venerdì 28 ottobre 2022
Patafisica del vento. “Bentu” di Salvatore Mereu
Roberto Silvestri
Via col vento, Vento di terre lontane, L’altra faccia del vento… e naturalmente Canne al vento,
Questo vento (Bentu in sardo), protagonista trasparente del nuovo film, didattico-colturale, e a colori vivi, di Salvatore Mereu, modifica il paesaggio, danza tra il giallo intenso dei campi di grano e il blu assoluto del cielo, e produce incanti. Si potrebbe definire il lungometraggio breve di Mereu una perfetta (ma anche atroce) fiaba slow food. Senza principi né principesse. Ma con gli orrori e la morale dei racconti popolari.
Siamo a Sanluri, nel Campidano, al centro della Sardegna. Terre aspre e feconde che producono grani antichi (repellenti all’OGM) e un pane unico, il Civraxiu.
E terra di cavalli e asinelli, di turismo equino, sagre e corse in costume. Nel 1409, proprio in queste pianure, i catalani infransero il sogno di una Sardegna sarda. Ma, ironia della sorte, nessuna delle due nazioni, poi, divenne stato…
Non siamo comunque dentro un’opera “film commission”, anche perché in Sardegna funziona come deve il rapporto tra immaginario e promozione/valorizzazione del territorio, che deve essere obliquo, indiretto, inconscio. Non ci si accontenta qui di cartoline illustrate.
Liberamente tratto da una novella di Antonio Cossu (1927-2002), dalla raccolta "Il vento e altri racconti", Bentu si svolge nella seconda metà del '900. Il cinema contemporaneo ci ha abituato (da Lisandro Alonso a Fabrizio Ferraro, da Tarkovski a Apichapong Weerasethakul) ad andare contro corrente rispetto alle abitudini del telespettatore smanioso di attenzione continua e terrorizzato dai tempi vuoti. Se un film, come suggeriva Pasolini, è un corpo, si cerca di restituirgli la respirazione umana. Ma già negli anni 50 e 60 del secolo scorso l’era del boom economico (per pochi) non si parlava che di sorpasso.
E avanzava possente lo sviluppo industriale nelle campagne, e arrivavano le trebbiatrici meccanizzate ad alleviare la fatica nei campi. Ma nell’Italia democristiana la riforma agraria non ha sbriciolato, se non nei bordi, il latifondo (inebriato di bracciantato a costo zero, e dalla quantità mai dalla qualità del raccolto) né collettivizzato le terre, per la gioia, soprattutto cinematografica, del kolkoz ucraino.
Solo pochi agricoltori indie, dalla vista lunga e di antica sapienza, si battevono istintivamente e anacronisticamente per la difesa della biodiversità e contro l'omologazione dei sapori, l'agricoltura massiva e le manipolazioni genetiche.
Uno di questi presidi involontari è l’appezzamento dell’anziano e burbero contadino Raffaele. E trasmette la sua scienza al suo piccolo, scalpitante e recalcitrante nipotino Angelino: c’è differenza tra sviluppo, che è per il Pil, e progresso, che è per il Pop(olo). E’ Raffaele la modernità, addirittura la fantascienza che già immagina agio e lauti profitti grazie a Kamut, grano Cappelli e Carlo Petrini. Il piccolo Angelino che è anche un vivace pescatore di anguille, e ha già colto il ritmo frenetico del nuovo mondo, non si accorge però che è un falso movimento fare un passo in avanti per poi rischiarne due indietro. E che vanno perciò rispettati i tempi asincroni e dissonanti della terra e i piaceri nascosi dell’habitat. Bisogna saper aspettare il vento, che liberi il grano dalla paglia. E anche attendere il momento giusto per cavalcare. Ma Angelino, coi suoi 10 anni, è troppo smanioso. Accetta di “alzare l’aria”, cioè di sollevare il raccolto di grano da terra con il forcone per separarla dalla paglia pur di ricevere, come premio, il permesso per l’agognata cavalcata che lo farà uomo prima degli amici.
Naturalmente non raccontiamo il finale del film. Ma non c’è bisogno perché il film di Mereu è giù dentro una fiaba sul significato dell’arte, che Viktor Skovskij ruba liberamente alla raccolta indiana di racconti Hitopadesa e riprende in La mossa del cavallo (1923) e che sembra profeticamente anche parlare all’Italia di Giorgia. Immaginate che il piccolo e impaziente Angelino sia diventato il contadino protagonista di questa storia.
“C’era una volta in un regno lontano, un contadino. In autunno mieté il grano, si mise a trebbiarlo e intanto bestemmiava. Passa un vecchio e gli dice: “Perché bestemmi, perché contamini l’aria pura? Non basta la capanna per bestemmiare?
E il contadino: “Come faccio a non bestemmiare? Il raccolto è pessimo. San Nicola ne ha combinata un’altra delle sue; quando ci voleva la pioggia ha mandato bel tempo e quando c’era bisogno di sole ha mandato il gelo. Ma il vecchio era San Nicola in persona. Si offese e gli disse: “Be’, se non t’accontento del tempo, ti darò l’autodeterminazione; eccoti il mandato così il tempo te lo fai da te. Il contadino si rallegrò e si mise a organizzare il tempo a modo suo. Ma quando in autunno fece il raccolto trovò che era brutto, bruttissimo.
Eccolo che trebbia e bestemmia, e bestemmia tanto che i cavalli che arrancano per la strada storcono il muso.
Passa San Nicola e ride:
-Come va il raccolto?
Il contadino bestemmia così forte che le nuvolette di passaggio fanno “ah!” in cielo.
- E’ forse un raccolto questo?
- Be’ raccontami come hai organizzato questo tempo.
Il contadino racconta tutto punto per punto.
Il Santo ride:
- E di vento ne hai fatto?
- Perché mai, il vento non fa che scompigliare il grano.
- Il vento ci vuole; senza vento non viene fecondata la segale né il grano. Scommetto che non hai fatto neppure un temporale.
- No.
- Occorre anche il temporale.
Allora il contadino ci pensò su e disse al Santo.
- Sai che ti dico: fallo tu il tempo.
E il Santo di rimando:
Hai fatto proprio come la gente in Italia che poi è diventata idiota.
- E cosa hanno fatto in Italia per diventare idioti? – chiese il contadino.
- La gente che viveva in Italia (o forse in Giappone?), cominciò ad accorgersi da sé, o forse se ne accorsero gli altri, che diventava più sciocca di giorno in giorno, e d’estate, con l’ora legale, anche tre ore in anticipo. Interrogarono i medici e quelli, dopo molte faticose ricerche, scoprirono l’enigma: quegli italiani mangiavano il riso brillato (o il grano tenero?), mentre il nutrimento indispensabile per il cevello si trova bensì nel riso ma soltanto nella pula.
Allora un medico disse:
- E’ inutile inventarsi il cibo. Non si può prevedere tutto. La gente diventata idiota per non aver mangiato le glumelle del riso assomiglia all’uomo che si è dimenticato del vento…
La morale della fiaba per Sklovskij è che si finanzia, si regolamenta, si giudica l’arte senza sapere cosa sia. “Noi russi trascuriamo l’arte come le glumelle del riso”. L’arte non è uno dei tanti mezzi di propaganda. L’arte adesso viene regolamentata come il movimento dei treni, invece bisognerebbe permetterle di muoversi organicamente, come fa il cuore nel petto dell’uomo. La volontà di strafare conduce al disastro. Lasciate libertà all’arte, non in nome dell’arte ma perché non si può regolamentare ciò che non si conosce. Non a caso Enrico Ghezzi chiamò la sua rassegna ‘filosofica’ di Procida “Il vento del cinema”.
giovedì 27 ottobre 2022
Era gennaio a Riga. Alla Festa di Roma vince un film lettone, January di Viesturs Kairiss
Mariuccia Ciotta
Immagine mutevole, si cambia formato, la narrazione passa dall'analogico al digitale al super8, filmati d'archivio, colori smacchiati dal tempo, fotografia sgranata (del polacco Wojciech Staron). Siamo nel 1991 a Riga, Lettonia e il diciannovenne Jazis (Karlis Arnolds Avots) è inquieto, va e viene lungo i corridoi dell'Accademia d'arte, filma le manganellate sovietiche in sala stampa. Si deve tacere sullo strappo da Mosca. Il paese ha decretato l'indipendenza l'anno precedente, ma la caduta del Muro è ancora fresca, e all'Urss non va che si sfugga alla sua sfera di influenza.
January di Viesturs Kairiss ha vinto tre premi alla Festa di Roma n.17, che con la direzione di Paola Malanga ha ripristinato il concorso. Miglior film, regia e attore protagonista, dopo la vittoria al Tribeca Film Festival.
Documentari e opere liriche all'attivo, il regista (51 anni) gioca con materiali e toni emozionali diversi e ricorda il sé ragazzo e il grande cineasta Juris Poniesk (Juhan Ulfsak), un documentarista scomparso a soli 42 anni nel 1992. Cinema e storia dichiarano la nostalgia per il tempo delle grandi speranze, Jazis oscilla tra l'illusione comunista del padre – vuole arruolarsi nell'esercito russo – e le barricate contro l'Unione sovietica, finita non troppo bene nonostante la glasnost di Gorbaciov, che il 6 settembre 1991 riconoscerà l'indipendenza della Lettonia.
Commedia adolescenziale, umorismo, scherzi, giochi, amori, gelosie, e la sensazione di qualcosa di perduto. Il cinema della Nova Vlna ceca fa l'occhiolino a Jim Jarmusch e a Godard, e abbandona la venerazione per Bergman e Tarkovsky dei ragazzi lettoni. Kairiss sembra guardare più verso Paul Thomas Anderson e i suoi fotogrammi “sporchi”, metà messa in scena, metà realtà, luoghi e “fatti realmente accaduti”. Una specie di sbandamento dello sguardo, la doppia visione di Jazis verso la sua ragazza Anna (Alice Danovska), che lo lascia per uno stage con Poniesk, e la realtà dell'attacco sovietico a Vilnius, Lituania, che, come la Lettonia reclamava l'indipendenza, ottenuta nel settembre '91.
Ma prima, il 13 gennaio, le truppe russe invasero la capitale, ne seguì uno scontro che provocò la morte di 14 persone e il ferimento di 700 cittadini. Su queste macerie l'alias del regista ritorna e cerca di ritrovare lo spirito di qualche rivoluzione, quella estetico-politica raccontata da Sergej Eisenstein, per esempio, nato di gennaio a Riga, e (naturalmente) mai nominato.
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martedì 18 ottobre 2022
Nino Migliori – Viaggio intorno alla mia stanza
di Mariuccia Ciotta
Il Tuffatore se ne sta in posa dal 1951, fermo sulla linea dell'orizzonte, a consacrare l'opera più celebre di Nino Migliori, classe 1926, che sfugge alla definizione di fotografo, e ancora adesso sfida luce, colori e materiali alchemici. Lo cattura in movimento Elisabetta Sgarbi con il suo Nino Migliori – Viaggio intorno alla mia stanza (41' 20”) presentato alla Festa di Roma nella sezione Freestyle.
Tre correnti di sperimentazione si intrecciano nel film, tutte fuori dai limiti della propria disciplina. Migliori non si accontenta di aver fissato su carta XX e XXI secolo, passando dallo stile realista al realismo “tumefatto” e tonale - che ricorda i paesaggi e le nature morte dell'amico Morandi - all'astrattismo, fino a una pura espressione patafisica che etichetta l'album fotografico con definizioni tipo Ossidazioni, Pirogrammi, Cellogrammi, Lucigrammi. Da oggetto di indagine filmica, Migliori si ingegna a manipolare le visioni in campo, fiorite nell'occhio del diaframma, come in un film muto. L'effetto è uno strano caos di segni e di sorprese fluorescenti, di giochi metamorfici che entrano in collisione con la musica di Mirco Mariani, polistrumentista degli Extraliscio, anche lui in vena di invenzioni. Una pista di rumori, melodie e battiti. Magnifiche deviazioni sonore.
Al soggetto e alla regia partecipa Eugenio Lio con il suo tocco lirico-filosofico che chiama a raccolta la piccola (voce da usignolo) Gilda Mariani e la musa di Migliori, Marina Truant.
Il film gira nello spazio-atelier bolognese di Migliori e scivola dal falso piano del documentario alla vertigine visiva. Elisabetta Sgarbi entra nel mondo a rovescio di Alice, che, passata attraverso lo specchio, può mischiare magicamente suoni e immagini. Un film allucinatorio, un thriller composto da fantasmi, statue piangenti, palline trasparenti che rimbalzano nello spazio, volti riflessi e sdoppiati. Trasfigurazioni. E' questa, probabilmente, la sua opera che, caleidoscopio di forme mutanti, più di altre coniuga innovazione di linguaggio e flusso narrativo.
giovedì 13 ottobre 2022
"A Cooler Climate" di James Ivory e Giles Gardner apre la Festa di Roma. Premio alla carriera per il regista di "Camera con vista"
Roberto Silvestri
Grande partenza a Roma con A cooler climate di James “Solid” Ivory. Un film (appena visto anche al New York Film Festival) profondamente personale. Finalmente Ivory è entrato nella “modernità” espressiva, anche se da molto adulto (Luca Guadagnino ce lo aveva un po’ anticipato in Chiamami col tuo nome, scritto da Ivory).
Ma per l’americano Ivory, provinciale e gay nel regno dei boscaioli, non era stato proprio facile fare coming out. Almeno non come per Christopher Isherwood, l’impertinente inglese che scandalizzava i salotti letterari e le spiagge dei surfisti di Los Angeles anni 50, esibendo il suo amante minorenne (ce lo hanno raccontato in Chris & Dan Tina Mascara e Guido Santi).
La proiezione di A Cooler Climate (che è anche il titolo di un vecchio tv movie di Susan Seidelman) era affiancata a un grande riconoscimento che il presidente Gianluca Farinelli e la direttora della Festa di Roma, Paola Malanga, gli hanno squisitamente voluto fare. Il premio alla carriera. Invece Solid Ivory è il titolo del suo recente libro di memorie, nelle quali racconta la sua vita e le sue avventure sul set con Maggie Smith, Anthony Hopkins, Vanessa Redgrave, il suo rapporto con il British Style, comprese le musiche commoventi e spigolose di Richard Robbins.
Il premio alla carriera della Festa di Roma è stato infatti consegnato oggi al cineasta più nomade e transcontinentale di tutti. James Ivory. 94 anni e 40 film sempre fotogenici all’attivo, unici e sensuali, fuori schema, illuminati dagli attori e dalle attrici più cool e da ambienti e luci chic, e se “accademici” e “classici” appartenenti però a due Accademie e a due classicismi ben contrapposti e da lui quasi fusi: l’Orientale e l’Occidentale. Basta ripensare alle sue opere più note.
Party selvaggio, Roseland (dimenticato, ma oggi ci sembra il suo più obliquo, libero e charmant), Gli europei, Quartet, I Bostoniani, Calore e polvere, Camera con vista, Casa Howard, Quel che resta del giorno….
Ivory, cittadino di agiata famiglia industriale dell’Oregon, settore legname, è già coinvolto da piccolo nel mondo magico del cinema (il padre vende legname per i set hollywoodiani della Mgm e se lo porta dietro).
Nel nostro immaginario la sua opera è irresistibilmente collegata all’India e all’Oriente meno estremo. Stilisticamente all’adorato modernista Satyajit Ray. Sentimentalmente al suo partner di sempre, il produttore indiano Ismail Merchant (ma in Solid Ivory si svela che il compositore Robbins era anche l'amante di Merchant, un rapporto che non sembra aver minacciato il primato della loro relazione) e alla sua sceneggiatrice indiana, Ruth Prawer Jhabvala…
Testi letterari di pregio, sempre, dietro ai loro lavori, compreso questo, presentato all’Auditorium Parco della Musica.
A cooler climate (Un clima più fresco), 75’, accompagnato da un giro melodico minimalista, ripetuto e vivace di Alexandre Desplat, malinconico documentario introspettivo, puzzle di memorie, è l’autobiografia di un corpo represso che si scioglie e cresce molto lontano dall’ambiente claustrofobico natio. Strano, no? Proprio a Kabul. E non può che iniziare proustianamente e affidarsi poi al fascino della prima autobiografia di pregio letterario e pittorico, redatta nei primi anni del XVI secolo, da un condottiero, il mongolo Babur, il conquistatore dell’Afghanistan, poi fondatore della dinastia Moghul, che ha regnato in India per tre secoli, ma anche raffinato scrittore d’avangardia. Ivory ce ne legge molte pagine.
A cooler climate, il piacere di un clima favolosamente temperato, accomuna proprio Ivory e Babur (entrambi omosessuali), e prende lo spunto da un anno giovanile trascorso in Afghanistan tanto tempo fa. Inizia con il regista che oggi, intento al trasloco dalla sua casa stile coloniale (ovviamente) americana, un po’ screpolata, ritrova in una cassa le pizze piuttosto scolorite nonostante i ritocchi digitali di un film mai montato, che sarebbe stata la sua opera terza, del 1960, sequenze girate a Kabul, nei dintorni, sul fiume, nelle campagne, prima dell’invasione sovietica, della resistenza talebana, degli americani, dei mujaheddin…. Diventa uno stupendo documentario raccontato fuori campo in prima persona singolare maschile gay (non solo illustrato dunque dal suo archivio privato di immagini a colori), e diretto, per pudore penso, con il montatore inglese Giles Gardner (che in Afghanistan nel 2018 ha scritto con Sara Mahni “Mille ragazze come me”, un doc sulle figlie molestate e violentate dai padri, poi protetti nei tribunali da un sistema giudiziario patriarcale).
Alla ricerca del tempo perduto Ivory lo ha letto proprio mentre viveva a Kabul e la scrittura di Proust evoca per lui il raglio del bestiame, la sua madeleine privata acustica, visto che si trovava in un paese per il 99% rurale, che ambiva alla modernizzazione (strade finanziate dagli americani, dighe dai sovietici, entrambi pronti ad assaltare quello strategico ma indocile territorio) ma manteneva tracce coriacee del secolare passato, come il girovagare del bestiame tra gli autobus pubblici e il chador e il burqa non più obbligatori, ma vivamente consigliati alle donne. In quel momento Ivory aveva all’attivo solo due documentari, uno dedicato alle bellezze di Venezia e un corto sulle antiche miniature indiane.
Ed era atterrato in un paese lontano (che non era ancora la meta fissa del turismo hippies, inebriato dall’hascisc, dall’afghano nero e dai suoi poteri lisergici) e nell’aeroporto più disagevole e abbandonato del mondo, oltretutto lontano dalla capitale, solo perché affascinato proprio dal leggendario clima di quel paese, “il migliore del mondo”, temperatura mai superiore ai 30 gradi, “si dormiva con le coperte anche d’estate”.
Città bruttina, senza monumenti di rilievo, Kabul, circondata però da montagne magnifiche che conservano le vestigia della muraglia edificata da quel grande conquistatore mongolo, morto a 48 anni, discendente diretto di Tamerlano. Esotismo zero, nel testo e nelle immagini. Il ricordo, invece, dell’estrema l’avversione per il cibo, un incubo per il suo apparato digerente, molte scene di vita quotidiana cittadina e rurale, come l’arrivo a Kabul dal Pakistana di una signora inglese cliente fissa dei parrucchieri locali, altro che Karachi, e che lui riaccompagnerà a casa in auto, o bimbi che giocano nel fiume lanciandosi come fosse un pallone la testa mozzata di una capra.
Sono però i giovani adorati amanti maschi di Babur, raffigurati negli antichi libri illustrati a guidare e ispirare Ivory nei suoi ricordi, il vagabondaggio intellettuale dell'imperatore nei vicoli della città, l’incontro con un quasi mendicante malvestito che offriva la rosa al sovrano e poi spariva, in contrapposizione alle sue avventure sensuali o eroticamente abbozzate tra i sunniti, e soprattutto in contrasto con i traumi infantili, alla derisione in Oregon dei suoi coetanei quando, per Natale, affermò in classe che, come regalo, non voleva fucili, ma una “casa di bambole” da decorare minuziosamente (era già l’ossessione scenografica, e non per le “bambole”, a ispirarlo) . Grazie Kabul, per la via di fuga che gli hai regalato, per quella spinta ricevuta verso l’autorealizzazione, anche creativa, data a un cineasta ormai pronto a regalarci le grandi narrazioni cinematografiche che hanno poi conquistato i prestigiosi festival negli anni 80 e 90. Grazie anche per quella statua di Buddha sopravvissuta per migliaia di anni ed eternizzata in questo film, anche se i talebani l’hanno sbriciolata nel 2001. Il momento più toccante del film è quando Ivory racconta l’incontro con due uomini afgani, l’amicizia rapida, l’invito casa, James che si chiede: “chissà se faremo sesso”, in un misto di desiderio e paura. Non lo faranno. Almeno questo ci dice il film.
lunedì 10 ottobre 2022
Le incantevoli notti di Pordenone. Giornate del cinema muto n.41
Roberto Silvestri
La maggior parte dei festival prestigiosi brillano per il contenuto artistico dei film selezionati, ma c’è un appuntamento mondiale di serie A in cui è soprattutto il contenuto artistico della sala cinematografa a contare.
Se si entra infatti – senza mascherina, distanziamento sociale e prenotazione, finalmente - nel teatro Verdi, affollata sede storica delle Giornate del cinema muto di Pordenone giunte alla 41esima edizione (1/8 ottobre), si troveranno fianco a fianco non solo i luminari, uomini e donne, della cultura cinematografica planetaria, i critici (pochi gli italiani, ma c’è Stefano Masi e Sergio Grmak Germani), gli archivisti, i restauratori, gli storici d’ogni continente, e quest’anno anche una copia di sublimi cinefili, il regista John Landis e la costumista e storica del costume Deborah Nadoolman Landis, ma anche i musicisti e i direttori d’orchestra che trasformano ogni appuntamento in un evento unico e irriproducibile. La versione più completa mai vista di The Unknown , lo sconosciuto, di Todd Browning, ci ha restituito in apertura del festival un'opera di modernità e potenza immaginaria devastante degna di un lavoro oltre l'horror di David Cronenberg, con una performance di Lon Chaney affidata a piccole variazioni Goldberg sul suo volto, dalla felicità più beata all'angoscia più disperata, di micidiale effetto, tanto da annullato qualunque effetto Kuleschov.
Circo. Mondo gitano. Spagna.
Tutti hanno i fazzoletti in testa. Contesa d'amore tra sollevatore di peso e Alonso, il lanciatore di coltelli. Obiettivo Nanon (Joan Crawford), bella ma imprendibile. Ha la fobia delle mani maschili, non vuole farsi avvicinare, meno che mai toccare. Il lanciatore di coltelli sembrerebbe prevalere. Infatti è senza braccia. Lancia con i piedi. Non può abbracciarla. Fa tutto con i piedi. Il rivale piega l'acciaio ma quando si avvicina a Joan, viene respinto con rabbia. Le cose però non sono come sembrano. Infatti lei ama il forzuto, non l'amico "mostro" con cui è più affettuosa. Che poi mostro non è. E' tutto un trucco, ideato per non avere fastidi dalla polizia che ricerca ovunque un pericoloso assassino e rapinatore...Lon Chaney ucciderà perfino il padre di Joan, il padrone prepotente del circo... Ma quando si rende conto che lei potrebbe scoprire il suo segreto, ricatta un chirurgo (reo di aberranti crimini nel passato, in Algeria, chissà cosa ha fatto...) e si fa operare. Le braccia le perde davvero, per amore. Ma Joan supera la psicosi e si mette con mister muscolo. Chaney prepara l'atroce vendetta. Il rivale fa un pericoloso spettacolo con i cavalli. Li trattiene mentre corrono uno di qua e uno di là.. Basterà controllare la leva che ne trattiene la velocità e....
Non si va a Pordenone per snobismo ma per lavorare. Non per commuoversi nostalgicamente davanti alle immagini di un’arte perduta per sempre – è crescente infatti anche il numero dei giovani critici che partecipano al Collegium, e vogliono confrontarsi con la vitalità di queste immagini - ma per rimuoverne e riattivarne i sensi, per deformare e riscrivere collettivamente e continuamente le storie del cinema, per ribaltare gerarchie ammuffite e obsolete, per vendicare talenti dimenticati, inattuali allora, ex anacronistici, futuristi oggi. Ogni frammento ritrovato può aprire sentieri fecondi. Se il destino per il cinema (non sul web, non in televisione) è legato ai grandi eventi, al futuro super show Marvel (in larga parte muto quanto a qualità e quantità dei dialoghi) ecco che le Giornate del Muto di Pordenone sono un po’ un’esperienze limite di quel tipo. Ci sono solo proiezioni eccezionali. E uniche. O grandi scoperte.
Da Norma Talmadge a Meryl Streep
Per esempio senza la conoscenza approfondita (e per noi la scoperta) di Norma Talmadge, oggetto della retrospettiva divistica di questo 2022, ovvero della regina rimossa prima del cinema newyorker anni 10 poi della Hollywood anni 20, dell’attrice e produttrice che al fianco di Joseph Schenck fabbricò e rese il melodramma l’asse portante del mercato cinematograficamente “serio”, si comprenderebbe molto meno un certo tipo particolare di diva e la strada che da lei e da Norma Shearer e Ann Harding ci porta a Greer Garson, Deborah Kerr, persino a Grace Kelly e infine a Meryl Streep. Cioè alla storia dell’attrice di classe, dell’alta recitazione Studio System, di quelle performer capaci di interpretare i classici della letteratura e del teatro o le Grandi Donne della Storia Americana, asiatica, nativa o europea (nel caso di Talmadge: Yes or not, le imbarazzanti epopee colonialiste The Forbidden City e The Hearth of Wetona e The Moth). Hollywood non produce solo sex symbol o bellezze senza talento. Ma attrici di prestigio, capaci di micro-espressioni facciali sottilissime, di esaltarsi manovrando personaggi contrastanti e opposti o gestendo gamme espressive debordanti e estreme. Great Ladies, che onorano il cinema e danno dignità, interpretando da gran dame Madame Curie o Mrs.Miniver, alle cerimonie degli Oscar. Insomma come The Lady di Frank Borzage (1925), in Italia Una vera signora, tour de force recitativo che sulla scia di un personaggio dipinto da Frances Marion, Polly Pearl, le permette di essere credibile e commovente fino al masochismo come star del music hall londinese, poi ricca moglie in Costa azzurra abbandonata da un aristocratico abietto, poi madre single costretta ad affidare il figlio neonato a un pastore protestante pur di non lasciarlo al suocero ancora più immondo (forse è il ritratto di gentiluomo inglese più schifoso di tutto il cinema americano), poi poverissima venditrice di fiori alla ricerca del figlio perduto e sull’orlo del suicidio, infine saggia proprietaria di una locanda marsigliese, in un ambientino che Casco d’oro di Becker ruberà nel 1952 quasi filologicamente. Lì ritroverà, nel tragico finale, il figlio ormai soldato.
Con il sonoro, molto ricca, Norma Talmadge abbandonerà il cinema. Muore a Las Vegas nel 1957. Una famiglia, la sua, di super star, anche se oggi quasi completamente dimenticate. Eppure la sorella Natalie sarà, per un po’, moglie e complice di Buster Keaton e l’altra sorella, la it girl Constance, meno attratta dalle Grandi Dame studiose di Eleonora Duse e Sarah Bernhardt e delle virtuosistiche triangolazioni di sguardo, cuore e mani, sarà un genio della commedia scatenata e della controcultura “gender”. Bisognerà farne, a Pordenone, una retrospettiva altrettanto ampia….
La moda e il silent movie
Intanto parte da quest’anno alle Giornate una attenzione speciale al capitolo “moda e cinema”. Un intervento, il 6 ottobre scorso, della storica del costume Michelle Tolini Finamore, oltre che quello di Deborah Landis, è stato proprio dedicato all’importanza che Norma Talmadge, produttrice di se stessa, e critica di moda in riviste specializzate (molto aiutata da Harrison Ford, ne parleremo), dava al reparto “dressing”, non solo per assumere sui set sarti di classe: grandi designer del costume diventeranno indispensabili presenze creative in tutti gli Studios.
Quando i gay erano protetti
Uno dei suoi partner più adorati, l’attore gay neworchese Harrison Ford (niente a che vedere con il suo omonimo moderno), contribuì al successo di Love’s Redempion (1921) e Smilin’Through (1922) anche per i suoi raffinatissimi gusti sartoriali (oltre che adorato dal geloso Schenk, perché non particolarmente pericoloso sul set). L’altro partner classico di Norma era l’irlandese che veniva dal Colorado, altrettanto omosessuale e stimato da Schenk, Eugene O’Brien (visto in The Moth e Ghost of Yesterday, una sorta di signora delle camelie del 1918), ma raccontano i pettegoli della settima arte, piuttosto più flessibile sessualmente…
Nel cinema muto la sensibilità gay alto-medio borghese (pensiamo anche a Edmund Lowe, Dorothy Arzner, William Desmond Taylor…) era molto apprezzata dai produttori (immigrati di lingua madre yiddish, piuttosto rozzi e geniali) purché fosse off screen, sia per la loro straordinaria creatività quanto a set e moda (pensiamo a George James Hopkins, responsabile del look Theda Bara, o a Howard Greer che nel 1922 creò il primo Wardrobe Departement per Pola Negri) che per la capacità, da fedeli partner di Norma Talmadge, di ricreare (in forme sottilmente e segretamente parodistiche, e in maniera insuperabile) l’intera raggiera dei valori, dei comportamenti e degli ideali middle-class. I mass-media anni dieci e primi anni venti erano più liberi e meno aggressivi di quelli che l’avrebbero certo fatta pagare a Rock Hudson e Tyrone Power…. Quella cultura e quella esperienza che a loro mancava. Clifton Webb, superato il decennio omofobo, riemergerà negli anni 40 come ultimo rappresentante dell’antica “covata benefica”, relativamente tollerata e privilegiate, prima del Codice Hays.
Inoltre.
La musica dal vivo
Lunedì 3 ottobre alle ore 22, durante la proiezione del melodramma della gelosia La dixième symphonie di Abel Gance del 1918, uno straclassico francese del cinema muto (presentato nella sezione ”Il canone rivisitato”), applausi a scena aperta dell’intera platea e galleria in piedi dopo la trascinante esecuzione al piano della “decima sinfonia” (evocata nel titolo del film) che John Sweeney ha appositamente creato, “alla maniera di Beethoven”, visto che la partitura originale è andata perduta. Il new zeland Sweeney, un “pianista del muto” per antonomasia, è un Papa della musica applicata al cinema “primitivo”, avendo lavorato con tutti i festival specializzati (Cinema Ritrovato compreso). In questa performance demoniaca, un dinamico pianismo liberatorio jazz-espressionista eccita fino alla rottura il design ossessionato dalla ricomposizione dell’opera romantica, rendendo dissonante, ma esteticamente avvincente, la sublimazione finale del tormento e del dolore esistenziale di Enric Damor (l’attore Severin Mars). Cioè del compositore stesso della “Decima”, sconvolto dal tradimento (in realtà del tutto inesistente) della moglie Eva (Emmy Lynn), ma grato a lei per averlo trascinato, con il suo oscuro passato, anche di assassina, riemerso, nel baratro tragico più creativo. E’ come se nella perversa parodia del sublime di Sweeney - a prendere il controllo musicale della partitura sia proprio il losco viveur Fred Ryce (Jean Toulot), il rivale di Damor, ma in fondo il suo doppio come si vedrà nel sorprendente finale, cioè il simbolo stesso della prepotenza maschile europea tra le due guerre, dittatoriale, a partire dal controllo delle donne. Il destino di Eva – ci dice Gance invitandoci solo a compiangerla - ricattata per tutta la vita, è la sottomissione totale, matrimoniale (e non c’è divorzio che tenga) e giudiziaria (in realtà ha ucciso per legittima difesa, ma nessun tribunale le darà mai ragione). Per fortuna arriva la musica di Sweeney a vendicarla, a trasformarla in antesignana della sovversiva femme fatale.
Sosin così affianca e supera Gance, ancora prono all’inossidabile (e piuttosto noioso narrativamente) baricentro simbolico maschile, riaggregatosi opportunisticamente dopo la strage (10 milioni di giovani soldati morti) della Grande Guerra. Che avrà conseguenze disastrose, nei rapporti tra i sessi, in quasi tutte le società europee (la neutrale Svezia esclusa, come vedremo).
La qualità, anche musicale, delle proiezioni è dunque ciò che ha reso ancora più obbligatorio il viaggio annuale a Pordenone (decano dei tanti festival dei “silent movies” che ne hanno poi riapplicato la formula ovunque). Billy Wilder diceva che una platea è sempre geniale anche se il singolo spettatore può essere stupido. Pordenone lavora molto ben soprattutto sul singolo spettatore, per esempio fornendogli un catalogo che è il più ricco e completo e “militante” (in un’epoca di cataloghi, vedi Venezia e Cannes, solo autopromozionali, qui si fa provocazione e polemica).
Ruritania. La Svezia in crisi fu più fertile
Nell’altra sezione forte del programma, dedicata ai film del genere Ruritania, e di grande attualità vista la commozione mondiale per le esequie di Elisabetta II, l’ ultima monarca magicamente rispettabile della storia, si è visto la divertentissima e sovversiva commedia, in coproduzione con la Germania, del 1928, quasi un Lubitsch-touch, Sua maestà il barbiere (Hans Kungl. Hoget Shinglar) scritta dal geniale umorista viennese ebreo Paul Merzbach (anche regista del cinema inglese oltre che scandinavo, visto che era in fuga da Hitler) e girato negli studi presso Stoccolma dal regista svedese Ragnar Hyltén-Cavallius che i grandi storici come il compagno Georges Sadoul e i fascisti Maurice Bordéche-Robert Brasillach ricordano solo perché lavorò a un certo punto con il sommo Vilgot Sjostrom, dilungandosi invece sulla crisi irreversibile del cinema svedese che era stato grande e unico nell’epoca Mauritz Stiller-Greta Garbo, affascinante per i suoi poemi “wilderness più misticismo”, fino ai primi anni 20, ma poi era stato distrutto da Hollywood che aveva avuto l’abilità di prosciugarne tutti i quadri creativi più illustri. E ne aveva mal copiato la ritmica e gli assoli. Invece.
Per un cinema europeo diverso
Oltre alla presenza forte di un’altra diva dimenticata come la svedese Brita Appelgren, quasi una Drew Barrymore ante litteram, per grazia, arguzia e ferocia, e una irrisione alle leggi comportamentali e di glamour vittoriane, qui completamente sfigurate e irrise come in nessun mélo di Norma Talmadge si osava, questo swing-film, questo esempio sovversivo di commedia dei telefoni bianchi – bollato infatti dalla critica pregiata con la peggiore delle sue ingiurie, cioè come “americanata” - è invece un esempio importante, il prototipo, di altra via feconda che avrebbe potuto prendere, e non prese, il cinema europeo nel momento di passaggio dal muto al sonoro. Sono stati infatti i nipotini di Nestroy e della farsa viennesa a concepire nella prima metà dell’ottocento (feudale, dispotico, imperiale) e strutturare poi in dettagli sulfurei quella che sarebbe diventata la ‘slapstick comedy’, che nacque in Francia e fu soprattutto animata dalle selvagge nasty girl e dai comici anarchici, e poi si travestì da commedia avvelenata, deturpata, inquinata, insomma “sofisticata” che ebbe il suo momento di gloria proprio nel decennio dei film più censurati, ovunque nel mondo, della storia. Gli anni trenta. In Usa, in Urss, in Italia, in Germania… Il ramo Lubitsch-Wilder, che conosciamo di più, fruttificò a Hollywood. Ma un altro ramo, da Vienna, passando per Berlino, Parigi, Stoccolma e Londra, poteva essere la salvezza del cinema europeo. Farne la potenza n.1 competitiva sul mercato mondiale. E fu lasciato morire. Fu un grosso equivoco sul concetto di cinema di qualità, d’arte, d’autore. Ai tecnici della battuta e della frase fatta, avrebbe risposto Karl Kraus che l’arte (non permessa dalla legge) è quella “lunga strada tra il guardato e il pensato, il percorso più breve tra un rigagnolo e la Via Lattea”. E forse sotto il cielo europeo non c’è stato nessun corriere veloce come Paul Merzbach: con lui la vita non è stata male arredata. Copiava Lubitsch? Certo, il couplet (cioè quando nel vaudeville a un brano musicale si cambiano le parole per far ridere, o un film trombone diventa divertente grazie a Franco e Ciccio) è grande arte, high art. Altra idea per un Pordenone a venire? (la foto è di Harrison Ford)
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