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L'attore francese di origini algerine Salim Kechiouche beato tra le "vergini" Ophelie Bau e Lou Luttiau (a destra) in "Mektoub, my love: Canto uno" |
Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri
No Kechiche, sì Kechiche
A
proposito del presunto scandalo veneziano: “nessun premio a Kechiche”. Non
vogliamo parlare certo della antipatia del cineasta tunisino di Francia.
La sua smania di premi e riconoscimenti da primo della classe ne fanno
un odioso Lars von Trier del sud. Ma che c'entra col film? Nessuno è
perfetto, neanche
Fidia, neanche Jerry Lewis, dal punto di vista caratteriale….
Ma
antipatia è anche quella del suo ufficio stampa. Un film che per oltre
la metà si fissa in maniera imbambolata, tra lussuria e impertinenza,
sui sederini danzanti di donne e ragazzine
liberate nella discoteca birichina, perché poi censura tutte le sue grazie, iquando si tratta di promuoverle?
E se cercate in rete foto di
Mekoub troverete
solo romantici sguardi in primo piano o controluci sul mare al tramonto
catturati dal direttore della fotografia italiano ed emergente Marco
Graziaplena che vorrebbero deviarvi verso piaceri cinematografici da
beach movie (quelli si un suadente e
scandaloso inno alla vita, sex drugs and rock'n'roll) con Sandra Dee e Troy Donauhe o Frankie Avalon e Annette Funicello.
Ma che c'entra con i vizi e le virtù del nuovo film di Kechiche
Mektoub?
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Shain Boumedine |
Tratto dal romanzo che credo si possa traduttre in italiano
La ferita vera di uno
scrittore ex calciatore prof di liceo rocker critico di
Playboy e dei
Cahiers du cinema, di Nantes, gruppo Campillo-Cantet, fondatore della
rivista L’incolto, nome François Begaudeau, classe 71, questo film ha mandato in
visibilio molta critica anti-critici "al maschile", finalmente alleata con
quella mainstream.
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Lou Luttiau |
Mektoub (ovvero “il destino dell’uomo fissato da
dio”
sic),
my love canto 1, ribadiamo non è, anche se non ci
credete, tratto da un romanzo di Coelho. O da una trasmissione di
Radio Tirana epoca Enver Hoxha, che, a proposito del film
Inghilterra
nuda, e simili, stigmatizzava la degenerazione dei costumi e
l’immoralità senza fine del capitalismo putrescente.
Il film
racconta
infatti la storia di un artista beur bellissimo ma inaccessibile,
scrittore e fotografo (Shain Boumedine), che attraversa consenziente,
con occhio da entomologo, ore e ore
di sballo paradisiaco anche se con sottofondo di musica rincoglionente
tipo Sorrentino, ma animato
da bellissime francesi e antillane mozzafiato in vacanza al mare, prima
di comprendere il
vero significato della vita, e ritrovare una spiritualità (musulmana?)
interrotta, perché il materialismo consumistico occulta e distorce la
verità, uscendo così trionfante dalla trance della seduzione
erotica (più Tinto Brass che Russ Meyer, più culi che tette)
confezionata
dall’occidente e dai suoi costumi decadenti
. Un parto
gemellare di capre sarà l'evento in diretta che cambia la vita. L'orizzonte anticipa il futuro: una regolare
coppia sposata, uomo e donna, gerarchicamente tradizionale. La solita
solfa.
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scena finale, anti western |
Sotto sotto sembra anche una perfida critica a un altro
Destino,
quello
di Yussef Chahine, al masir. Un fim che ha infastidito molto di più il
critico occidentale. Si sa che la danza, linguaggio non verbale
di diabolica natura dionisiaca, forse dalla segnaletica incomprensibile
perfino a dio, è diventato un bersaglio del fondamentalismo
letteralista e dei media che non sopportano le estasi di ogni tipo. E
Chahine ha fatto bene in quel film a rivendicarla come patrimonio
libertario e liberatorio che la cultura musulmana ha regalato al mondo,
incupito dal fondamentalismo cristiano del XIII secolo che
massacrava
e recideva le proprie radici greche fino a distruggerne ogni aroma o
traccia scritta.
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gli attori a Venezia |
La cultura musulmana dell’epoca andalusa, che salvò e tramandò a noi i classici greci, anticipava
con quel gesto l’illuminismo, così come l’antischiavismo, molto prima
dei filantropi settecenteschi inglesi. Chahine ci indicava quella storia
dell’Islam come contributo alto a un vivere più civile egualitario e
più sano sessualmente. Ma non si danza solo con il corpo, si danza anche
con la mente, con le parole, con i versetti coranici da ripetere
infinite volte a ritmo battente (altro che dervisci) prima che la
propria soggettività desiderante sia cancellata del tutto e si diventi
macchina da guerra eterodiretta. La storia della martirologia
terrorista. Il motivo per il quale una parte della cultura laica
musulmana (e europea-musulmana) ama Kechiche è per questo saper indicare
col ditino i pericoli infernali che un giovane deraciné può correre,
indicandogli un’altra strada, da psicoterapeuta istituzionale ben
controllata (coi soldi sauditi, magari?).
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Lou Luttiau |
Kechiche ha
cominciato
dando tutta la colpa a Voltaire ma adesso sembra
assumere
sempre di più il ruolo non proprio di un Leo Strauss o di un Sayyd Qutb
ma almeno di un Kathami o di un Paul Morrissey del cinema francese.
Fustigatore dei costumi libertini, siano essi esageratamente lesbici o
semplicemente di sfrenata sessualità narcisista, ma pop abbastanza da
sfruttarne tutte le potenzialità commerciali, anche questa volta sembra
voler allestire una macchina antidesiderante, e puntare alla normalina,
al voler mettere il velo alle sue (e dei maghrebini di Francia) pulsioni
transgender più colpevoli. Inoltre questo roteare incantato sui sederi
(che stranamente i colleghi osannanti il film han rimosso dalle
critiche) è un po' ipocrita.
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Lou Luttiau |
Sentiamo il sapore di Tariq Ramadam, l'altro
controverso
cantore di una via europea all'islam moderato quando scrive, e sembra
la traccia di questo film: "milioni di musulmane e di musulmani vivono
l'esperienza religiosa come una iniziazione spirituale, una
riconciliazione con il senso, una ricerca di liberazione dell'essere nel
mondo globale dell'apparenza, dell'avere e del consumo
eccessivi...un'esperienza difficile per il buddista, l'induista,
l'ebreo, il cristiano, il musulmano... per qualsiasi essere umano che
desidera vivere liberamente i propri valori". Certo, solo chi è
religioso ha la password della spiritualità. Oppure quando scrive, polemizzando con chi ancora
crede che sul Corano c'èè scritto che le donne vanno picchiate
"garantire la libertà delle donne significa accettare che possa fare le
sue scelter, anche quando non le comprendiamo". Un tocco di paternalismo
non guasta mai.
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Yoko Ono Film n.4 |
Yoko Ono, di ben altra
radicalità, e laicità, spiegava meglio la necessià di separare chiesa da
stato, laicità da religione in
Film. n.4 (1965)
utilizzando uno strano simbolo
sessuale incastonato in un
alto simbolo religioso
. Dove
quattro sono anche le assi della croce cristiana. E anche le quattro
parti di un "ass".
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Yoko Ono Film n.4 1965 |
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Yoko Ono, Film n.4 |
Commento ai premi della Mostra n.74
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L'attore mostro preferito da Guillermo del Toro, Doug Jones |
Le favole fanno sempre
troppa paura ai bambini per la loro crudeltà. Così solo i critici più
infantili quanto a piaceri ludici si sono scandalizzati e hanno
resistito a questo danzante e cupo film horror politico. Il Leone d'oro
della Mostra di Venezia è andato a
The Shape of Water, il film
più sperimentale, coraggioso e innovativo tra i tre, quattro papabili
(
The First Reformed, Human flow, Tre manifesti, Insulto). Di genere
(neo-fantasy) e striato da preoccupazioni politiche, musicali e
sentimentali serissime (proprio come, nel 2016, il “western fordiano”
The Woman Who Left di Lav Diaz), è l'opera che ha saputo colpire più in
profondità e rimescolare con maggiore efficacia l'immaginario dei
giurati, del pubblico e della stampa specializzata. Raramente succede.
Geniale Del Toro nel soprannominare la sua statuetta “il mio Sergio
Leone d'oro”. Geniale il gruppo di giurati coordinato da Annette Bening,
sembravano tutti dei James Benning.
Chi è riuscito a vedere a
fine festival le sei puntate della magnifica serie Netflix di Errol
Morris,
Wormwood, sugli esperimenti segreti e falliti condotti dalla Cia
sull’LSD con effetti farmacologici disastrosi sugli stessi scienziati e
con l’esplosione di contraddizioni mostruose nel seno stesso della
democrazia più cristallina, avrà apprezzato ancora di più dove va a
scavare davvero la love story tra la donna di servizio muta (una
adorabile Sally Hawkins) e il mostro della laguna nera (omaggio alla
maschera wrestling del Santo) catturato e torturato a morte dai
laboratori segreti dei militari nordamericani perennemente maccartisti e
di crudeltà inguaribilmente nazistoide, prima del finale liberatorio e
rivoluzionario alla
Splash!
E' il caso di sottolineare anche, a
smorzare, anzi a zittire il coro di insulti critici che si sono levati
inaspettatamente contro il film, certo destabilizzante, la prova
attoriale superlativa di Michael Shannon e delle falangi (della
sua mano) che confermano, dopo Warren Oates, Harry Dean Stanton, Jennifer
Lawrence, Johnny Depp, George e Rosemary Clooney, Patricia Neal,
Gus Van Sant, Charles Napier, Irene Dunne, Muhammad Alì, D.W. Griffith e
un migliaio di altri artisti connazionali, che il Kentucky è la capitale mondiale del
cinema, della musica, dello sport e dello spettacolo tutto. Altro che California.
Solo
First Reformed (ovvero nei testi sacri, perfino coranici perfino
biblici si possono trovare frasi che interpretate letterariamente come
quella dell’Apocalisse di San Giovanni: distruggete i distruttori del
mondo conducono direttamente al terrorismo e alla lotta armata, non per
questo bisognerebbe mettere in galera i chierici di tutte le religioni,
anche se...) e
Human Flow (e le moltitudini di profughi politici ed
economici che si muovono scompostamente e pericolosamente, terrorizzando
l’establishment critico di Venezia perché tutti quei sederi inquadrati sono assai più conturbanti di quelli di Ophelie Bau, Alexia Chardard, Estefania Argelich, Hafsia Herzi) possiedono la stessa leggerezza e
lucidità nel combattere i mostri a cui è attualmente demandata
l'organizzazione socioeconomica del mondo. Insomma il film di Del Toro è
in versione poetica il film-prosa di Errol Morris.
Certo il
valore sul mercato della statuetta alata non permetterà a Guillermo Del
Toro, 51 anni, di finanziare il suo prossimo film, a differenza della
Palma d'oro senza la cui vendita niente Mektoub, ma un cineasta
messicano di così originale potenza “psicotronica” sul podio più alto, è
già un detour salutare per il nostro perbenismo visuale eurocentrico
(speriamo che arrivi presto in Italia anche la mostra recentemente
allestita al Lacma di Los Angeles dedicata alle sue opere e al suo
inconscio ribollente). A proposito. Di rara potenza comico-geografica
poi quella annotazione che abbiamo letto su tutti i giornali: “le giurie
avrebbero premiato solo film della nazionalità del presidente della
giuria come Avati/Nicchiarelli. E Piccioni/Klimov e soprattutto
Bening/Del Toro? La geografia non è un'opinione.
Ben fatto
Bening & Co. L'intera lista dei riconoscimenti è sorprendentemente
equilibrata, a cominciare dal premio speciale della giuria per il
A Ciambra aborigeno (e un po' sottovalutato dalla critica internazionale)
Sweet Country, del
nativo australiano Warwick Thornton e dall'indicare in Charlie
Plummer il più interessante attore emergente (per l'ottimo
Lean on Pete
di Andrew Haigh). E dal premio per la migliore sceneggiatura, andato a
Three billboards Outside Ebbing Missouri di Martin McDonaugh, che
divertirà i pubblici di ogni genere e grado offrendo la stessa quantità
di emozioni e suggestioni di una intera serie tv, ma senza far perdere
troppo tempo.
Le Coppe Volpi (ma perché non le chiamano
direttamente Coppe Mussolini? Eppure si stanno rafforzando giustamente
le leggi contro ogni schiamazzo fascista…) riconoscono le performance
affilatissime, sapienti e “brechtiane” di Charlotte Rampling (produzione
Rai, super sponsor della Mostra) e Kamel El Basha (attore palestinese
di teatro, esordiente nel cinema, del film libanese
The insult, un
gioiello per il mercato d'essai).
Frutto dei compromessi
inevitabili di giuria invece sia il Leone d'argento per la regia al film
francese di regime (w la polizia, abbasso i magistrati garantisti)
Jusqu'à la garde dello studioso dei piaceri schermici statisticamente
tollerabili per lo spettatore medio Xavier Legrand (una sorta di nuovo
Kechiche, diversamente puritano) che il gran premio della giuria a
Foxtrot, dell'israeliano Samuel Maoz (degradato rispetto al Leone d'oro
per lo sciovinista Lebanon), grottesco semisatirico sull'esercito,
infarcito di allegorie banalissime anti arabe (cammello=Hamas).
Probabilmente il presidente della giuria ha pensato bene di equilibrare,
per non creare polemiche a Hollywood, il riconoscimento a un
palestinese. Divertente (sarcastico) la reazione sia di Beirut che di
Tel Aviv ai due concittadini premiati che rischiano entrambi la galera o
il disprezzo di stato. Prendere in giro il Mossad o l’esercito è però
diventato per Israele un fiore all’occhiello. Noi siamo democratici,
tutti i paesi arabi non permetterebbero mai una tale libertà di
fraseggio. Ma c’è sempre qualche ministro (della cultura in questo caso)
che si dimentica il copione.
Comunque. Molti hanno vinto alla
Mostra 2017. Ha vinto John Landis che ha dirottato, col suo prestigio,
un enorme interesse per gli esperimenti in realtà virtuale (“che non
segna la fine del cinema tradizionale” assicura Landis. Sembra piuttosto
una intensificazione delle nostre potenzialità ricettive). E il film
che ha vinto, d'animazione, Arden's Wake di Eugene Chung ci sprofonda,
anche lui, nell'oscurità postapocalittiche dell'Oceano. Ha vinto
Frederick Wiseman, radiografo della Public Library di New York,
raccontandoci perché “Trump è la dimostrazione del fallimento del nostro
sistema educativo. Come diceva l'acuto intellettuale degli anni '20
Henry Louis Mencken “è impossibile sottovalutare la stupidità del
pubblico americano”. Ma almeno in Usa il sistema delle biblioteche
pubbliche è un valido antidoto al declino esiziale della civiltà
occidentale.
Ha vinto la Rai che è riuscita a lanciare nel mondo
una sua produzione internazionale, Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli,
copiando il metodo Canal Plus (uso e abuso di Cannes).
Ha vinto
Barbera, e il suo gruppo di selezionatori (un cartellone apprezzato, dei
premi adeguati) e Baratta (per i miglioramenti logistici della Mostra,
ma siamo ancora a inizio cantiere: solo tra 5 anni il Des Bains tornerà
quello che era...).
Non commentiamo né le Giornate, né la
Settimana, né Orizzonti perché non abbiamo potuto vedere quasi nulla in
queste sezioni. Il corpo umano non è ancora capace di quadruplicarsi. A
Cannes i critici transalpini vedono tutti i film delle sezioni
collaterali prima del festival. Ma lì siamo ad aprile. A luglio e ad
agosto ci sembra dura. Però una riduzione di film e una organizzazione
del palinsesto più efficiente sarebbe auspicabile. A meno che quel che
vogliono i produttori è non far vedere i loro film a chi li dovrebbe
pubblicizzare. Che i critici siano fatti fuori, sostituiti dagli
apologeti corruttibili o meno, è sempre stato un vizio in Laguna.
Ricordate il Mose?