Gabriele Levada - I nomi del signor Sulcic |
Mariuccia
Ciotta
Il
confine divide la terra, il sogno, il passato e il presente. La
colonna sonora di Franco Battiato muove i personaggi in una danza di
ombre. Trieste e l'altrove, Lubiana. Alla ricerca di un'identità
sfuggente. Chi è il signor Sulcic e perché ha tanti nomi diversi?
Il labirinto di indizi passa dalla tomba di una donna seppellita nel
cimitero ebraico di Trieste che una giovane ricercatrice di Ferrara
viene a cercare per conto di un'altra, Irena Ruppel (Lucka Pockaj),
slovena. Tra le mura della sinagoga, Roberto Herlitzka sembra uscito
da un fotogramma di Manoel De Oliveira così come tutto il film
diretto da Elisabetta Sgarbi su sceneggiatura solenne con humour di
Eugenio Lio.
Un
film immerso nell'avvolgente mistero di fantasmi familiari, tracce
autobiografiche, fotografie sopravvissute al tempo. E i primissimi
piani così insistiti e prepotenti? Le “teste” dei personaggi
quasi tagliate dai corpi? De Oliveira qui non c'entra, ma i volti
scanditi aggiungono al noir l'ambiguità di un'indagine cartografica
emozionale microscopica. E istigano gli attori a superarsi. Irena
cerca sua madre sulla linea di frontiera e nel sovrapporsi storico di
presenze aliene, nazisti, titini, alleati, italiani, sempre
con lo sguardo fisso sul Delta del Po, set ideale della regista e
luogo di provenienza del malinconico Gabriele Levada, pescatore,
così espressivo “che al suo posto non avrei preso neanche Clint
Eastwood”, già protagonista del documentario di Sgarbi Il
pesce rosso dov'è?. Gabriele fa da guida all'enigma sulle
origini di quella donna e di suo marito, quel signor Sulcic
camaleontico e inafferrabile che una spavalda Elena Radonicich vorrà
smascherare solo nella riunione finale a Tolmin, presenti i
protagonisti del “giallo”, una scena alla Agatha Christie, con
Irena al posto di Monsieur Poirot. La storia di fantasia si intreccia
con il cimitero notturno, reale come i volti dei suoi inquilini,
immerso in un'oscurità cangiante, lungo il percorso che va da
interni-giorno dentro case antiche a esterni freddi, aria da neve,
dietro la verità di un uomo nascosto in un passaporto tedesco negli
anni della guerra nazi-fascista.
I
nomi del signor Sulcic, presentato in anteprima al Torino Film
Festival, esce più decisamente dalla non-fiction, anche se tutti i
film di Elisabetta Sgarbi sfoggiano uno sguardo obliquo, da risveglio
ancora sognante, e dove appaiono, trasfigurati, allievi di se stessi,
Claudio Magris e Giorgio Pressburger, Adalberto Maria Merli e Paolo
Graziosi.
C'è
qualcosa di doloroso e inesplicabile in questo inseguimenti di
spettri, identità doppie che generano contrasti, corpi separati ma
uniti. Fratello e sorella costretti da ricordi incancellabili,
disubbidienti al poeta ferrarese che consiglia “Portami via la
memoria e non sarò mai vecchio”.
Un
film che deriva da una pratica poetico-visionaria, lavoro di tanti
titoli precedenti sull'arte e la storia, e che indaga un altro
confine, quello tra documentario e narrazione, analogico e digitale,
questione al centro del cinema di oggi. Sgarbi definisce I nomi
del signor Sulcic “inattuale e poco italiano”, ma
l'inattualità è ora l'oggetto del desiderio filmico, al
centro della ricerca sull'immagine-tempo. Cinema della trascendenza
secondo Paul Schrader che raccomanda di non perdere nell'astrattezza
del virtuale la materialità della storia, la politica del testo.
“Poco italiano” forse perché il film replica Lo strano caso
di Angelica, la ragazza morta di Lisbona che solo nell'obiettivo
della macchina fotografica e del cinema torna a sorridere.
Eelena Radonicich |