Attiat El Abnoudi |
di Roberto Silvestri
Alta, bellezza spigolosa, pelle scura, occhi penetranti. Attiat el Abnoudi era della generazione anni 60. Ha creduto nel sogno egualitario di Nasser. Forse più di Nasser. I libri costavano poco. Si andava all'Opera a prezzi stracciati. Si parlava di socialismo e di giustizia sociale. E il popolo era invitato "ad alzare la testa". Nella sua casa non mancava la foto di Nasser (e della Palestina).
Attiat ha fatto film poetici sulla vita. Sulla gioia, la lotta e i
sogni di chi eredita l’antica saggezza dei “miserabili” per sopravvivere e ha
molto da insegnare a tutti.
“La poesia – confessò alla giornalista tedesca Rebecca
Hillauer - è dire cose molto profonde
con poche parole. Nei miei film cerco di dire molte cose con una sola
inquadratura. Mi piacerebbe che venissero visti più volte, anche perché i miei
amici critici dicono che si scoprono sempre cose differenti. Non inganno mai lo
spettatore. Non manipolo mai i miei soggetti per interesse personale o
estetico. Non giro mai due volte una sequenza. Essere onesti è molto
importante. Non ho mai fatto una ripresa falsa”.
Film provocatori, però. Perché descrivere l’Egitto dei
subalterni, utilizzando un medium borghese provenendo da una famiglia operaia,
è già qualcosa di molto rischioso (ne sa qualcosa Regeni). Quando arrivò Sadat le canzoni sui lavoratori e sui contadini alla radio sparirono. E cinema fu considerato sinonimo di intrattenimento. Divertimento. Star. Gli ideali giovanili di Attiat non sono rimasti più per anni nell'agenda nazionale.
Ma i suoi occhi, già
geneticamente marxisti, avranno captato qualcosa di importante nel risveglio della primavera araba. Senza aver mai voluto costruire “film politici”, ovvero senza mai aggiungere alle immagini obbligatorie interpretazioni: “La gente deve pensare da sola”,
affermava.
I suoi film sono affreschi, diari, interviste di donne,
soprattutto. Storie di persone magnifiche, ma dimenticate (che della vita è
parte attiva), realizzati intessendo, come nessuno mai, la potenza dei
linguaggi verbali e non verbali. Con i rumori, le musiche, i colori, i corpi e
le immagini sonore e visive di chi è testimone della propria epoca senza avere
gli stessi diritti, e soprattutto il diritto a prendere la parola. Anche se i
soggetti dei suoi film amano e creano la vita.
E’ un dovere, per un filmmaker dei tre mondi (e non solo)
restituirla, questa parola, agli emarginati, analfabeti, a chi non ha accesso
alla conoscenza e vive in uno stato di ignoranza permanente. E non è facile,
nel paese militarizzato e spionistico di Nasser, Sadat, Moubarak e Al Sisi,
così come in molta parte dell’Africa e del mondo arabo, fare la cineasta
indipendente, la documentarista sociale e femminista “di profondità”.
Il 5 ottobre 2018 è morta, dopo una lunga malattia, a 79
anni, una delle più profonde, coraggiose e premiate documentariste al mondo, la
cineasta egiziana Atiyat (o Atteyyat) Al-Abnoudi. Una delle due madri del documentarismo egiziano assieme a Nabeeah Lofty. Tra i suoi film più celebri,
alchimia riuscita di sguardo etnologico, umorismo e passione condivisa, Seas of Thist (1981), gran premio per il
documentario all’Acct in Francia; Il
ritmo della vita (1988), premiato a Valencia; Year of Maya (1989) Seller
and Buyers (1992), premio della critica egiziana; Diary in Exile (1993, girato in video) e gli spot tv Egyptian Heroines (1996). Con Days
of Democracy (venti candidate intervistate nel 1996 in occasione delle
elezioni politiche) si apre una fase più aperta alla committenza televisiva o
al rapporto con gli organismi umanitarie internazionali. Nel 1998 a El Attiat è
stato consegnato il premio alla carriera dall’associazione dei critici
egiziani.. Oltre 30 i riconoscimenti
internazionali collezionati in tutto il mondo. Permissible Dreams (1983), coproduzione egiziano-tedesca, è stato
diffuso da Channel 4 Berlin Television e dalla tv pubblica greca e dei paesi
scandinavi. Rhythm of Life
(1988), co-produzione anglo-tedesca, da
Channel 4 e ZDS.
Tra i suoi film più recenti Responsable Women (1994); Rawya,
ritratto in 15’ di una artista contadina e Girls
Still Dream (1995), sulle teenagers egiziane (in un paese dove una ragazza
su quattro si sposa prima dei 16 anni); Cairo
1000/Cairo 2000 (2000) e The Nubian
Train (2004).
Horse of Mud (1971) di Attiat El Abnoudi |
Nata il 26 ottobre 1939 nel Delta del Nilo, a Daqhiliya,
Atiyat Awad Khalil, dopo il divorzio ha mantenuto il cognome del marito, il grande poeta Abdel-Rahman Al-Abnoudi, adottando la figlia della sua migliore amica (morta in un incidente d'auto) e chiamando chiamato la sua società di produzione
Abnoud Film. Quindici giorni dopo averlo incontrato per la prima volta, erano sposati. "L'ho visto leggere una poesia a casa di un amico, poi l'ho sentito mentre leggeva poesie proletarie alla radio e ho detto: 'Devo sposare quell'uomo". Ha cercato di imitarlo. Film poetici, i suoi. Dicono i critici.
Era la più piccola delle quattro sorelle ed è stata l’unica
dei sette figli a laurearsi, lavorando come impiegata delle ferrovie per
pagarsi i costosi libri universitari e le tasse. Nasser aveva aperto le scuole
a tutti, ma non tutti potevano permetterselo.
Dopo la tesi in legge al Cairo nel 1963, attrice e aiuto
regista teatrale, ha studiato teoria del cinema in Egitto, nel 1972-74, diplomandosi con il cortometraggio “eretico” Sad Song of Touba, sui performer di
strada del Cairo, contorsionisti e mangiatori di fuoco, premio Fipresci a
Grenoble (la volevano obbligare a girare il saggio sul terrazzo della scuola,
invece si impose e girò un documentario). Presentò quel film in uno dei primi
festival di cinema delle donne organizzato, dall’Unesco, a Sain Vincent alla
fine degli anni 70. Assieme al primo battaglione di registe donne, da Agnes
Varda a Elda Tattoli, da Anna Karina a Mai Zetterling, da Lea Pol a Susan
Sontag… E poi, finalmente, ha studiato
anche pratica del cinema a Londra, all’International Film and Television
School, per tre anni fino al 1976. Un po’ sconvolta dalla freddezza locale, e
non solo a livello climatico, ma di rapporti tra le persone, e da una cultura
terrorizzata dal contatto fisico, è entrata nel circolo dei filmmaker radicali
africani e West Indies di John Akomfrah e dell’Audio and Video Film Collective,
ma non vedeva l’ora di tornarsene a casa, pur avendo ottenuto il permesso di
soggiorno.
Il suo primo corto amatoriale di 12’ era stato Horse of Mud, realizzato nel 1971 dopo
due anni di lavoro, a partire dalla fine di agosto ‘69, perché le sue eroine,
donne che fabbricano mattoni con il fango, dovevano aspettare l’estate
successiva perché i loro manufatti si seccano solamente al solleone.
Ha ricevuto, proprio su quel set, la prima lezione morale.
Ha chiesto a una ragazzina esile che portava sulla testa 25kg di mattoni di
fermarsi un attimo affinché l’operatore le facesse un bel primo piano… “Dopo un
minuto ha cominciato a insultarmi, molto pesantemente. La stavo manipolando.
Non mi rendevo conto di cosa significasse bilanciare sulla propria testa un
peso simile…”.
Però Horse of Mud
ha vinto ben 28 premi internazionali (e tra questi Damasco, Grenoble e
Mannheim).
Anche i suoi corti scolastici, di sconvolgente sensibilità,
sono andati in giro per festival, anche occidentali e molti sono stati
acquistati dalle tv europee: Jumble sale (1973), Two festivals in Grenoble (1974), Il Sandwich (1975), il medio metraggio London views di 45’ (1976).
In Egitto la tv nazionale non compra film locali, meno che mai li
finanzia, e coi documentari non turistici o non di propaganda, neanche a
pensarci.
El Abnoudi ha potuto lavorare grazie alle coproduzioni
internazionali, alle nuove tecnologie video che hanno abbassato i costi di
produzione e nel 2004 perfino lavorando con il Super (L’Etiopia vista dagli egiziani), di 30’.
foto: Randa Shaath
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Molti festival internazionali le stanno rendendo omaggio, a
cominciare dall’Alexandria Film Festival (AFF) for Mediterranean Countries
(nell’ottobre scorso), e nel marzo 2019 dall’Aswan International Women Film
Festival.
In questi giorni l’Ismailia International Film Festival for
Documentaries and Short Films ha deciso di intitolare l’edizione 2019 “El
Abnoudi”. Il Fifal, festival del cinema amatoriale di Kélibia (28 luglio-3
agosto), le dedicherà una grande retrospettiva.
Retrospettive dei suoi lavori sono state anche organizzate dalle
cineteche di Amburgo e Bologna, e dai festival di Tempere e Los Angeles. El
Abnoudy è stata membro delle giurie internazionali di Manheim, Oberhausen e
Kélibia e ha diretto la scuola documentaristica egiziana (incasico aministrativo, non le era possibile insegnare, e si è dimessa...). Ha scritto due libri. Days of Democracy (utilizzando i materiali su donne egiziane e politica raccolti durante la lavorazione del film) e il racconto dei sei mesi di prigione durante i quali il marito e altri 15 intellettuali (Ibrahim Fathi e Salah Eissa) erano stati imprigionati con l'accusa di preparare un'insurrezione maoista. Un libro di memorie esilarante sul grottesco di un regime così terrorizzato dai "banditi rossi" da non immaginare neppure per un momento che tutte le donne di quei sovversivi dovevano essere altrettanto pericolose ....
foto: Randa Shaath