di Roberto Silvestri
Un documentario sul problema
dell’emigrazione. E sul problema dell’accoglienza, ancora più inquietante oggi,
visto che dall’inconscio italiano riaffiorano spettri
inquietanti.
Sì, certo, ma rovesciato
(siamo noi i migranti, ed è il Canada che i accoglie). E non solo. E’ un prezioso
film di combattimento. La Seconda Patria
di Paolo Quaregna, che sarà nelle sale dall’8 luglio, per un tour estivo con relativi
dibattiti, fa parte di quelle rarissime opere che più che essere giudicate, ti
giudicano.
Sono oltre 30 milioni i
cittadini italiani che emigrarono in altri paesi del mondo negli ultimi 100
anni. E oggi ci sono circa 70 milioni. Un seconda Italia, appunto.
Operai, contadini,
disoccupati costretti alla fuga dalla fame e dalla repressione politica, profughi
del fascismo e dalla globalizzazione e dunque emigranti economici, proletari e oggi proletari laureati, proprio
come le moltitudini sub-sahariane in esodo oggi.
Se tornassero da noi, quegli italieni, probabilmente si parlerebbe di
intollerabile invasione. Si
urlerebbe: la barca è piena! Non possiamo
accoglierli tutti…
Il muro di diffidenza e
sadica perfidia che separa gli stanziali dai nomadi si osserva periodicamente
durante le elezioni politiche nazionali, commentando da destra a sinistra, i
voti che arrivano d’oltremare. O dalla freddezza se non peggio dal silenzio
(notata nel film di Paolo Quaregna dal cineasta italo-canadese Paul Tana) con
la quale vengono accolti i film dedicati alle nostre comunità .
Per esempio, hanno lasciato
morire i festival dedicati alla diaspora italiana, come era il Sulmonacinema
film festival per qualche anno. E chi può accedere dunque alle opere che negli
ultimi decenni hanno raccontato le vittorie e le sconfitte degli emigranti e le emigranti contro padroni,
mafia, leggi discriminatorie e oscurantismi vari incorporati nelle nostre
famiglie tradizionali? Vi dicono qualcosa
certo Sacco e Vanzetti e
grazie a Deaglio e al suo bel libro anche Carlo Tresca. Ma conoscete i film Café Italia Monreal (1985) e La Sarrasine (1992)? Mai sentito parlare dei cineasti Paul Tana, Tony Nardi, Giovanni
Princigalli e Bruno Ramirez (che hanno appena finito il montaggio di un atteso Tre compagni di Montreal, speriamo che
si riesca a vedere presto in Italia in un festival importante)? Vi ricordate di Walter Chiari, eroe di
un romanzo autobiografico di Nino Culotta, emigrato in Australia, dal titolo Sono strana gente nel film del 1966 di
Michael Powell?
Johnny Stea, uno dei protagonisti del film |
Paolo Quaregna nel suo
secondo film canadese dopo Dancing North
non si occupa in modo generico del
tragico autoesilio italiano, dei proletari friulani, veneti e meridionali,
indocili al dominio dei Savoia che trovarono fortuna e sfruttamento più
tollerabile oltreoceano alla fine del XIX secolo, e poi di nuovo alle due
ondate migratorie degli anni ‘20 e ‘60 del secolo scorso.
Seconda patria,
una coproduzione tra Italia – Ila Palma di Rean Mazzone e Dream Film (Belluscone, Totò che visse due volte, L’isola,
Che cos’è un Manrico) e Canada,
con la partecipazione dell’Istituto Luce-Cinecittà e dei suoi favolosi e molto
ben utilizzati reperti d’archivio, non è neanche, più semplicemente, un puzzle
di storie quebecoise: i drammi e i successi, il ghetto e l’integrazione, il
razzismo subìto e la recente riabilitazione d’immagine dei nostri lavoratori e
lavoratrici a nord del fiume San Lorenzo, nelle zone dove si vive a 50-70°
sotto zero...
Tra qualche giorno il primo ministro canadese, il liberal Justin Trudeau, dovrebbe
ufficialmente chiedere scusa alla nostra comunità per le angherie, gli internamenti
e gli espropri illegali subiti durante la seconda guerra mondiale, quando gli
italiani, “nemici di guerra” (ma la maggior parte senza colpa) furono
imprigionati nei campi di concentramento. In fondo questo meticciato fertile ha
prodotto giornali, radio, tv, e la supoer star Yvonne De Carlo, il musicista
Guy Lombardo e Vincenzo Natali, quello
di Il cubo.
Ma di questo non si fa cenno
nel film. E neppure del conflitto interno alla comunità, sia generazionale che
sessuale, che tra socialisti, comunisti e anarchici da una parte, e fascisti,
inebriati dalle imprese aeree di Cesare Balbo e imperiali di Graziani,
dall’altra.
Sono lo storico del movimento
operaio Ramirez, l’attore Nardi, il regista e docente di cinema Tana e il
documentarista drastico Princigalli (Ho
fatto il mio coraggio, 2010) che ci raccontano da anni questa zona oscura
del nostro passato rimosso.
Invece qui, in Seconda patria, entriamo nel fuori campo
o meglio nel fuori orto di interni familiari apparentemente normali. Oggi gli
eredi di chi viveva in 40 in locali fatiscenti hanno case accoglienti e gestiscono
chi una macelleria, chi un barber shop, chi un caffè con le foto degli azzurri
campioni del mondo, nel gelido nord del Quebec. Entriamo anche nei paraggi dei
set libertari e antifascisti di Tana e Ramirez che maneggiano memoria e
testimonianze orali sepolte dalle storie ufficiali, ricostruiti nella Petite Italie di Monreal e finanziati dal National Film
Board, braccio pubblico che negli ultimi decenni ha imposto nei festival uno
stile originale, aggressivo, sensibile e adulto (pensiamo alle commedie
sardoniche di Denys Arcand). Le radici della tranquillità odierna sono nella
banalità selvaggia e coraggiosa di genitori tifosi della Juve e del Napoli, che
costruirono ferrovie di inizio Novecento a 70° sotto zero, picconavano carbone
negli abissi, rischiavano il licenziamento perché manovali non qualificati che
gli armadi a muro di legno proprio non li sapevano costruire.
Uno spirito di resistenza
d’acciaio. Sofferenze sopportate solo per un futuro migliore, per i loro figli
e le loro figlie. Ne valeva la pena? Sì. Intanto si producevano pomodori da
favola, perfino a quelle temperature. E alberi di frutta che, di inverno,
venivano seppelliti per resistere alle intemperie. Il genio italico di cui parla Christine Lagarde all’opera. Dal basso.
Dove è più invisibile e geniale.
Costruzione della ferrovia nel Labrador |
E’ un elogio, il film,
all’emigrazione estrema, pericolosa e “folle”. Proprio come quella che oggi
rischia di essere inghiottita dal Mediterraneo e dall’Oceano Indiano.
Quaregna come Nanouck segue tra
i ghiacci le tracce di una bande a part
di connazionali, pochi avventurieri disposti alle più rischiose peripezie per
sopravvivere, a costo di gettarsi nell’ignoto, nel gelo più insopportabile,
nelle miniere più claustrofobiche, nelle zone dove solo i dago, i wop, cioé gli
italiani offesi come i nigger, si avventuravano
a paga infima. “Vietato l’ingresso a cani e italiani” è un détournement
da un documentario belga o svizzero degli anni 50. Un effetto speciale che
colpisce nel segno.
Attraverso nove ritratti intimi
di italiani di oggi diventati canadesi del Quebec, che ricordano le avventurose
esperienze loro o dei loro genitori pionieri, Paolo Quaregna, da sempre
cineasta-antropologo, si mette così sulle tracce di connazionali come Johnny
Stea. Si aprono gli album fotografici. Si raccontano i legami con l’Italia, la
sorpresa di trovare, nelle fabbriche tessili locali, cucitrici inette o
grossolane, digiune di Penelope, da addestrare; l’astuzia di farsi credere
falegnami pur non avendo mai preso una sega in mano; come si diventa cuoco per
necessità, perché intrecciare sapori è nel dna mediterraneo; come ci si rende
conto che si morirà con i polmoni intasati di carbone se si resterà sottoterra un giorno più del dovuto…
Quaregna infatti si chiede
attraverso questi incontri e ricordi di famiglia, che avrebbero molto
interessato Gregory Bateson, come nutrire una cultura nazionale (e risponde tramonta se non resta “permeabile” alle altre,
attraverso lo scambio, la contaminazione, il movimento, l’ibridazione, la
“bastardaggine”, i porti aperti) e
quali modifiche alla tradizione impediscano la mummificazione della nostra
identità europea (e risponde: superando la multiculturalità, che separa con il
muro della tolleranza repressiva costumi e leggi, attraverso dispositivi
transculturali che amplino lo spettro della libertà e dei diritti collettivi
alla felicità e annichiliscano le zavorre arcaiche e bigotte dei
tradizionalismi).
Come è importante oggi
ricordare a noi, lontani cugini italiani in crisi di identità, la lezione etica
della famiglia Stea, originaria di Sannicandro di Bari, prima minatori in
Belgio nell’immediato dopoguerra, poi lavoratori occasionali a Toronto e a
Montreal, operai senza sindacato nelle miniere di ferro di Schefferville, nel
Grande Nord polare canadese e poi l’azzardo del commercio, l’acquisto della
casa (su un pezzetto di terra strappato alla riserva Innu) ma anche la capacità
istintiva di rispettare quei vicini ghettizzati e di farseli amici.
In un paese come il Canada,
di grande tradizione sperimentale e documentaristica (da Grierson a McLaren),
con un mercato cinematografico commerciale interamente colonizzato da Hollywood
(anche se molti canadesi contribuirono a farla grande da Allan Dwan a Mary
Pickford, da Raymond Burr a Norman Jewison e tanti altri), si creò negli anni
60 e 70 una originale deformazione del cinéma vérité inquinato da forma
liberate (dalle nouvelle vague) di fiction. Si chiamò cinéma direct e i suoi
più importanti esponenti furono Gilles
Groulx, Michel Brault, Jean-Pierre Lefebvre e Pierre Perrault. La realtà sociale
e psicologica dei canadesi venne smascherata, rovesciata come un calzino e lavata da ogni
incrostazione auto-apologetica e ideologica. Quaregna si avvale proprio di
questo metodo e di questi procedimenti. Non esperti. Non voce off. Il partito
preso delle cose. Fatte e dette.
Seconda patria
ricorda infatti, attraverso un raffinato lavoro di found footage, che al
settimo gruppo etnico dello stato nordamericano (un milione e mezzo di
cittadini sono di origine italiana) sono già stati dedicati lavori di sociologica
e poetica importanza, a cominciare dal bellissimo Note su una minoranza (1964) di Gianfranco Mingozzi (che ovviamente
viene ben maneggiato).
Paul Tana regista italo-canadese di La Sarrasine |
Il Quebec era stata una prima
scelta di molti abruzzesi, molisani, campani e calabresi, per la vicinanza
“latino-cattolica” con la nostra cultura rispetto ad altri territori, come l’Australia,
altrettanto bisognosa di manodopera a basso costo. Ma il film è più interessato al rapporto
orizzontale tra le comunità paria di
ieri (cinesi, portoghesi, greci, latinoamericani..) e di oggi (arabi, afghani,
africani subsahariani…). E al rapporto con gli ultimi, i nativi Innu.
In un recente viaggio in
Vaticano Trudeau ha ricordato al Papa che tra il 1840 e il 1996, oltre 150mila
minorenni indigeni furono strappati alle famiglie e mandati in scuole
finanziate dal governo federale e gestite da chiese cattoliche, anglicane,
presbiteriane: nel 2015, la commissione per la verità e la riconciliazione –
Truth and Reconciliation Commission, Trc – ha confermato che in questi istituti
gli indigeni dovettero rinunciare alle loro tradizioni e furono vittime di
abusi, malattie, e decessi sospetti.
Il razzismo sottostante a
queste pratiche emerge nel film di Quaregna. Era proibito ai ragazzi italiani
frequentare i loro coetanei innu. E viceversa. Mentre Seconda patria ha proprio il momento clou, il punctum, proprio nel
rapporto d’amicizia tra il macellaio Johnny Stea e il cantautore vicino di casa
e leggenda vivente della musica innu Florent Vollant, che ricorda nel suo
studio di registrazione di Maliotenam, come già suo padre fosse legato al
“padre del tuo amico italiano, che ci ha fatto conoscere il vino, la bottiglia
di Chianti con la paglia, gli involtini, la salsiccia e O Sole mio”. Ma soprattutto erano rimasti colpiti dal fatto
che gli italiani rispettavano come
nessun altro la cultura dei nativi. “Adoravano la differenza. Non ne avevano
paura”.
Nel suo lungometraggio del
1999 Dancing North Quaregna aveva
raccontato la storia di un musicista rock europeo che arricchiva la sua tecnica
musicale proprio entrando in rapporto profondo emotivo e linguistico con la
musica e la cultura Innu. Aver lavorato venti anni sul territorio prima di
montare un nuovo lavoro che ha questo stesso paesaggio, anche mentale, come
protagonista, è già la prova di un procedimento alternativo, di un rispetto
psico-geografico inusuale e di una sostanza conoscitiva profonda restituita in
tutta la sua complessità.
Nessun commento:
Posta un commento