mercoledì 10 luglio 2019

Valentina Cortese, preziosa la tua assenza. Nervosa, scabra, moderna, la diva delle dive






di Roberto Silvestri

Francesco Savio: “Eri una diva!”
Valentina Cortese: “Non ero una diva. Ero molto alla moda. Non mi sono mai sentita diva”
Francesco Savio: “Però si può esserlo anche involontariamente”
Valentina Cortese: “Per un certo tipo di pubblicità, sì, in fondo penso di esserlo. Anzi lo sono. Insomma è una cosa che mi fa ridere. Poi, così, di me, si è creato un personaggio strano, curioso, c’è questo mito…(da Cinecittà Anni Trenta, vol.1)







Chissà perché, quando ho sentito di Valentina Cortese che è morta a 96 anni, ho pensato in sovrimpressione a un’altra ribelle dolce, a Daniela Gara, che morì tanto tempo fa, nel 1988, a 46 anni lasciandoci la sceneggiatura su Beatrice Cenci per il cinema.
Due grandi performer, indipendentemente dall’incommensurabile grado di notorietà e dalla differenza generazionale. Maestra e allieva. Entrambe abbandonate dal padre.
La prima vissuta fuori dal ventennio, fuori dal neorealismo fuori e da Beverly Hills, sempre  oltre. Non si piaceva per molto tempo sullo schermo: “Mi fischio perché mi detesto!”. Tranne dopo Roma città libera di Pagliero (1946), con un personaggio più vero, maturo, realistico. E ha cominciato a vedersi…. E studiarsi. E correggersi. La tecnica c’era: “Mai avuto bisogno della glicerina, per piangere”.
La seconda anima ribelle, si chiamava Gara, nome agonistico, perché se l’era scelto da sola, nome d’arte. Faceva arte. Fu la Giovanna d’Arco e dei Macelli del Movimento rivoluzionario prima, e del movimento femminista poi, enfant prodige e poi gianburrasca nel Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler (che con Valentina Cortese era stato per molto tempo). Qualcuno la ricorderà, assieme a Paperina, in Parco Lambro di Alberto Grifi tra le più organizzate assaltatrici del palco maschilista e del camion pieno di polli. Sentirsi sempre giovani dentro. “sei di sinistra fai l’underground poi ti accorgi che il tipico undergrounder sta sulla porta della sua cantina e abbaia minacciosamente “off off off” contro tutti quelli che vogliono entrare….”
Forse le accomunava questa capacità di trasmettere energia radiante. Di parlare sempre molto bene dei loro colleghi e colleghi (béh, non proprio di tutti).

Quella sovrimpressione incrociata è infatti arrivata di colpo, prima ancora di ricordarmi il volto, i gesti, il corpo e la voce di Valentina Cortese. Che faceva a Cinecittà già i film hollywoodiani che avrebbe poi fatto in California… Quattro ragazze sognano di Guglielmo Giannini, per esempio. Che era ambientato proprio in America. E girato in piena guerra con gli Stati Uniti! O Soltanto un bacio su soggetto di Giuseppe Marotta. Prima di passare mentalmente e con wikipedia/filmlexicon in rassegna la sua carriera, la sua filmografia, la Cena delle beffe, dove Calamai ha il senoni di fuori mentre lei, Elisabetta, ha i seni strettamente fasciati perché Blasetti la voleva magrina, bambina pura… e  Le amiche di Antonioni, l’ingenua distratta Deanna Durbin nostrana dei telefoni bianchi, Cottafavi, Bava, Freda, Fulci, Dassin, Wise, Fellini…. Effetto Notte sul cui set usò per la prima volta i pezzettini di carta per ricordarsi le battute. Ma soprattutto quella vertiginosa, indimenticabile reinvenzione pop di Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone. Fu mozzafiato quella macchia di emozioni, colori, sguardi, vestiti anno 1967. Un robot, un sintetizzatore, un dispositivo avveniristico. Magnetica, perfino per Zeffirelli. Ecco i mille volti e gesti del divismo hollywoodiano classico,  dalla Durbin alla Garbo, dalla Dietrich a Tallulah, quando ormai il divismo non c’era più, e Valentina Cortese nella Contessa a piedi scalzi osserva preoccupata Ava Gardner, la femme fatale innalzata sul podio, nel vestito da sposa di Edith Head, e sembra che pensi: “bisogna conservarne la traccia, la maschera della diva". Oppure attraverso le poche puntate tv dello sceneggiato in bianco e nero I grandi Camaleonti di Fenoglio-Zardi dove sapeva come andare oltre le righe con equilibrio e stile. Portare se stessi (non farsi vedere, che è tecnica da piccolo attore secchione, o da cantante seducente, che so, da Renato Rascel) in modo che sia estremamente preziosa e pericolosa la tua presenza. Neanche fosse la regina d’Italia.
Daniela Gara 
Ma Daniela Gara? Anche lei sicuramente avrebbe adorato Deanna Durbin mentre canta I love the whistle! sgambettando in bicicletta. Era una fischiatrice altrettanto drastica. 
Ho abitato nei primi anni 70 forse nel 1973 forse nel 1974, per qualche tempo in via Manara a Trastevere con Daniela Gara e tanti altri. Lei probabilmente reduce dalla tournée di Hair era impegnata al teatro Belli nel ruolo di Zinaida Bunina in Cuore di cane di Bulgakov con Antonio Salines e Magda Mercatali. Oppure nel 1974 quando faceva  programmi femministi a radio radicale, il doppio ruolo di Calibano e Murugan nell’ Isola della Tempesta di Moretti e Tito Schipa jr. e Adelaide Bobò in Les Negres di Genet.? Bo’.
Pagavamo comunque 55 mila lire di affitto al mese, dividendo la cifra tra sei sette amici. Una comune mutante di compagni che andavano e venivano… C’era Filippo Altobelli, di Cinecittà come me, che mi chiarì passi oscuri di Kant e Garroni, e aveva dipinto una parete come si faceva sotto acido  ricordandosi di Kirchner. Martine Cavanna, di Parigi periferica, ex studentessa di Vincennes, con la quale restammo sbigottiti e attoniti il giorno di Pasolini massacrato, e che lavorava all’Aied benemerita; Rita Ciotta, dei Parioli, che scriveva su Noi donne, Francesco Petrone, Colle Oppio, pianista, che sapeva tutto e da più punti di vista. La figlia ricca di un’illustre magistrato… E poi passavano spesso di lì il pittore concettuale veneziano Carlo Di Leo con la sua ragazza milanese Anna (che detestava ed era quasi l’unica Godard e adorava Giordano Bruno e aveva ispirato il romanzo credo inedito Anna di Alberto Episcopi )…. Tra essi in una delle cinque stanze, quella vicino alla cucina, c’era, in momentaneo relax perché la vita dei clown è on the road, Daniela Gara e il suo bellissimo baule rosso d’attrice, quelli con i cassetti e le stampelle per i vestiti.
Daniela Gara 

I grandi attori non recitano, sono recitati, perennemente frugati da spettri.  Non c’è bisogno di rievocare Carmelo Bene, basta Eleonora Dusa: “Recitare? Che brutta parola! Se si trattasse di recitare soltanto, io sento che non ho mai saputo né saprà recitare!” Oppure anche, seguendo Piera Degli Esposti: “Io non posso vedere chi deambula sul palcoscenico, chi sta disinvolto. Il gesto inutile è un gesto folle. Io detesto chi fa come chi, nessuno deve fare come chi. Lì si sta per delle ragioni precise, trascinati da un vento, da un’ora che cade, travolti. Altrimenti non è il palcoscenico. In teatro si sta sempre in situazioni estreme. Se non sono divelto dalla sedia, cosa ci faccio qui? Se non è stravolto, se non impazzisce, quello che è lì sopra…”. In bilico sull’abisso, come il corpo vacillante di Olimpia Carlisi. Fu Daniela Gara a parlarmi di Paolo Poli e della sua autonomia e genialità. Di Rascel con lei in 20 zecchini d’oro regia di Zeffirelli, 1969, mi ricordava l’egoismo e la cattiveria sovrumana. E poi mi parlava molto di Valentina Cortese, con la quale aveva lavorato in Santa Giovanna dei Macelli di Brecht diretta da Giorgio Strehler e di quanto le dovesse umanamente e professionalmente anche nell’epoca in cui prendeva tre Mogadon per dormire la notte. Orfanotrofio, madre adottiva, portiera di uno stabile milanese, muore quando lei ha 11 anni, ancora orfanotrofio. Poi teatro. I giganti della montagna di Pirandello.
“Scappa dalla fila delle compagne, si precipita nel camerino di Valentina Cortese e afferma con forza, “io farò l’attrice”. Sedotta da questa strana determinata creatura, Valentina Cortese si offre di aiutarla; e da quel momento l’attrice sarà per Daniela un riferimento costante” (Professione attrice, pag. 11)
E mi ricordava dell’aneddoto di Righelli che sul set di Fuori dai miei confini aveva chiamato un violinista a suonare, solo per Valentina, per ispirarla, le note laceranti del Tristano. Mentre spesso lavorando con alcuni registi teatrali di sinistra per esprimere dei contenuti “i canali, lo sbocco, nella misura in cui, l’analisi, perché compagni in effetti… e poi ti mettono una mano sul culo come tutti gli altri”….  
Ed ecco che nel volumetto a cura di Roberta Mazzoni di e su Daniela Gara, Professione attriceframmenti di una autobiografia postuma (edizione dellautore, 1996) acquistabile a 11 euro su Ibs, prezzo giusto costava 20 mila lire, troviamo un bellissimo scritto di Valentina Cortese proprio dedicato alla sua seguace, con la quale condivideva un certo gesto “me too” ante litteram…. Una sera a Hollywood, nei primi anni 50,  la nuova star del cinema americano  (lo
slogan  della  Fox  è  “Prima  la  Garbo,  poi  la  Dietrich  e  adesso  la  Cortese”)  viene  invitata a una festa dal boss della Fox Darryl Zanuck che le fa la corte. Quando arriva
nella  villa  scopre  però  di  essere  finita  in  una  sorta  di  orgia.  Indignata,  getta  il bicchiere di whisky in faccia al produttore e decide di partire con il marito Richard Basehart per l’Italia. La sua esperienza a Hollywood era giunta al termine.




Una donna da non dimenticare
di Valentina Cortese (*)

Stavo recitando nei Giganti della Montagna di Pirandello  e vidi entrare nel mio camerino una fanciulla magra con l’aria di chi non mangia tanto spesso, patita. Ma c’era qualcosa in lei che mi colpì subito: un viso intelligente, spiritoso, con una luce bruciante negli occhi, una personalità viva, straordinaria. Quando poi cominciò a parlarmi di teatro, del suo desiderio di recitare, fui conquistata dalla sua preparazione teatrale, dalla sua cultura. Sapeva tutto, conosceva tutti. Io la presi sotto la mia ala e mi considerai un poco la sua mamma in arte. Ragazza di carattere, di coraggio, generosissima: pur di difendere una causa, un’idea, una persona che ingiustamente si trovasse in difficoltà, non esitava a prenderne la difesa, a combattere in prima persona. Una volta si prese a male parole con Giorgio Strehler (cosa molto coraggiosa per un’attrice a inizio carriera) e questo per difendere una sua compagna maltrattata ingiustamente dal Maestro. Strehler gliela fece pagare cara e, nonostante ne riconoscesse il grande talento, l’anno dopo non la fece più scritturare per alcuni anni non volle più parlarle. Daniela non si perdette affatto d’animo, tutt’altro, non le andava proprio di lavorare con un “despota” simile, pur ammirandolo profondamente. E da quel momento incominciò la sua fortuna, proprio così. Lascò Milano e incominciò a girovagare per il mondo: Parigi, New York, Los Angeles, Australia, Sud America…Vita dura, vita difficile, ma sempre con grinta, con grande passione, con grande voglia di riuscire di farcela.
E “ce l’ha proprio fatta” e con immenso successo. 
Non potrò mai dimenticare il suo calore umano, la sua disponibilità, il suo ottimismo. In particolare la ricordo durante lo spettacolo Santa Giovanna dei Macelli, al Piccolo Teatro, dove Daniela mi commuoveva sempre quando, in alcuni miei momenti di tristezza, di preoccupazione, di ansia, veniva nel mio camerino e improvvisava piccoli spettacoli clowneschi, inventava situazioni buffe e divertenti finché non vedeva sciogliersi la mia tensione e io tornavo a sorridere.
Il suo lavoro sui personaggi era di totale immersione. Un lavoro fatto in profondità, che partendo dalla psicologia del personaggio, la portava a trovare il tono di voce, la mimica, la gestualità giusti per trasmettere al pubblico quello che è poi l’essenza dello spettacolo: il testo con i suoi contenuti, di volta in volta poetici, drammatici, filosofici.
Non ci sono dubbi in questo senso Daniela è stata un’attrice completa: ed è stata anche e soprattutto un’attrice di grande istinto. Un vero animale da palcoscenico.   


   
(*) dal libro di Daniela Gara Professione attrice frammenti da un'autobiografia postuma a cura di Roberta Mazzoni. Interventi di Ippolita Avalli, Valentina Cortese, Dacia Maraini, Stephanie Oursler. In appendice "L'attrice e i personaggi" di Piera Degli Esposti . Edizioni dellautore. Roma, 1996

domenica 7 luglio 2019

ilciottasilvestri: Ombre bianche. "Seconda patria", emigranti italian...

ilciottasilvestri: Ombre bianche. "Seconda patria", emigranti italian...: di Roberto Silvestri   Un documentario sul problema dell’emigrazione. E sul problema dell’accoglienza, ancora p...

Ombre bianche. "Seconda patria", emigranti italiani in Labrador. Il nuovo film di Paolo Quaregna




di Roberto Silvestri  

Un documentario sul problema dell’emigrazione. E sul problema dell’accoglienza, ancora più inquietante oggi, visto che dall’inconscio italiano riaffiorano spettri inquietanti.
Sì, certo, ma rovesciato (siamo noi i migranti, ed è il Canada che i accoglie). E non solo. E’ un prezioso film di combattimento. La Seconda Patria di Paolo Quaregna, che sarà nelle sale dall’8 luglio, per un tour estivo con relativi dibattiti, fa parte di quelle rarissime opere che più che essere giudicate, ti giudicano. 
Sono oltre 30 milioni i cittadini italiani che emigrarono in altri paesi del mondo negli ultimi 100 anni. E oggi ci sono circa 70 milioni. Un seconda Italia, appunto. 
Operai, contadini, disoccupati costretti alla fuga dalla fame e dalla repressione politica, profughi del fascismo e dalla globalizzazione e dunque emigranti economici, proletari e oggi proletari laureati, proprio come le moltitudini sub-sahariane in esodo oggi.
Se tornassero da noi, quegli italieni, probabilmente si parlerebbe di intollerabile invasione. Si urlerebbe: la barca è piena! Non possiamo accoglierli tutti…
Il muro di diffidenza e sadica perfidia che separa gli stanziali dai nomadi si osserva periodicamente durante le elezioni politiche nazionali, commentando da destra a sinistra, i voti che arrivano d’oltremare. O dalla freddezza se non peggio dal silenzio (notata nel film di Paolo Quaregna dal cineasta italo-canadese Paul Tana) con la quale vengono accolti i film dedicati alle nostre comunità .
Per esempio, hanno lasciato morire i festival dedicati alla diaspora italiana, come era il Sulmonacinema film festival per qualche anno. E chi può accedere dunque alle opere che negli ultimi decenni hanno raccontato le vittorie e le sconfitte degli  emigranti e le emigranti contro padroni, mafia, leggi discriminatorie e oscurantismi vari incorporati nelle nostre famiglie tradizionali? Vi dicono qualcosa  certo Sacco e Vanzetti e grazie a Deaglio e al suo bel libro anche Carlo Tresca. Ma conoscete i film Café Italia Monreal (1985) e La Sarrasine (1992)? Mai sentito parlare dei cineasti Paul Tana, Tony Nardi, Giovanni Princigalli e Bruno Ramirez (che hanno appena finito il montaggio di un atteso Tre compagni di Montreal, speriamo che si riesca a vedere presto in Italia in un festival importante)? Vi ricordate di Walter Chiari, eroe di un romanzo autobiografico di Nino Culotta, emigrato in Australia, dal titolo Sono strana gente nel film del 1966 di Michael Powell?

Johnny Stea, uno dei protagonisti del film 
Paolo Quaregna nel suo secondo film canadese dopo Dancing North non si occupa in modo generico del tragico autoesilio italiano, dei proletari friulani, veneti e meridionali, indocili al dominio dei Savoia che trovarono fortuna e sfruttamento più tollerabile oltreoceano alla fine del XIX secolo, e poi di nuovo alle due ondate migratorie degli anni ‘20 e ‘60 del secolo scorso.
Seconda patria, una coproduzione tra Italia   Ila Palma di Rean Mazzone e Dream Film (Belluscone, Totò che visse due volte, L’isola, Che cos’è un Manrico) e Canada, con la partecipazione dell’Istituto Luce-Cinecittà e dei suoi favolosi e molto ben utilizzati reperti d’archivio, non è neanche, più semplicemente, un puzzle di storie quebecoise: i drammi e i successi, il ghetto e l’integrazione, il razzismo subìto e la recente riabilitazione d’immagine dei nostri lavoratori e lavoratrici a nord del fiume San Lorenzo, nelle zone dove si vive a 50-70° sotto zero...
Tra qualche giorno  il primo ministro canadese, il liberal Justin Trudeau, dovrebbe ufficialmente chiedere scusa alla nostra comunità per le angherie, gli internamenti e gli espropri illegali subiti durante la seconda guerra mondiale, quando gli italiani, “nemici di guerra” (ma la maggior parte senza colpa) furono imprigionati nei campi di concentramento. In fondo questo meticciato fertile ha prodotto giornali, radio, tv, e la supoer star Yvonne De Carlo, il musicista Guy Lombardo e  Vincenzo Natali, quello di Il cubo.
Ma di questo non si fa cenno nel film. E neppure del conflitto interno alla comunità, sia generazionale che sessuale, che tra socialisti, comunisti e anarchici da una parte, e fascisti, inebriati dalle imprese aeree di Cesare Balbo e imperiali di Graziani, dall’altra.
Sono lo storico del movimento operaio Ramirez, l’attore Nardi, il regista e docente di cinema Tana e il documentarista drastico Princigalli (Ho fatto il mio coraggio, 2010) che ci raccontano da anni questa zona oscura del nostro passato rimosso.
Invece qui, in Seconda patria, entriamo nel fuori campo o meglio nel fuori orto di interni familiari apparentemente normali. Oggi gli eredi di chi viveva in 40 in locali fatiscenti hanno case accoglienti e gestiscono chi una macelleria, chi un barber shop, chi un caffè con le foto degli azzurri campioni del mondo, nel gelido nord del Quebec. Entriamo anche nei paraggi dei set libertari e antifascisti di Tana e Ramirez che maneggiano memoria e testimonianze orali sepolte dalle storie ufficiali, ricostruiti nella Petite Italie  di Monreal e finanziati dal National Film Board, braccio pubblico che negli ultimi decenni ha imposto nei festival uno stile originale, aggressivo, sensibile e adulto (pensiamo alle commedie sardoniche di Denys Arcand). Le radici della tranquillità odierna sono nella banalità selvaggia e coraggiosa di genitori tifosi della Juve e del Napoli, che costruirono ferrovie di inizio Novecento a 70° sotto zero, picconavano carbone negli abissi, rischiavano il licenziamento perché manovali non qualificati che gli armadi a muro di legno proprio non li sapevano costruire.
Uno spirito di resistenza d’acciaio. Sofferenze sopportate solo per un futuro migliore, per i loro figli e le loro figlie. Ne valeva la pena? Sì. Intanto si producevano pomodori da favola, perfino a quelle temperature. E alberi di frutta che, di inverno, venivano seppelliti per resistere alle intemperie. Il genio italico di cui parla Christine Lagarde all’opera. Dal basso. Dove è più invisibile e geniale.
Costruzione della ferrovia nel Labrador 
E’ un elogio, il film, all’emigrazione estrema, pericolosa e “folle”. Proprio come quella che oggi rischia di essere inghiottita dal Mediterraneo e dall’Oceano Indiano.
Quaregna come Nanouck segue tra i ghiacci le tracce di una bande a part di connazionali, pochi avventurieri disposti alle più rischiose peripezie per sopravvivere, a costo di gettarsi nell’ignoto, nel gelo più insopportabile, nelle miniere più claustrofobiche, nelle zone dove solo i dago, i wop, cioé gli italiani offesi come i nigger, si avventuravano a paga infima. “Vietato l’ingresso a cani e italiani”  è un détournement da un documentario belga o svizzero degli anni 50. Un effetto speciale che colpisce nel segno.
Attraverso nove ritratti intimi di italiani di oggi diventati canadesi del Quebec, che ricordano le avventurose esperienze loro o dei loro genitori pionieri, Paolo Quaregna, da sempre cineasta-antropologo, si mette così sulle tracce di connazionali come Johnny Stea. Si aprono gli album fotografici. Si raccontano i legami con l’Italia, la sorpresa di trovare, nelle fabbriche tessili locali, cucitrici inette o grossolane, digiune di Penelope, da addestrare; l’astuzia di farsi credere falegnami pur non avendo mai preso una sega in mano; come si diventa cuoco per necessità, perché intrecciare sapori è nel dna mediterraneo; come ci si rende conto che si morirà con i polmoni intasati di carbone se si resterà  sottoterra un giorno più del dovuto… 
Quaregna infatti si chiede attraverso questi incontri e ricordi di famiglia, che avrebbero molto interessato Gregory Bateson, come nutrire una cultura nazionale (e risponde  tramonta se non resta “permeabile” alle altre, attraverso lo scambio, la contaminazione, il movimento, l’ibridazione, la “bastardaggine”, i porti aperti) e quali modifiche alla tradizione impediscano la mummificazione della nostra identità europea (e risponde: superando la multiculturalità, che separa con il muro della tolleranza repressiva costumi e leggi, attraverso dispositivi transculturali che amplino lo spettro della libertà e dei diritti collettivi alla felicità e annichiliscano le zavorre arcaiche e bigotte dei tradizionalismi).
Come è importante oggi ricordare a noi, lontani cugini italiani in crisi di identità, la lezione etica della famiglia Stea, originaria di Sannicandro di Bari, prima minatori in Belgio nell’immediato dopoguerra, poi lavoratori occasionali a Toronto e a Montreal, operai senza sindacato nelle miniere di ferro di Schefferville, nel Grande Nord polare canadese e poi l’azzardo del commercio, l’acquisto della casa (su un pezzetto di terra strappato alla riserva Innu) ma anche la capacità istintiva di rispettare quei vicini ghettizzati e di farseli amici.    
In un paese come il Canada, di grande tradizione sperimentale e documentaristica (da Grierson a McLaren), con un mercato cinematografico commerciale interamente colonizzato da Hollywood (anche se molti canadesi contribuirono a farla grande da Allan Dwan a Mary Pickford, da Raymond Burr a Norman Jewison e tanti altri), si creò negli anni 60 e 70 una originale deformazione del cinéma vérité inquinato da forma liberate (dalle nouvelle vague) di fiction. Si chiamò cinéma direct e i suoi più importanti esponenti furono  Gilles Groulx, Michel Brault, Jean-Pierre Lefebvre e Pierre Perrault. La realtà sociale e psicologica dei canadesi venne smascherata,  rovesciata come un calzino e lavata da ogni incrostazione auto-apologetica e ideologica. Quaregna si avvale proprio di questo metodo e di questi procedimenti. Non esperti. Non voce off. Il partito preso delle cose. Fatte e dette.
Seconda patria ricorda infatti, attraverso un raffinato lavoro di found footage, che al settimo gruppo etnico dello stato nordamericano (un milione e mezzo di cittadini sono di origine italiana) sono già stati dedicati lavori di sociologica e poetica importanza, a cominciare dal bellissimo Note su una minoranza (1964) di Gianfranco Mingozzi (che ovviamente viene ben maneggiato).
Paul Tana regista italo-canadese di La Sarrasine
Il Quebec era stata una prima scelta di molti abruzzesi, molisani, campani e calabresi, per la vicinanza “latino-cattolica” con la nostra cultura rispetto ad altri territori, come l’Australia, altrettanto bisognosa di manodopera a basso costo. Ma il film  è più interessato al rapporto orizzontale  tra le comunità paria di ieri (cinesi, portoghesi, greci, latinoamericani..) e di oggi (arabi, afghani, africani subsahariani…). E al rapporto con gli ultimi, i nativi Innu.
In un recente viaggio in Vaticano Trudeau ha ricordato al Papa che tra il 1840 e il 1996, oltre 150mila minorenni indigeni furono strappati alle famiglie e mandati in scuole finanziate dal governo federale e gestite da chiese cattoliche, anglicane, presbiteriane: nel 2015, la commissione per la verità e la riconciliazione – Truth and Reconciliation Commission, Trc – ha confermato che in questi istituti gli indigeni dovettero rinunciare alle loro tradizioni e furono vittime di abusi, malattie, e decessi sospetti.
Il razzismo sottostante a queste pratiche emerge nel film di Quaregna. Era proibito ai ragazzi italiani frequentare i loro coetanei innu. E viceversa. Mentre Seconda patria ha proprio il momento clou, il punctum, proprio nel rapporto d’amicizia tra il macellaio Johnny Stea e il cantautore vicino di casa e leggenda vivente della musica innu Florent Vollant, che ricorda nel suo studio di registrazione di Maliotenam, come già suo padre fosse legato al “padre del tuo amico italiano, che ci ha fatto conoscere il vino, la bottiglia di Chianti con la paglia, gli involtini, la salsiccia e O Sole mio”. Ma soprattutto erano rimasti colpiti dal fatto che  gli italiani rispettavano come nessun altro la cultura dei nativi. “Adoravano la differenza. Non ne avevano paura”.
Nel suo lungometraggio del 1999 Dancing North Quaregna aveva raccontato la storia di un musicista rock europeo che arricchiva la sua tecnica musicale proprio entrando in rapporto profondo emotivo e linguistico con la musica e la cultura Innu. Aver lavorato venti anni sul territorio prima di montare un nuovo lavoro che ha questo stesso paesaggio, anche mentale, come protagonista, è già la prova di un procedimento alternativo, di un rispetto psico-geografico inusuale e di una sostanza conoscitiva profonda restituita in tutta la sua complessità.