessi con il Presidente o tenti di convincere i
riottosi membri del comitato locale pacifista studentesco John Lewis, l’attore
Stephan James e James Forman, che è interpretato da Try Biers (influenzati,
anche se il film non lo dice, dalle posizioni più radicali e intransigenti di
Stokely Carmichael e Rap Brown) a seguire le indicazioni, a volte davvero
stupefacenti, della sua Southern Christian Leadership Conference.
I soprusi e le
recenti rivolte di Ferguson, Cleveland e New York, il comportamento da vigile
romano dei poliziotti di Manhattan contro un sindaco non suprematista sono la
dimostrazione che certe conquiste sono sempre in discussione. E che ai 5 anni
di potere nel sud dei politici african-american insediati da Lincoln, quel che
nei libri di storia si chiama Reconstruction Era, il potere bianco ha voluto
rispondere con un secolo di seconda schiavitù, linciaggi e squadrismo
quotidiano. Perché non accada la stessa cosa dopo lo shock Obama, perché la
memoria non si disperda e l’imaginario non si inquini, film come questi sono
utili e danno indicazione di tendenza a tutta la cinematografia mondiale.
Occidentale e Orientale. Del Sud e del Nord. The King of Cinema è questo.
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Il magistrato Martin Sheen (a destra) |
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