Roberto Silvestri
Liberamente ispirato al romanzo di Beppe Fenoglio
intimistico ma resistenziale Una questione privata (già trascritta
per immagini da Trentin e Negrin, per la Rai) Paolo Taviani ha portato in
montagna, tra le vacche e le nebbie, Luca Marinelli (mentre Vittorio
controllava tutto strettamente da Roma, bloccato in casa dopo un brutto
incidente) per girare nelle colline occitane dove Giorgio Bocca e lo stesso
Fenoglio combatterono con le brigate di Giustizia e Libertà, quella sorta di “Orlando Furioso che si scontra con i
nazi fascisti”, succo, secondo Italo Calvino, del bell’inedito fenogliano
incompiuto. Marinelli sa colpire chiunque con la luce radiante dei suoi occhi.
E ha tecnica sufficiente per rendere grafici i grovigli interiori di un pazzo
scatenato (sopra le righe) o quelli più inquietanti, sotto le righe, come in
questo caso. Non è verosimile Marinelli nel cuneese, con il suo sound
romanesco. Eppure è vero.
Paolo, a sinistra e Vittorio Taviani |
E poi basta epica. Fenoglio non voleva raccontare Il ritorno del partigiano Johnny. Ma, finalmente una storia d’amore. O di quasi
amore. Di sentimenti privatissimi ancora allo stato liquido come la pioggia o
gassoso come la nebbia che è una eterna presenza del film, ora minacciosa ora
rassicurante.
Una gelosia improvvisa, immotivata e incredibilmente fuori luogo,
visto il contesto, nasce per caso, incrociando, tra una scaramuccia e un’altra
in collina, la villa dove Milton, Marinelli appunto, era stato felice prima di
quella guerra (civile e obbligatoria) con Fulvia (Valentina Bellé, di decentrata concentrazione), l'amica di Giorgio (Lorenzo Richelmy), il biondo e
bello amico del cuore di Milton, tipo dalla bellezza meno apollinea. Mentre Giorgio è il borghese che non tradisce i suoi principi tra i contadini suoi compagni e dorme nella paglia con il pigiama e dopo essersi cosparso di borotalco.
E’ stata la ipnotica volontà di piacere e sedurre di Fulvia a introdurlo ai piaceri del corpo danzante,
dello swing liberatorio (Over the Rainbow,
cantata da Judy Garland, era già l’utopia fatta musica, la prefigurazione di un
mondo liberato dalle ossessioni terragne e machiste del sovranismo razzista
mussoliniano, una ascesa verso il cielo, oltre l’arcobaleno) e dell’erotismo
primordiale, nel mondo della infatuazione adolescenziale fatta di civetteria
spartana e triadica, improvvise fughe e inaspettate aperture lascive, presto
richiuse. Ricambiata con qualche sua lezione di inglese, perfezionato su testi
classici, come Cime tempestose di
Emily Bronte. Intanto la musica del film, di Giuliano Taviani e Carmelo Travia imbastisce variazioni continue del classico di di E.Y. Harburg e Harold Arlen mentre Simone Zampagli si attiene alle direttive di Paolo Taviani e taglia dalle montagne tutte le cime tempestosi. Per non fare immagine turistica.
Ma un accenno casuale della anziana governante della villa,
ormai vuota, lo ferisce. Lo turba. E lo getta nella disperazione shakespeariana
di Otello (se avesse la sua età e esperienza). La mezza verità, il sapere a
metà, e in piena guerra, cancella dalla sua mente ogni altra preoccupazione, obiettivi
strategici e tensione militare compresa. Situazione da corte marziale. Ma
Giustizia e libertà è più aperta e tollerante delle Brigate Garibaldi. Ne sa
qualcosa Pasolini e suo fratello. Forse Giorgio lo ha tradito con Fulvia. O
viceversa. Deve conoscere la verità. E c’è solo un modo. Deve assolutamente rapire
un repubblichino e scambiarlo con Giorgio, catturato dai fascisti in una zona
pericolosa. Perché chi comanda quella brigata nera è un giovane che diventerà
decenni dopo un famoso e ammirato attore, regista e direttore di stabili. Ma
che in quel momento è un fanatico e famigerato fucilatore di partigiani….Il
fatto drammatico è che il fascista catturato è presto cadavere. Inservibile. La
tragedia di questa guerra privata con i propri fantasmi è in tre atti. La
felicità iniziale dello studente, prima della Resistenza. La pazzia del
combattente e… un happy end sorprendente (anche per chi conosce il romanzo) di
cui i fratelli Taviani sono specialisti. Nei loro film c’è sempre una grande energia
positiva da sprigionare. E cambiamenti sostanziali di stato. Si è qualcosa
all’inizio e si è differenti alla fine. E ogni tanto, a dare la chiave segreta
di ciascun atto, qualche scena “madre”, una composizione più complessa graficamente
e avulsa dal contesto, che contrasta, ironica o surrealista, con la fluidità realistica
o quasi realistica dell’azione e del dialogo. Un’arrampicata destabilizzante
sull’albero dei tre amici; un prigioniero nero, sadico e criminale di guerra che
suona la batteria jazz nello stile più complicato, e soltanto con la bocca; una
corsa su un ponte minato che potrebbe essere fatale.
“Per amore e per essere amati dalle persone che non
conosciamo e che forse non conosceremo mai”. Questa è stata la sorprendente
risposta dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani a Liberation che nel maggio del 1987 chiese a centinaia cineasti di
tutto il mondo Perché fate cinema?
Erano già gli anni del riflusso, del disincanto politico e della rivoluzione
sconfitta. E i due fratelli pisani che avevano esordito con un documentario
sugli eccidi nazifascisti a San Miniato, raccontando poi l’Italia in rivolta
sociale e totale degli anni sessanta, con I
sovversivi e Sotto il segno dello
scorpione, avevano già messo in discussione – secondo l’insegnamento del
loro maestro Roberto Rossellini – i procedimenti e le tematiche con i quali si
erano liberati della pesante dogmatica neorealista. Dopo i trionfi
internazionali di Padre padrone
(1977) e di La notte di San Lorenzo
(1982), i Taviani iniziarono un periodo di sperimentazione poetico-ermetica,
nel quale confluirono i loro amori segreti o palesi, la letteratura (russa
soprattutto, Tolstoj in particolare), l’umorismo feroce gogoliano, i film di
Dovchenko e John ford, e dunque la centralità del nonno e della campagna, la
scienza emozionale di Shakespeare, ovvero riuscire a tenere desta l’attenzione
del pubblico secondo dopo secondo con ogni mezzo necessario, musica, dialoghi,
immagini, il pensiero motore messo in movimento dalla ricezione. Non sempre i
loro esperimenti sono riusciti, ma negli ultimi anni una leggerezza di fraseggio
e una sicurezza maggiore hanno domato anche i testi di partenza più difficili,
come il Decamerone di Boccaccio, da
cui hanno messo in risalto le parti più segrete, il Giulio Cesare
shakespeariano realizzato con attori detenuti e La masseria delle allodole, sul genocidio armeno. E questa volta
anche per loro basta epica. Volevano raccontare una storia d’amore. Nel loro
film più intimo e teorico (parola che detestano). Almeno a giudicare dalla
risposta data a Liberation. Dedicato ai giovanissimi perché siano capaci
di fare meglio il salto dal quasi amore all’amore. Dalla quasi gelosia alla non
gelosia. Perché se lo appuntino il
consiglio: il destino di ciascuno deve
confondersi con il destino di tutti. Stendhal diceva che i romani sono il popolo più felice di tutti
perché per essere triste devi avere almeno un minimo di speranza. I Taviani
abitano a Roma da sempre. Ma hanno un minimo di speranza toscana. Pasolini, che
forse alla fine della sua vita aveva afferrato il segreto della romanità,
disperatissimo poco prima di essere ucciso, di fronte alla perplessità anti
nichilista dei suoi amici commentò: il
vostro ottimismo è ben più tragico del mio pessimismo.
Qualche domanda a Paolo Taviani
L’incontro con Paolo,
cordialissimo, avviene nella sua bella casa di Monte Verde, ovattata da libri
fantastici e circondata da un piccolo boschetto, anche se siamo a due passi, in
discesa ripida, da viale Trastevere. E’ un appartamento al terzo e ultimo
piano, con un terrazzo grandissimo che domina uno dei paesaggi più belli della
capitale, il Tevere, il gasometro, Testaccio, il Mattatoio. “Abitavamo nei
nostri primi anni romani in un piccolo sottoscala, conquistare questa casa, che
ho desiderato subito, è stata la realizzazione di un grande sogno.
Lina Nerli Taviani, la moglie
costumista, pisana anche lei, che ha lavorato sempre nei loro film (e con
Tarkowski e con Moretti) purtroppo ci lascia subito. Lavoro. Forse il nuovo
Moretti sul ruolo dell’Italia ai tempi del golpe di Pinochet? E’ misteriosa,
forse sì. Sono suoi anche gli abiti di Habemus
papam, oltre che di Padre padrone
(1977) il loro grande successo mondiale di critica e di pubblico. E alla Festa di Roma, oltre alla anteprima italiana di Una questione privata che è già stato a Toronto, Haifa e Pusan, vedremo un bel documentario di Sergio Naitza proprio sulla lavorazione di quel
film e sul ritorno in quei paesaggi completamente mutati. In tutto i fratelli hanno scritto e diretto 19 film, due
miniserie tv, due documentari (uno con Ivens), molta pubblicità (per vivere e
migliorare il fraseggio, e quando ci si vergognava di farla) e tante
trascrizioni letterarie (Pirandello, Tolstoj, Goethe, Shakespeare, Antonia
Arslan…).
Anche voi avete dovuto uccidere padri ingombranti come
i neorealisti
Il cinema del dopoguerra
italiano è grande come il Rinascimento e il Melodramma dell’Ottocento.
Rossellini, De Sica, Visconti… Forse, dopo, siamo anche stati bravi a creare
dei film importanti. Quelli di Olmi, di Bellocchio, di Bertolucci e,
modestamente, La notte di San Lorenzo,
che tanto deve a Dovcenko. Ma quel momento creativo resta irripetibile. E ha
cambiato la nostra vita…. Il partigiano
Johnny, nella prima versione Einaudi del 1968, finisce (misteriosamente) con
la stessa frase che in Paisà ha
sconvolta la nostra vita e ci ha spinti a fare cinema: “questo accadeva nella primavera del 1945. Dopo due mesi la guerra era
finita”. Si tratta della didascalia
finale di Paisà di Rossellini, una
cosa immensa, che racchiude tutto il senso della vita. Della relatività della
lotta, dell’uomo, della natura
indifferente, direbbe Eisenstein. Sui corpi uccisi dei partigiani ecco il non senso di tutto. Una sequenza degna
di Caravaggio.
Rispetto al neorealismo e soprattutto alle sue derive
populiste o dogmatiche vi siete battuti per un cinema più soggettivo e dal
linguaggio ardito?
Non ci siamo mai posti il
problema del linguaggio. Discutiamo molto in sede di sceneggiatura, litighiamo
anche furiosamente. Prima, passeggiando a Villa Doria Pamphili: “basta non ci
sto me ne vado”. Come ogni storia d’amore, per il cinema in questo caso.
Scrivevamo sceneggiature di ferro
alla Pudovkin, che poi alla prova del set si sbriciolavano regolarmente. E
cambiavamo sempre molto di quello che avevamo pensato. Come il carrello labirintico
che avevamo immaginato per la morte di Cesare
e che dopo aver conosciuto gli attori-detenuti abbiamo ridimensionato a semplice
camera fissa, una sfida alla forza dell’immagine. Per quanto riguarda i deliri
formali ci siamo sfogati abbastanza con la pubblicità, che invece facciamo
separatamente. Io mi ricordo 10 caroselli per Ramazzotti nei quali ho utilizzato
tutti i generi hollywoodiani, dal western al giallo al comico… Il critico dell’Espresso Enrico Rossetti che
co-finanziava Un uomo da bruciare, ci
ha detto: ma voi in che stile lo girate? Io
e Vittorio ci siamo sentiti deficienti, non ci eravamo mai posti problemi di
stile. Vogliamo raccontare una storia come ci viene, risolvendo via via
problemi pratici, senza a priori teorici. Siamo nati al cinema con John Ford e Giovanna d’Arco di Rossellini. E una
volta Kezich ci ha pizzicati. In Kaos
abbiamo rubato involontariamente a Sentieri
Selvaggi una scena molto buia con, sullo sfondo, una porta illumata. Ford! Pensa al coraggio di questo regista americano
che fa una scena che finisce in silhouette! Il talento è lavoro, lavoro,
lavoro. E non è noioso il lavoro. E’ bello. Avrete delle delusioni. Verranno
brutti film, ma costruire delle storie, inventare è fare per me il cinema.
“Una questione privata” è il vostro “Jules et Jim”?
No. Il triangolo d’amore, fin
dai tempi di re Artù ha prodotto
racconti, a volte orrendi e a volte straordinari. E’ la storia dell’uomo. Ma
noi siamo molto lontani da Jules et Jim.
Anche se è un film per cui abbiamo ammirazione e rispetto, noi siamo sempre
stati più vicino ai russi che ai francesi. Io, mia moglie Lina Nerli Taviani e
Vittorio abbiamo sul comodino Guerra e
Pace. E anche Kurosawa. Nei Sette Samurai abbiamo scovato una sequenza
tratta proprio da quel romanzo di Tolstoj. Glielo abbiamo detto, quando lo
abbiamo conosciuto a Roma. E lui zitto.
Ci ha guardato e poi si è messo a parlare con gli altri. Dopo qualche minuto ci
ha però confessato: peut-etre. Eisenstein
e soprattutto Dovchenko contano molto per noi. Nella Notte di San Lorenzo, senza rendercene conto ne abbiamo copiato una
sequenza. Ma non ti dico quale.
Anche in “Jules et Jim” l’erotismo è a tre, e anche
qui uno degli amici muore.
E’ vero. Quando Milton cerca
Giorgio per sapere la verità, non gli basta la mezza verità, lo vuole anche
liberare. Lo ama in un certo senso. Qui c’è una contraddizione. Conoscere la
verità, annientare per gelosia e salvare per amore. Per cui c’è quest’incrocio di sentimenti che
abbiamo assecondato. Ma non è sicuro che Giorgio morirà. Anche se la storia ci
dice che il comandante dei repubblichini, lì, in quel momento, era un giovane biondo futuro attore
e regista di successo.
I fascisti non vengono rappresentati con troppa benevolenza? A parte il matto sadico
che suona la batteria con la bocca…
Nel romanzo Fenoglio scrive soltanto:” lassù c’è uno fissato con il
jazz…” Una riga. E invece noi facendo i provini abbiamo scoperto che sapeva suonare la batteria meravigliosamente con la bocca come se fosse la cosa che sapesse fare meglio nella
vita…. è straordinario e la scena è molto importante, l’abbiamo tenuta molto a
lungo per togliere realismo al film . E’ un assurdo quello che sta accadendo e abbiamo accentuato l'irrealismo della cosa allacciando un vero brano vero di jazz composto per l’occasione che si sovrappone ai
suoi rumori. E devo dire che quella sequenza l’abbiamo molto amata.
Non mi ricordo invece se la
scena del fucilatore che manda davanti al plotone d’esecuzione un suo
giovanissimo conoscente contadino, non senza rimorso apparenti, ci sia nel romanzo. Questo atteggiamneto fa parte un po’ della
conquista del concetto di guerra civile di Pavone, già contenuta in La
notte di san Lorenzo. Sentivamo che i fascisti, che noi chiamiamo continuamente scarafaggi nel film, e sono orrendi, ammazzano i
bambini, dovevano anche essere descritti anche come vittime della situazione. E c’è dunque questo momento di quasi umanità … Però nei fatti lui fa fucilare il ragazzo, ha un momento
scoramento perché lo conosce e conosce i suoi familiari. Nella vita è così, io
li ho visti a san Miniato i fascisti
che non volevano prendere i figli
di amici l’abbiamo vissute queste cose e quindi lui ha questo momento di incertezza e di dolore. Ma passa.
Il disco che i tre amici amano alla follia, "Over the rainbow" c’è nel romanzo?
Si, certo comincia così il
romanzo. Fulvia dice “l’ho già ascoltato 28 volte”. I dischi arrivavano
dall’America prima della guerra. Comunque è nella storia di Fenoglio
che in queste cose è precisissimo. Noi abbiamo trovato proprio il disco d’epoca. E
abbiamo lavorato nella colonna sonora sulla variazione di quella canzone. Il tema è quello, scomposto, rimaneggiato,
frantumato e rielaborato da Giuliano Taviani. Certo quando la ascolto come
sigla del Radio Taxi la “migliore canzone del XX secolo”, è proprio deprimente
e mi fa incavolare a morte.
Perché non avete voluto presentare una questione
privata al festival di Venezia?
Tranne l’Oscar, abbiamo vinto
tutto, e da molto tempo presentiamo i nostri film solo fuori concorso. Se a Berlino
abbiamo gareggiato (e vinto) con Cesare deve morire, è perché lo dovevamo
ai detenuti che hanno lavorato nel film. Ma oggi preferiamo lasciare spazio ai cineasti più giovani.