martedì 26 settembre 2017

A Ciambra candidato all'Oscar. Jonas Carpignano, il new yorker di Rosarno e Gioia Tauro






Jonas Carpignano sul set di A Ciambra 
Roberto Silvestri (*)


A Ciambra, il romanzo di formazione (e di deformazione) di Pio Amato, rom di 14 anni di Gioia Tauro, è piaciuto molto alla Quinzaine e adesso fa il giro del mondo dei migliori festival ed è uscito nelle sale italiane (al Nuovo Sacher di Roma in questi giorni si può vedere anche il precedente lavoro di Jonas Carpignano, Mediterranea, sulla rivolta di Rosarno e interpretato da molti degli stessi attori di questa sorta di sequel). Molti minuti di applausi, a Cannes, per l'odissea tragica di questo ragazzo perdente, ma non malvagio, debole ma non insensibile, traditore ma non per servilismo di comunità, in occasione della anteprima stampa del secondo lungometraggio di Jonas Carpignano, italiano che ha studiato cinema a New York e ha risolcato i sentieri interrotti di Zavattini e Rossellini. Immagini di Tim Curtin (Re della terra selvaggia), montaggio di Affonso Goncalves (Carol, Paterson). Opera pluralista e cosmopolita quant'altri mai. Infine prima scelta dalla commissione Anica per l'avventura degli Oscar. Mentre il cineasta che va avanti e indietro dalla Calabria a Manhattan, è adesso sul set di un nuovo film firato in zona, A Chiara.
Jonas Carpignano a Giopia Taura, quartiere A Ciambra 
Ma chi è Pio? È stato già il protagonista ombra di un corto premiato a Cannes ed era poi il peperino coinvolto dalla parte giusta nei moti di Rosarno, soggetto dell'opera prima di Carpignano che vinse la Semaine nel 2015 (e ha lanciato un attore magnifico, Koudous Sehion, qui redivivo e di intensità Denzel Washington). Un gioiello di film distribuito ovunque, tranne in Italia.

Pio Amato (a sinistra) e l'attore burkinabé Koudous Sehion, a sinistra
Pio è una forza della natura. Analfabeta, ma all'università della strada, basta osservarne gli occhi, e ammirarne il tempismo, è nell'eccellenza. Questa sì che è meritocrazia (anche se piace a Renzi). Non abita le baracche di A Ciamba, che prendono fuoco ogni qual volta i carabinieri slegano, a singhiozzo, la canea razzista. Ma, con la numerosa famiglia a sovranità matrilineare, Pio vive nel cemento grigio-soviet della periferia più estrema, quella più adornata di rifuti. E sempre Ciambra è. Uno dei posti più infernali della terra. Eppure Carpignano riesce a dare vita, aria, sostanza, aura e carne anche agli spettri maleodoranti di A Ciambra. E, almeno, nel cinema italiano, è più difficile una apparizione di zingari danzanti che la visione (per cretini o meno) della Madonna.

Pio Amato, il protagonista di A Ciambra 
Ed ecco le prime avventure nel mondo di Pio, raccontateci come fossimo in uno slum-movie di Fernando Meirelles (ricordate La città di dio? E infatti i brasiliani coproducono): gli amori agognati, i giochi infantili, la sopravvivenza dura, lo slang che più hard non si può, le sigarette (“che non fanno male”), le amicizie avulse con chi gli dà una mano (siano pure marocchini), la famiglia, il primo motorino, le birre, gli errori, il rapporto con i gadjo (gli italiani), quelli della 'ndrangheta, le prime promesse e le prime performances con destrezza alla Robin Hood, l'amicizia con i burkinabé, i ghanesi e le nigeriane, a cui porta un tvcolor per la coppa d'Africa, nell'enclave della vicina Rosarno. 




Il fratello Cosimo e il papà sono finiti in galera, e i debiti assommano a 18 mila euro. Equitalia ne pretende metà, per furto di elettricità. L'altra metà spetta al mafioso della zona, che elargisce le briciole del feudo con la tranquillità di chi ha bei protettori in alto. Ed ecco che tocca a Pio prendere il controllo della situazione. Ma la cifra è alta. Non basta saperci fare nel garage e guidare l'auto a tal punto da beffare i caruba, in una magnifica scena da The Blue Brothers. Si capisce che Carpignano è pesce nell'acqua nella zona proprio come Landis lo è della Chicago drop-out. Ci vive metà dell'anno in questi posti (l'altra metà a New York). Ed ecco che infatti entriamo in pieno clima Main Street (Martin Scorsese è il produttore esecutivo del film), anche senza metropoli a chiarire un po' meglio come il giro della droga, della prostituzione e del furto organizzato siano una perfetta macchina addomesticata e fluidifcante nel grande giro mondiale delle merci. Il pensiero sarà anche unico, ma è mafioso. Se una merce è ferma, è un oggetto senza vita. Se una merce gira di qua e di là, grazie alla destrezza di chi sa delocalizzare meglio ancora di Marchionne, l'intero sistema ne trarrà giovamento, no?


Una drammaturgia fluida, mai ingolfata dall'ansia documentaria, quella di Carpignano, aiutato da interpreti molto ben allenati. Una tranche de vie che non ha difficoltà a immergersi nella ritmica, a forma di rap, di un racconto-fiaba. Dove non mancano i cavalli senza briglia delle saghe irlandesi. Andare sulla strada senza padroni, essere solo padroni di se stessi. Diventare nemici del mondo così come è, ma amici del cosmo. Sarà questo l'obiettivo di Pio. Un sequel sembra a questo punto inevitabile. Carpignano ha fatto della serialità un metodo per sconvolgere la fiction dall'interno. E' per  questo che il cinema italiano mainstream fatica a celebrarlo. E poi, l'argomento!
I gitani. Sono anarchici, on the road, contro il mondo, losers. Preferiscono l'oro ai soldi.... Rubano. O meglio, come si dice in epoca neoliberista, fanno circolare le merci un po' più a lungo del solito.
I razzisti, i nazifascisti, i socialdemocratici, i liberali, i comunisti duri e puri di tutta Europa sono tutti, esplicitamente o implicitamente, infastiditi a pelle da gitani, sinti, rom o zingari (e magari anche i rumeni tutti, per colpa di Veltroni che in geografia doveva essere una pippa). Non li sanno o non li vogliono comprendere.

Non ci fosse stato il Vaticano, almeno da Giovanni Paolo II a Francesco, a proteggerli, dopo l'orrendo olocausto che tentò di cancellarli dalla terra occidentale, avrebbero avuto solo il sostegno dei fan del circo, di Emir Kusturica e di Guy Debord, il cui regista preferito fu sempre Tony Gatlif (che presenta il suo nuovo rom-movie proprio qui a Cannes). Se ci pensate non esistono molti film sui gitani. In Italia poi se ne sono occupati, senza paternalismi di sorta, solo Carolos Zonars (greco, ex esule a Roma) e Alberto Grifi, negli ultimi mesi della sua vita, visto che nelle periferie si preparavano piccoli grandi pogrom, come leggiamo sui quotidiani. Ma a Hollywood i gitani, da Douglas Fairbanks a Marlene Dietrich, sono sempre simpatici, e non solo per istinti antinazi. Non si può dire che abbiano mire rifeudalizzanti. Dunque si ammirano per il loro astio nei confronti dei padroni e delle rendite. Ed è di particolare interesse un film che l'attore Robert Duvall girò come regista dentro una comunità gipsy, Angelo my love, anno 1983. Quel loro modo di vivere, in quegli anni di ipermodernità, diventava più consono alla cultura dominante fatta non di fatti ma di ipotesi, di previsioni, di potenzialità. Di lettura, nella mano, dei giochi futuri.




(*)Pubblicato il   su Alfabeta2

sabato 23 settembre 2017

Elogio di Silvio Soldini. E di Valeria Golino. Il colore nascosto delle cose




La bestia cieca (1969) di Yasuzo Masumura, classico film anti-classico sula cecità


Roberto Silvestri *

Valeria Golino in Il colore nascosto delle cose 
Per vedere più chiaramente, dentro di sé ma soprattutto fuori di sé, al di là della superficie apparente delle cose, dei corpi e dei Tg, si ha bisogno di forte disciplina etica. O di un miracolo, di una apparizione, di voci misteriose, di shock salutari, di sofferenze, di un grande amore, di occhi che “vedono ciò che gli altri non vedono”. Che poi è la definizione dei grandi cineasti, di chi trasforma, come dice Godard, la notte in luce. Un cineasta è infatti una sorta di “non vedente” apparenze e corteccia, ma vedente sostanze, come ha dimostrato Yasuzo Masumura in La bestia cieca (1969), l'horror incentrato sulle capacità sinestetiche di uno scultore cieco impazzito di desiderio, assassino sì, ma certo non oggetto di pietà né di compassione paternalistica.

Valeria Golino 
Vera antitesi ai troppi film che abusano dei personaggi di non vedenti, quando si ha bisogno di esercitare sadismi voyeuristici di ogni genere (anche Mia Farrow, in Terrore cieco di Richard Fleischer, e Sara Serraiocco di Salvo hanno costruito personaggi anticonformisti, pieni di energia e voglia di vivere e di vedere oltre). Fanno sport, o viaggiano, o sono professionisti e autonomi, oppure di furbizia tale da mettere in scacco perfino il loro aguzzino mafioso. 

Adriano Giannini e Valentina Carnelutti 

Un altro ruolo eccentrico è quello di Emma (Valeria Golino), osteopata e giocatrice di softball, cosmopolita e di leggiadra personalità, non vedente dall'età di 17 anni, che sarà capace di rimodellare non solo il corpo ma anche il cervello di una diciottenne “no future” furiosa con tutti perché non ci vede ma sente che il mondo attorno è orribile, e poi – ma solo in seconda battuta perché in questo film i robottini puliscono casa e le donne non smaniano solo per gli uomini – di Teo (Adriano Giannini), acrobata del sesso, tre amanti per volta come programma minimo, che si caracolla con la sua sciarpa fantasia, un creativo di successo nel campo della pubblicità ma sbalestrato esistenzialmente da problemi di famiglia mai risolti.


Fuori concorso Il colore nascosto delle cose, undicesimo film di Silvio Soldini, che, come Jim Carrey dentro Hollywood, sta mettendo in difficoltà da molti anni, senza però riuscire mai a farla esplodere completamente, la macchina romana del cinema commerciale, ostinatamente ossessionata dalla forma commedia inesportabile. E, 24 anni fa, con Un'anima divisa in due Soldini portò Fabrizio Bentivoglio al massimo premio della Mostra insistendo sulle tonalità drammatiche, serie, solo striate da umorismo adulto e sentimenti ben scavati. Soldini, svizzero italiano, è infatti una sorta di Borromini della cinepresa perché, pur conoscendo tutti i trucchi che rendono una immagine visiva e sonora seducente, o almeno di effetto sicuro, la decostruisce, elemento per elemento, non per spiazzare il consumatore narcotizzato dalla ritmica fiabesca consueta, ma per creare effetti speciali ancor più spettacolari e barocchi. Non ornamentali, anche se una serie di grandi attori adornano il film di sberluccicanti diademi (Cederna, Carnelutti, De Francesco...). Ma strutturali. Se l'immagine movimento è il fluido narrare hollywoodiano e l'immagine-affezione quel tocco francese specializzato in gastronomia sensuale, Soldini è il genio dell'immagine-pulsione.



Quella linea naturalistica sul solco di Bunuel, Visconti e Losey, che ritocca, con immensa leggerezza (scambiata per modestia espressiva), la violenza originaria. E la voce di Valeria Golina è violenza originaria, non “giocattolo acustico sexy”. Quando Teo lo scoprirà si butterà nel mondo nero colorato di Emma.




* già pubblicato da Alfabeta.2

Hannah dei miracoli. Charlotte Rampling super show


Roberto Silvestri *

Non le solite parti di supporto, ma sempre più protagonisti e protagoniste. Gli attori molto esperti un tempo erano fuori mercato come protagonisti. I ragazzi non li conoscevano. Ma ora vincono le coppe Volpi alla Mostra di Venezia  e, come nel caso di Harry Dean Stanton, con Lucky, trionfano nei festival più radicali, come il Sundance, in un film che è sostanzialmente un "one man show". 


Prima imbarazzavano troppo le star giovanissime e le schiacciavano. Ma, oggi, è proprio un giovane regista che offre a una attrice britannica super tecnica come Charlotte Rampling (che per molti anni ha lavorato in Italia) un copione tutto per lei e addirittura un’esperienza performativa doppia. 
Assistiamo infatti a due lezioni di recitazione, una da allieva (dentro la trama) e una da maestra (ha tutto il film ai suoi piedi). I be molle e i diesis gestuali e vocali, le blue note, di solito non li captiamo. Qui navighiamo sempre dentro i mezzi toni.

Charlotte Rampling e Andrea Pallaoro a Venezia 
Se l'età media del pubblico d'essai (per i quali si fanno i tanti festival nel mondo) si alza, anche i ruoli per gli attori esperti, anzi espertissimi, però crescono. Non fu casuale il trionfo di Haneke/Trintignant a Cannes e il trionfo agli Oscar dello struggente L'amour, o il successo di Gerontophilia di Bruce LaBruce. 
A Venezia le star di Nico 1988, Foxtrot, Il risoluto, The Devil and Father Amorth, Ella & John, Victoria & Abdul, Michael Caine, The Resolute, Ryuichi Sakamoto superavano di un bel po' l'età media dei protagonisti delle storie per lo più selezionate al Lido (che comunque era più o meno di 47 anni, da L'insulto a Downsizing, da Il colore nascosto delle cose a Mother e Pablo Escobar, Public Library...) e quando arrivarono finalmente i ragazzi e le teenager danzanti a ormoni in estasi di Mektoub, si aveva l'impressione che la vecchiaia espressiva, un certo rintontimento ripetitivo, potrebbe anche non abitare a Villa Arzilla, visto che Wiseman ne è esente, ma sulle spiagge francesi della movida....


Dunque non poteva mancare il ritratto a tutto tondo di una star del secolo scorso, Charlotte Rampling, che non ha vissuto di rendita dopo lo “scandaloso” gioco masochista di Il portiere di notte anche se non si è raddoppiata, come le colleghe Glenda Jackson e Vanessa Redgrave, come donna politica, laburista o radicale. Il suo personaggio superfilmico nel corso degli anni è diventato sinonimo di donna libera, eccentrica, lottatrice indomita, dotata di occhi come fari abbaglianti. Indimenticabile nel duetto veneziano con Adriano Celentano in Yuppi du. 1975.


Charlotte Rampling però qui ha il tempo, lo spazio e gli antagonisti giusti per mettere in mostra, e poi in crisi, tutti i suoi gioielli professionali: il gesto, la voce, gli sguardi, l'urlo, il semiurlo, la postura, il passo, l'uso stupefacente delle mani (“al cinema non si recita con il viso e con la bocca” spiegava Charles Laughton), i rapporto con gli abiti e il trucco, anche se la tonalità predominante scelta in Hannah (in competizione) dal giovane regista italiano (di formazione americana), all'opera seconda, Andrea Pallaoro, è quella minore. In questo “romanzo di riformazione” Hannah, donna delle pulizie in una villa dal modernismo radicale e asettico, deve (se non ritrovare la gioia di vivere, almeno) dare un senso alla vita – e così fa nuoto, va a scuola di recitazione … - dopo che il marito è stato arrestato per il reato considerato il più abominevole dei tempi presenti, l'atto pedofilo (anche se a forza di denigrare i politici forse sono un gradino più su. Non mi ricordo chi lo affermava con maggiore prestigio…a sì Woody Allen: “Conosciamo l'etica dei politici: è una tacca più sotto di quella del molestatore di bambini, in Io e Annie, 1977). Lei non è che ci creda tanto, e comunque…Ma i vicini la perseguitano come se il marito fosse un pezzo grosso del Pd, di FI, del M5S, di FdI. I sensi di colpa (più dell’umanità che di se stessa) la divorano e il cupo gioco cromatico e ambientale congegnato dal regista la imprigiona in una dimensione claustrofobica soffocante cui cerca di sfuggire frequentando piscine e palcoscenici e preparando soffici torte al nipotino (prima di essere cacciata di casa dal figlio terrorizzato dall presenza in famiglia di un presunto molestatore di qualunque bambino), per ridare aria a tutte le cavità più segrete del suo corpo aggredito. E ricompone un puzzle mandato in pezzi da tutti gli altri.


Pallaoro invece di ricucire e consolare pensa di fare proprio il contrario.  Si prefigge la meta, amorevole e ammirevole, ma esageratamente tecnica, di scindere ancora di più quel corpo. Separa così ciò che è proprio dell’attante (logica e grafica autonoma delle azioni), ruolo (in questo caso “il tipo astratto e anonimo della moglie affranta”) e attrice (che assorbe quel ruolo in una geografia emozionale singolare), dissociando la logica delle azioni da quelle del personaggio con una sua psicologia a tutto tondo. In questo modo il film diventa un gioco polimorfico variamente interprtabile o non interpretabile. 

Scollegando così la signora Charlotte Rampling dal personaggio, dal ruolo, e dall'attrice, Pallaoro forse contribuirà a salvarla dall'auto-annientamento. Hannah rinasce solo grazie alle informazioni testuali prodotte dal film. Come se facesse un blockbuster Marvel. Potrebbe benissimo.  


* rielaborazione di un articolo pubblicato su Alfabeta.2

venerdì 22 settembre 2017

Una discussione su Mektoub e sui Leone d'oro di Venezia




L'attore francese di origini algerine Salim Kechiouche beato tra le "vergini" Ophelie Bau e Lou Luttiau (a destra) in "Mektoub, my love: Canto uno"
Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri


No Kechiche, sì Kechiche

A proposito del presunto scandalo veneziano: “nessun premio a Kechiche”. Non vogliamo parlare certo della antipatia del cineasta tunisino di Francia. La sua smania di premi e riconoscimenti da primo della classe ne fanno un odioso Lars von Trier del sud. Ma che c'entra col film? Nessuno è perfetto, neanche Fidia, neanche Jerry Lewis, dal punto di vista caratteriale….
Ma antipatia è anche quella del suo ufficio stampa. Un film che per oltre la metà si fissa in maniera imbambolata, tra lussuria e impertinenza, sui sederini danzanti di donne e ragazzine liberate nella discoteca birichina, perché poi censura tutte le sue grazie, iquando si tratta di promuoverle?
E se cercate in rete foto di Mekoub troverete solo romantici sguardi in primo piano o controluci sul mare al tramonto catturati dal direttore della fotografia italiano ed emergente Marco Graziaplena che vorrebbero deviarvi verso piaceri cinematografici da beach movie (quelli si un suadente e scandaloso inno alla vita, sex drugs and rock'n'roll) con Sandra Dee e Troy Donauhe o Frankie Avalon e Annette Funicello.
Ma che c'entra con i vizi e le virtù del nuovo film di Kechiche Mektoub?

Shain Boumedine
Tratto dal romanzo che credo si possa traduttre in italiano  La ferita vera di uno scrittore ex calciatore prof di liceo rocker critico di Playboy e dei Cahiers du cinema, di Nantes, gruppo Campillo-Cantet, fondatore della rivista L’incolto, nome François Begaudeau, classe 71, questo film ha mandato in visibilio molta critica anti-critici "al maschile", finalmente alleata con quella mainstream.

Lou Luttiau
Mektoub (ovvero “il destino dell’uomo fissato da dio” sic), my love canto 1, ribadiamo non è, anche se non ci credete, tratto da un romanzo di Coelho. O da una trasmissione di Radio Tirana epoca Enver Hoxha, che, a proposito del film Inghilterra nuda, e simili, stigmatizzava la degenerazione dei costumi e l’immoralità senza fine del capitalismo putrescente.
Il film racconta infatti la storia di un artista beur bellissimo ma inaccessibile, scrittore e fotografo (Shain Boumedine), che attraversa consenziente, con occhio da entomologo, ore e ore di sballo paradisiaco anche se con sottofondo di musica rincoglionente tipo Sorrentino, ma animato da bellissime francesi e antillane mozzafiato in vacanza al mare, prima di comprendere il vero significato della vita, e ritrovare una spiritualità (musulmana?) interrotta, perché il materialismo consumistico occulta e distorce la verità, uscendo così trionfante dalla trance della seduzione erotica (più Tinto Brass che Russ Meyer, più culi che tette) confezionata dall’occidente e dai suoi costumi decadenti. Un parto gemellare di capre sarà l'evento in diretta che cambia la vita. L'orizzonte anticipa il futuro: una regolare coppia sposata, uomo e donna, gerarchicamente tradizionale. La solita solfa.

scena finale, anti western
Sotto sotto sembra anche una perfida critica a un altro Destino, quello di Yussef Chahine, al masir. Un fim che ha infastidito molto di più il critico occidentale. Si sa che la danza, linguaggio non verbale di diabolica natura dionisiaca, forse dalla segnaletica incomprensibile perfino a dio, è diventato un bersaglio del fondamentalismo letteralista e dei media che non sopportano le estasi di ogni tipo. E Chahine ha fatto bene in quel film a rivendicarla come patrimonio libertario e liberatorio che la cultura musulmana ha regalato al mondo, incupito dal fondamentalismo cristiano del XIII secolo che
massacrava e recideva le proprie radici greche fino a distruggerne ogni aroma o traccia scritta.

gli attori a Venezia
La cultura musulmana dell’epoca andalusa, che salvò e tramandò a noi i classici greci, anticipava con quel gesto l’illuminismo, così come l’antischiavismo, molto prima dei filantropi settecenteschi inglesi. Chahine ci indicava quella storia dell’Islam come contributo alto a un vivere più civile egualitario e più sano sessualmente. Ma non si danza solo con il corpo, si danza anche con la mente, con le parole, con i versetti coranici da ripetere infinite volte a ritmo battente (altro che dervisci) prima che la propria soggettività desiderante sia cancellata del tutto e si diventi macchina da guerra eterodiretta. La storia della martirologia terrorista. Il motivo per il quale una parte della cultura laica musulmana (e europea-musulmana) ama Kechiche è per questo saper indicare col ditino i pericoli infernali che un giovane deraciné può correre, indicandogli un’altra strada, da psicoterapeuta istituzionale ben controllata (coi soldi sauditi, magari?).

Lou Luttiau

Kechiche ha cominciato dando tutta la colpa a Voltaire ma adesso sembra assumere sempre di più il ruolo non proprio di un Leo Strauss o di un Sayyd Qutb ma almeno di un Kathami o di un Paul Morrissey del cinema francese. Fustigatore dei costumi libertini, siano essi esageratamente lesbici o semplicemente di sfrenata sessualità narcisista, ma pop abbastanza da sfruttarne tutte le potenzialità commerciali, anche questa volta sembra voler allestire una macchina antidesiderante, e puntare alla normalina, al voler mettere il velo alle sue (e dei maghrebini di Francia) pulsioni transgender più colpevoli. Inoltre questo roteare incantato sui sederi (che stranamente i colleghi osannanti il film han rimosso dalle critiche) è un po' ipocrita.
Lou Luttiau
Sentiamo il sapore di Tariq Ramadam, l'altro controverso cantore di una via europea all'islam moderato quando scrive, e sembra la traccia di questo film: "milioni di musulmane e di musulmani vivono l'esperienza religiosa come una iniziazione spirituale, una riconciliazione con il senso, una ricerca di liberazione dell'essere nel mondo globale dell'apparenza, dell'avere e del consumo eccessivi...un'esperienza difficile per il buddista, l'induista, l'ebreo, il cristiano, il musulmano... per qualsiasi essere umano che desidera vivere liberamente i propri valori". Certo, solo chi è religioso ha la password della spiritualità. Oppure quando scrive, polemizzando con chi ancora crede che sul Corano c'èè scritto che le donne vanno picchiate "garantire la libertà delle donne significa accettare che possa fare le sue scelter, anche quando non le comprendiamo". Un tocco di paternalismo non guasta mai.
Yoko Ono Film n.4

Yoko Ono, di ben altra radicalità, e laicità, spiegava meglio la necessià di separare chiesa da stato, laicità da religione in Film. n.4 (1965) utilizzando uno strano simbolo sessuale incastonato in un alto simbolo religioso. Dove quattro sono anche le assi della croce cristiana. E anche le quattro parti di un "ass".

 
Yoko Ono Film n.4 1965





Yoko Ono, Film n.4



Commento ai premi della Mostra n.74 

L'attore mostro preferito da Guillermo del Toro, Doug Jones
Le favole fanno sempre troppa paura ai bambini per la loro crudeltà. Così solo i critici più infantili quanto a piaceri ludici si sono scandalizzati e hanno resistito a questo danzante e cupo film horror politico. Il Leone d'oro della Mostra di Venezia è andato a The Shape of Water, il film più sperimentale, coraggioso e innovativo tra i tre, quattro papabili (The First Reformed, Human flow, Tre manifesti, Insulto). Di genere (neo-fantasy) e striato da preoccupazioni politiche, musicali e sentimentali serissime (proprio come, nel 2016, il “western fordiano” The Woman Who Left di Lav Diaz), è l'opera che ha saputo colpire più in profondità e rimescolare con maggiore efficacia l'immaginario dei giurati, del pubblico e della stampa specializzata. Raramente succede. Geniale Del Toro nel soprannominare la sua statuetta “il mio Sergio Leone d'oro”. Geniale il gruppo di giurati coordinato da Annette Bening, sembravano tutti dei James Benning.


Chi è riuscito a vedere a fine festival le sei puntate della magnifica serie Netflix di Errol Morris,Wormwood, sugli esperimenti segreti e falliti condotti dalla Cia sull’LSD con effetti farmacologici disastrosi sugli stessi scienziati e con l’esplosione di contraddizioni mostruose nel seno stesso della democrazia più cristallina, avrà apprezzato ancora di più dove va a scavare davvero la love story tra la donna di servizio muta (una adorabile Sally Hawkins) e il mostro della laguna nera (omaggio alla maschera wrestling del Santo) catturato e torturato a morte dai laboratori segreti dei militari nordamericani perennemente maccartisti e di crudeltà inguaribilmente nazistoide, prima del finale liberatorio e rivoluzionario alla Splash!

E' il caso di sottolineare anche, a smorzare, anzi a zittire il coro di insulti critici che si sono levati inaspettatamente contro il film, certo destabilizzante, la prova attoriale superlativa di Michael Shannon e delle falangi (della sua mano) che confermano, dopo Warren Oates, Harry Dean Stanton, Jennifer Lawrence, Johnny Depp, George e Rosemary Clooney, Patricia Neal, Gus Van Sant, Charles Napier, Irene Dunne, Muhammad Alì, D.W. Griffith e un migliaio di altri artisti connazionali, che il Kentucky è la capitale mondiale del cinema, della musica, dello sport e dello spettacolo tutto. Altro che California.




Solo First Reformed (ovvero nei testi sacri, perfino coranici perfino biblici si possono trovare frasi che interpretate letterariamente come quella dell’Apocalisse di San Giovanni: distruggete i distruttori del mondo conducono direttamente al terrorismo e alla lotta armata, non per questo bisognerebbe mettere in galera i chierici di tutte le religioni, anche se...) e Human Flow (e le moltitudini di profughi politici ed economici che si muovono scompostamente e pericolosamente, terrorizzando l’establishment critico di Venezia perché tutti quei sederi inquadrati sono assai più conturbanti di quelli di Ophelie Bau, Alexia Chardard, Estefania Argelich, Hafsia Herzi) possiedono la stessa leggerezza e lucidità nel combattere i mostri a cui è attualmente demandata l'organizzazione socioeconomica del mondo. Insomma il film di Del Toro è in versione poetica il film-prosa di Errol Morris.

Certo il valore sul mercato della statuetta alata non permetterà a Guillermo Del Toro, 51 anni, di finanziare il suo prossimo film, a differenza della Palma d'oro senza la cui vendita niente Mektoub, ma un cineasta messicano di così originale potenza “psicotronica” sul podio più alto, è già un detour salutare per il nostro perbenismo visuale eurocentrico (speriamo che arrivi presto in Italia anche la mostra recentemente allestita al Lacma di Los Angeles dedicata alle sue opere e al suo inconscio ribollente). A proposito. Di rara potenza comico-geografica poi quella annotazione che abbiamo letto su tutti i giornali: “le giurie avrebbero premiato solo film della nazionalità del presidente della giuria come Avati/Nicchiarelli. E Piccioni/Klimov e soprattutto Bening/Del Toro? La geografia non è un'opinione.

Ben fatto Bening & Co. L'intera lista dei riconoscimenti è sorprendentemente equilibrata, a cominciare dal premio speciale della giuria per il A Ciambra aborigeno  (e un po' sottovalutato dalla critica internazionale) Sweet Country, del nativo australiano Warwick Thornton e dall'indicare in Charlie Plummer il più interessante attore emergente (per l'ottimo Lean on Pete di Andrew Haigh). E dal premio per la migliore sceneggiatura, andato a Three billboards Outside Ebbing Missouri di Martin McDonaugh, che divertirà i pubblici di ogni genere e grado offrendo la stessa quantità di emozioni e suggestioni di una intera serie tv, ma senza far perdere troppo tempo.
Le Coppe Volpi (ma perché non le chiamano direttamente Coppe Mussolini? Eppure si stanno rafforzando giustamente le leggi contro ogni schiamazzo fascista…) riconoscono le performance affilatissime, sapienti e “brechtiane” di Charlotte Rampling (produzione Rai, super sponsor della Mostra) e Kamel El Basha (attore palestinese di teatro, esordiente nel cinema, del film libanese The insult, un gioiello per il mercato d'essai).
Frutto dei compromessi inevitabili di giuria invece sia il Leone d'argento per la regia al film francese di regime (w la polizia, abbasso i magistrati garantisti) Jusqu'à la garde dello studioso dei piaceri schermici statisticamente tollerabili per lo spettatore medio Xavier Legrand (una sorta di nuovo Kechiche, diversamente puritano) che il gran premio della giuria a Foxtrot, dell'israeliano Samuel Maoz (degradato rispetto al Leone d'oro per lo sciovinista Lebanon), grottesco semisatirico sull'esercito, infarcito di allegorie banalissime anti arabe (cammello=Hamas). Probabilmente il presidente della giuria ha pensato bene di equilibrare, per non creare polemiche a Hollywood, il riconoscimento a un palestinese. Divertente (sarcastico) la reazione sia di Beirut che di Tel Aviv ai due concittadini premiati che rischiano entrambi la galera o il disprezzo di stato. Prendere in giro il Mossad o l’esercito è però diventato per Israele un fiore all’occhiello. Noi siamo democratici, tutti i paesi arabi non permetterebbero mai una tale libertà di fraseggio. Ma c’è sempre qualche ministro (della cultura in questo caso) che si dimentica il copione.

Comunque. Molti hanno vinto alla Mostra 2017. Ha vinto John Landis che ha dirottato, col suo prestigio, un enorme interesse per gli esperimenti in realtà virtuale (“che non segna la fine del cinema tradizionale” assicura Landis. Sembra piuttosto una intensificazione delle nostre potenzialità ricettive). E il film che ha vinto, d'animazione, Arden's Wake di Eugene Chung ci sprofonda, anche lui, nell'oscurità postapocalittiche dell'Oceano. Ha vinto Frederick Wiseman, radiografo della Public Library di New York, raccontandoci perché “Trump è la dimostrazione del fallimento del nostro sistema educativo. Come diceva l'acuto intellettuale degli anni '20 Henry Louis Mencken “è impossibile sottovalutare la stupidità del pubblico americano”. Ma almeno in Usa il sistema delle biblioteche pubbliche è un valido antidoto al declino esiziale della civiltà occidentale.
Ha vinto la Rai che è riuscita a lanciare nel mondo una sua produzione internazionale, Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli, copiando il metodo Canal Plus (uso e abuso di Cannes).
Ha vinto Barbera, e il suo gruppo di selezionatori (un cartellone apprezzato, dei premi adeguati) e Baratta (per i miglioramenti logistici della Mostra, ma siamo ancora a inizio cantiere: solo tra 5 anni il Des Bains tornerà quello che era...).
Non commentiamo né le Giornate, né la Settimana, né Orizzonti perché non abbiamo potuto vedere quasi nulla in queste sezioni. Il corpo umano non è ancora capace di quadruplicarsi. A Cannes i critici transalpini vedono tutti i film delle sezioni collaterali prima del festival. Ma lì siamo ad aprile. A luglio e ad agosto ci sembra dura. Però una riduzione di film e una organizzazione del palinsesto più efficiente sarebbe auspicabile. A meno che quel che vogliono i produttori è non far vedere i loro film a chi li dovrebbe pubblicizzare. Che i critici siano fatti fuori, sostituiti dagli apologeti corruttibili o meno, è sempre stato un vizio in Laguna. Ricordate il Mose?

L'inganno - La vendetta delle vergini suicide

Il film di Sofia Coppola, premiata per la migliore regia al festival di Cannes 2017, è nelle sale italiane dal 21 settembre

Mariuccia Ciotta

Le querce della Virginia aprono varchi nebbiosi mentre l'inquadratura scivola in basso sul sentiero dove una bambina con le treccine e un cesto in mano cammina lentamente nel bosco. Cappuccetto rosso incontrerà il lupo nelle vesti del caporale nordista John McBurney che nell'immaginario ha il volto di Clint Eastwood, il Jonathan della notte brava di Don Siegel, anno 1971, accolto ferito nel collegio femminile durante la guerra di secessione, 1863.
Sofia Coppola, magnifico Leone d'oro con Somewhere, firma sceneggiatura e regia del remake The Beguiled (L'inganno) e sceglie Colin Farrell, oggetto erotico (non a caso) meno potente di Eastwood, nelle vesti blu dell'uomo ferito alla gamba e trovato tra l'erba dalla dodicenne Amy (Oona Laurence), per spostare l'attenzione sulla algida e spettrale Nicole Kidman, nel ruolo perverso che fu di Geraldine Page. Sguardo affilato anche su Elle Fanning, Carol, la Lolita, e su Kristen Dunst, Edwina, la romantica sessualmente repressa. Donne-stereotipo che Coppola esplicita nel suo southern gothic, statuine in abito bianco che esploderanno in una vulcanica rappresaglia contro il maschio creatore di gender. Eredi di The Virgin Suicides.
Allevate al ricamo dai punti perfetti, alla cucina impeccabili e alle buone maniere, le signore del collegio in stile neo-classico riproducono, potenziate, Le piccole donne di Louise May Alcott, ragazze del New England, nordiste, anche loro in piena guerra civile e alla ricerca di uno spiraglio contro il destino di femmine docili e vittoriane. Joe ci riuscirà con i suoi romanzi e Beth con l'esodo più radicale, la morte.
Ognuna di queste “vergini” isolate nel tempio immerso tra gli alberi ha un conto aperto con il soldato bugiardo e mercenario che le blandisce a seconda del loro “tipo”. Ad Edwina, insegnante di francese, dirà che la ama, ad Amy, fotocopia della piccola, sensibile Beth, che si prenderà cura della sua tartaruga, prima di scagliarla per terra in uno scoppio d'ira. A Martha, la Madame, farà intendere quel che sognava la Geraldine Page di Siegel, una visita nella sua camera da letto. Ma sarà Carol a perderlo. Il caporale precipita dalle scale, spinto da mani deluse, perché sorpreso tra le gambe della ninfetta. Il gioco è smascherato. I candidi angeli ricoperti di trine e merletti si mutano in Erinni. Il corpo desiderato del caporale sarà spartito in brandelli metaforici.
Sofia Coppola costruisce un film rarefatto, elimina quasi tutto il contesto storico - Eastwood compariva in flash-back feroci sul campo di battaglia, e le fotografie dal fronte del pioniere Mathew Brody dominavano i titoli di testa - e i retroscena narrativi - il passato incestuoso di Martha con il fratello - e si immerge nella nebulosa gotica, candele e pianoforte, fruscio di abiti, sensualità vellutata e scale a chiocciola.
Un'opera horror e non più il western anomalo di Don Siegel, consacrato all'epoca autore per un film considerato “europeo”, flop al botteghino. Qui le manine delicate cuciono squarci sanguinolenti, tagliano gambe in un rituale sacro, e rispondono alle accuse di misoginia rivolte negli anni Settanta al regista di Dirty Harry ('71, stesso anno). Alle critiche di The Velvet Light Trap risponderà, solo nel 1998, G. Herring in The Film Quarterly consacrando il film “favola femminista”.
Non sono “cattive” le ragazze del collegio, solo che le dipingono così. E Sofia Coppola ne disintegra il guscio, ne cambia la forma. La metamorfosi è compiuta con la mela di Biancaneve sostituita dai funghi avvelenati del romanzo di Thomas Cullinan, A Painted Devil ('66) dal quale è tratto The Beguiled.
Il cerchio si chiude con Amy dal cestino ricolmo di mistero, ombra fatata nel bosco.





mercoledì 20 settembre 2017

Classici dimenticati. Don't Come Knocking di Wim Wenders. Requiem per Sam Shepard






Roberto Silvestri



Sam Shepard in The Right Stuff 

Per ricordare Sam Shepard, nei giorni tristi perché ci ha lasciato anche Harry Dean Stanton,  forse basta ricordare uno solo dei suoi film. Per esempio Don't come knocking. Non bussare alla mia porta. Regia di Wim Wenders, bella e invisibile. Film tedesco d'America, fu in gara a Cannes nel 2005. 

Sam e Jessica Lange

Una buona storia, con il plot costruito dai personaggi, e non viceversa, sul vuoto di paternità nel mondo d'oggi (che potrebbe abolirla per legge)... Un uomo ricco e famoso, Howard Spence, attore di western, e da sempre solitario, a sessant'anni e qualcosa può decidere di diventare socievole, e per questo si mette in marcia, cambia giacca e stivali, si apre all'on the road e al caso, torna molto indietro nel passato, per costruire un altro futuro... Howard si chiama, e fa rima con «coward» (codardo), le urlerà il suo ex grande amore ritrovato. Era tanto grande, quell'amore che fu interrotto per paura, per evitare, chissà, il dolore di una fine insostenibile. Resta però un figlio cantautore con band, da qualche parte. E se ha il caratterino del cowboy individualista celibe, sarà difficile farli comunicare. L'elaborazione del dolore sarà affidata a una canzoncina e a un coro. Tra artisti ci si intende di più che tra civili...

Sam Shepard in Don't Come Knocking
Ma non parlerà il film per caso della difficile eredità per un ragazzo tedesco del secondo dopoguerra di una seconda patria, gli States,  inconoscibile e incomprensibile, non priva di charme seduttivo? Gli attori sono più che perfetti, Jessica Lange, Tim Roth, Sarah Polley e Eve Marie Saint, George Kennedy... immersi ognuno in un mondo di segni tutto proprio (soprattutto un «nativo» armato di pistola, irriducibile nel dissotterrare l'ascia di guerra) e non sempre decifrabili.

Sam e Sissy Spacek
Immagini stupende, poi, di Franz Lustig, pensate già per il televisore al plasma e il 16:9 e per essere competitive con i campi lunghi di Rio Bravo e Ombre rosse (ha vinto il premio per la migliore fotografia europea dell'anno). Ma Joseph Biroc le avrebbe amate molto, perché nitide ma inquietanti. Come se Corman avesse avute tre settimane di tempo in più nelle riprese per ritoccare ombre e focali. Una ventina i riferimenti colti all'iconografia del passato, classica e del crepuscolo, da Hooper a John Sturges, dalla main street intatta, inizio secolo (scorso), negli stati del «middle», che in realtà non esiste più ma grazie ai mall-center post moderni oggi stanno rifiorendo, alle vecchie automobili verdi pastello e tutte curve, agli alberghi cadenti e screpolati simili a Million Dollar Hotel, alle cineroulotte e agli altri non luoghi (nel senso di non ancora usurati dal cinema): la cittadina di Butte (in Montana), perché Dashiell Hammett la chiamò Poisonville in Red Harvest; e l'altro centro abitato di Elko, Nevada, dove si mangia un'ottima cucina basca e l'eroe ritrova le sue radici dimenicate, una madre che non gli ha insegnato le buone maniere e le origini dei suoi sensi, «spiritati» e onnivori (e qui Shepard sembra in trio con Warren Oates e Harry Dean Stanton). Ma anche Moab, segnale fordiano forte del paesaggio primordiale della lotta epica, ma non «malboro dipendente» (e dunque intossicato) come la Monument Valley.


Quelle piccole, autobiografiche cose che misteriosamente riescono a dare al tutto un tocco di verità e allo stile un marcato retrogusto europeo, da premio Phoenix, da Strasburgo Found (ma il film non lo ha vinto). «Mi ha salvato il rock», disse Wim Wenders, ma, una volta salvo, fu Hawks e Walsh e Tashlin a praticare la respirazione bocca a bocca per non fargli mai più venire la voglia di farla finita. Un cineasta della modernità critica, però, ha qualche strumento di analisi e combattimento in più, studia ossessivamente lo sguardo come violenza subita quotidianamente nelle nostre città, la paranoia dell'essere scrutati ovunque da occhi non indifferenti, misteriosi, ostili e indiscreti...


Tutto questo conduce il film all'elogio finale del toccare virtualmente, del toccarsi per capirsi, ma attraverso le immagini non la carne, in una sorta di manifesto per un «cinema osteopatico» più realista ancora perché non statico ma dinamico.

E la musica di T-Bone Burnett ovvero del country cool rok a tutto spiano (più Cassandra Wilson)... Insomma: cosa possiamo pretendere di più da un film del sabato sera? Non è sempre il momento della rottura epocale, di un Nel corso del tempo che dichiarò finita la contestazione generale e iniziata l'era del narcisismo in crepuscolare stato d'allarme. Anche il clima da L'ultimo spettacolo, o da Il temerario o da film serio come ne facevano ancora negli anni 80 Walter Hill, Don Siegel o Sam Pechinpah, entra in questo parco a tema sull'America oggi.

In fondo i vent'anni passati da allora, dal primo al secondo Bush è stato meglio non viverli insieme e si sono cancellati da soli. Forse nessun film li ha saputi combattere, non come Capra e Ford, che riuscirono a zittire reazionari e fanatici durante il New Deal. E tra poco Rumsfeld ne chiederà la rimozione ufficiale dalla storia del cinema.

Don't come knocking, non bussare alla mia porta, o «Non disturbare» è l'ultimo film di Wim Wenders, un omaggio ai drammi ambientati nel rude Montana di Sam Shepard, l'unico corpo cowboy credibile della modernità. Infatti i western non li producono più. Parto lungo, budget imponente, si iniziò nel 2002, poi stop per il no budget Land of Plenty che non è bastato a fermare Bush jr. e poi altri soldi, altri partner, altri «colori aggiunti». Come dice Wenders, però: «come per un buon vino è bene che un buon film invecchi un po' più a lungo». Shepard, ora che il suo viso da sempre perfettamente fordiano è segnato dalle rughe come quello di Harry Dean Stanton, come era quello di Warren Oates, è anche il protagonista e il co-sceneggiatore di questo Paris, Texas del XXI secolo. Dunque dopo venti anni (lo stesso intervallo che dà Jarmush a Bill Murray perché gli umani si diano da fare arrivati al crepuscolo), un divo del cinema, inguaribile dongiovanni, cento yard di coca e rye whiskey a fiumi ("Perché Warren Oates ami così tanto il Messico?". Perché lì la birra non costa niente, per noi") dice basta a tutto, mentre è su un set nel deserto, diretto da George Kennedy, prende un cavallo e scappa, prosegue a piedi, poi in autobus, poi trova la mamma che non sentiva da un secolo e che le dice che da qualche parte c'è un figlio suo riapparso dal nulla. Via all'inseguimento, trova ex fiamma e figlio, oggi rocker languido e poetico, ma non è facile ritessere fili così invecchiati, mentre lui stesso è oggetto di un doppio inseguimento, una giovane bionda con le ceneri di mamma in braccio (figlia ignota numero due) e un assicuratore paranoico ma curioso, ingaggiato dai produttori del film per riacciuffare la star svanita. Manette, via col set. Dietro sulla macchina di papà Gabriel Mann ora insegue. Forse è un bene che non tutti usino la pillola. L'integralismo è degli altri. E se lo tengano.