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Roger Ebert, critico cinematografico del Chicago Sun-Times |
Roberto Silvestri
Se
ben due pollici in alto sono il simbolo del capolavoro assoluto, ed è il segno
grafico più gratificante che un film possa mai avere, sono chicagoans i suoi
inventori. Uno, Roger Ebert, proveniva dal quotidiano progressista Chicago Sun-Times, l’altro, Gene Siskel,
dal conservatore Chicago Herald Tribune.
In un celebre programma televisivo statunitense (diffuso dalla rete pubblica
Pbs) nato nel 1967, nel quale si azzuffavano per davvero, il primo, più
passionale, allargava con sagacia e buon senso i confini del bello schermico,
deturpando il canone ufficiale e spiegando l’importanza ‘estetica’ di
sensibilità ricettive e contestative ancora underground, ai margini della
cultura e dei comportamenti ufficiali e wasp, come il punto di vista zen,
rasta, black, gay&lesbian, della satira estrema stile Mad o camp.
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Gene Siskel (a sinistra) e Roger Ebert discutono di cinema in tv |
L’altro, più
strutturato, cercava, con humour fine, di frenare l’irruzione di quei
pericolosi virus subculturali,
erigendosi a paladino dell’aristocraticità critica, dei gusti accademici,
altezzosi e rispettabili rispetto alla vitalità pericolosa del fumetto,
dell’horror, del soft porn, della fantascienza, del pensare criminalmente altri corpi possibili e
immaginabili… Insomma il subumano era in lotta con il sovrumano, e il problema
era: come si può paragonare o equiparare un capolavoro di Bergman con un Grease qualsiasi? Perché El Norte di Gregory Nava è più
interessante di uno spigoloso e slabbrato Kubrick? Come mai Toro scatenato è un capolavoro e Il colore dei soldi un abominio?
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Martin Scorsese intervistato da Steve James per "Life itself" |
Ma qualche volta
il sovrumano e il subumano si alleavano contro il pregiudizio dell’umano medio
o del luogo comune e il “doppio pollice in alto” indicava, smodatamente e
smoderatamente, i film che scavalcano il cinema, andavano oltre, portavano
all’estasi eccitante e ipotizzavano vita e mondo diversi da questo. Senza
parolone difficili, senza troppa filosofia… Infatti l’intento del programma era
rossellinianamente didascalico: si
consigliava allo spettatore in cerca di un giudizio intelligente da affermare
su un film di applicare il celebre e mai fallace test Siskel: “questo film è interessante almeno quanto un
documentario con gli stessi attori che mangiano a cena?”. E, commentava Ebert:
“ogni filmaker saggio dovrebbe essere abbastanza saggio da porsi questa
domanda, intraprendendo un nuovo progetto”.
Martin Scorsese che era amico di Ebert – il Sun-Times lo aveva calorosamente sostenuto fin dalle prime prove di
regia - fu molto colpito, e in pieno mento, dalla stroncatura pubblica subita
in quel programma di successo dal suo remake con Paul Newman: “Ero
completamente distrutto in quel momento dalla cocaina. La franchezza di quella
critica mi rimise in sesto”.
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Il poster del film su Roger Ebert |
All’inventore
(duale) di thumbs system è dedicato
un bellissimo film, Life itself,
diretto da Chicago Steve James (suo il celebre e acclamato High Dreams, un documentario del 1994 sul basket universitario di
Chicago che non fu - scandalosamente - candidato agli Oscar, proprio come
questo) che incredibilmente è arrivato perfino sui nostri schermi. Non
perdetelo.
In realtà è su Roger Ebert, anzi sugli ultimi giorni di vita del
critico malato terminale di cancro che racconta (tra scene clinica di
insostenibile autenticità, che la moglie african-american Chazz non sempre
aveva autorizzato) la sua vita e le sue opere, perché Siskel era già morto,
anche lui prematuramente, nel 1999. E
oltre a materiali di repertorio gustosissimi, e alla testimonianza coraggiosa
di Scorsese, vedremo parlare di Ebert anche amici imprevedibili, come Werner
Herzog, o talenti in grande crescita, come il gentile e premuroso filmaker di
origine iraniana Ramin Barhani.
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Il regista Steve James |
Ma Ebert è sconosciuto in Italia. Addetti ai
lavori a parte. Lo incontravamo sempre al festival di Cannes. E la sua
passione, allegria e energia erano davvero contagianti. E affiorano anche dalle
immagini più dolorose del film, come se quel sorriso infantile nessuna morte
sarebbe mai stata in grado di cancellare. Che poi è il senso del lavoro
critico. Non uccidere mai i film, anche quando sembra, perché il cinema è un un
grande sì alla vita e il movimento critico è sempre un processo di
avvicinamento al suo punctum, non al verdetto capitale di un tribunale….Life itself. E’ la vita stessa. Ma. I
suoi saggi e le sue recensioni non sono mai state tradotte in Italia.
Eppure i
navigatori della rete lo conoscono benissimo perché Ebert socializzava da
sempre tutti i suoi scritti. E ha creato un vero movimento critico collettivo.
Alcuni dei suoi libri (uno, per esempio, l’Ebert’s
Bigger Little Movie-Glossary, sui clichés, i luoghi comuni, le convenzioni,
gli stereotipi e le scene “fatte” o “obbligatorie” dei blockbuster) è stato
scritto da Ebert nel 1999 proprio in comune, assieme ai suoi fan, e composto in
rete… Dunque bisogna tornare un po’ indietro nel tempo e vedere come è nato il
modo sessantottino di fare critica. La terza via. Né apologia dell’esistente e
del vincente, né la snobberia del rifiuto di un’arte troppo commerciale….
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Primo anno a Cannes .... |
Chi
ci piace leggere oggi tra i critici viventi di tutto il mondo? Bill Krohn,
tutti quelli di Trafic, il brasiliano
Amir Labaki, la femminista Molly Haskell, il tedesco Olaf Mueller, gli italiani
Aprà, Ghezzi e Cappabianca, Noel Simpsolo, Rancière…. Chissà perché non li
troviamo mai nelle giurie dei grandi festival internazionale di serie A. Il
loro approccio sempre leggiadramente dentro/profondamente
fuori le opere ha quel tocco barocco
in più… Ma all’inizio fu James Agee (1909-1955).
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Il decano della critica nordamericana, James Agee |
Prima
delle nouvelle vague, di Pauline Kael, di Farber & Sarris & Vogel, e
della generazione dei critici-registi nipotini di Eisenstein (da Godard e
Truffaut a Glauber Rocha e Bogdanovich da Oshima e Ruiz a Ghatak e Joe Dante)…
Prima anche dei grandi festival anomali (come Massenzio, o Salsomaggiore o
Telluride, o Torino di Turigliatto/D’Agnolo Vallan) che trasformarono la critica
in una pratica collettiva di rimessa in discussione dei (dieci?) comandamenti
dello sguardo e delle pose. Insomma prima di tutto questo Agee era il punto di
riferimento colto della critica cinematografica statunitense scritta.
Veniva da Harvard, dove era arrivato dal Tennessee.
Grande bevitore e fumatore. Le sue recensioni uscivano su Time e The Nation, ma anche su Fortune e Life. La
resurrezione di Buster Keaton e dei grandi divi del muto si deve a lui.
Appoggiò contro tutti Monsieur Verdoux
di Chaplin. E scandalizzò i connazionali riempiendo di elogi Enrico IV, Enrico V e Amleto di
Laurence Olivier e quello stile “tutto inglese” e così poco naturale di mettere in scena Shakespeare
come fosse teatro No. Come fanno
divinamente bene gli inglesi i cattivissimi…Ma Agee non era un critico “puro”,
come, in Eva contro Eva, è George
Sanders, il terrore di Broadway e off Broadway. O come era Bosley Crowther, che
sul New York Times aveva difeso i
black listed contro il senatore McCarthy, ma non ebbe il coraggio di scagionare
Gangster Story di Arthur Penn dalle
accuse di “ultraviolenza” (così come la pronipote radicale newyorker Pauline
Kael fraintese perennemente Clint Eastwood).
Agee non aveva studiato nel dipartimento cinema
dell’Ucla, ma letteratura ad Harvard e “vita agra” sulle strade di tutto il
mondo. Era, infatti, un romanziere e un
poeta necrorealista che scriveva anche
di cinema. Come in Europa (Elsa Morante, Marotta, Moravia…), negli Stati Uniti
i primi critici cinematografici, di sostanza ma popolari, infatti, erano
scrittori raffinati (Graham Greene, Weldon Kees…) o, al limite, giornalisti di
grande livello. Dei Premi Pulitzer. Un riconoscimento che Agee infatti vinse,
postumo, nel 1958. Oppure scrittori coinvolti in sceneggiature mirate e
particolarmente significative. Nel suo caso due classici degli anni 50, La regina d’Africa, per John Huston
(1951) e, non senza problemi e bisticci, di La
morte corre sul fiume, per Charles Laughton (1955).
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Chazz e Roger Ebert |
Chi, proprio come Agee,
ha bevuto per tutta la vita anche troppo (prima che Chazz lo salvasse), vinto
giovanissimo il premio Pulitzer (il primo come film critic, nel 1975) e ha scritto una sceneggiatura altrettanto
memorabile per catturare la scultura interiore di un decennio (senza Beyond the Valley of the Dolls di Russ
Meyer niente Boogie Nights e niente Vizio di forma, il formidabile dittico
di Paul Thomas Anderson su Ellei), ma ha inventato la critica cinematografica
televisiva, è stato proprio Roger Ebert, from Chicago.
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Il giovane Ebert |
I critici sono poeti
della prassi preziosi. La libertà di ricezione che permette il cinema porta a
fabbricare pericolosi tumori immaginari che solo questi matematici della
chirurgia del cervello sanno estirpare. Chicago (da Lincoln a Disney, da Al
Capone a Obama, da Landis a Reagan) è stata una città molto vitale per il
cinema e dunque per la storia americana. Molti i cineasti che ne conservano
cultura e ritmi. I Belushi. John Hughes. Jack Benny. I Cusack. Bill Murray. Il
compianto Harold Ramis. Bob Fosse, Preston Sturges. Gloria Swanson. Robert Young.
Blanche Sweet. Kim Novak. Harrison Ford. Bruce Dern. Rock Hudson. Jason Robards
jr. Deryl Hannah. John Malkovich. Gregg Toland. Louella Parsons, la “pettegola
di Hollywood”…
Almeno una cinquantina i film memorabili girati dentro i suoi
paesaggi, abbelliti (Ordinary People)
o imbruttiti (The Blues Brothers) ad
arte. Chicago è tuttora sede di un prestigioso film festival che porta da
decenni in città il meglio della produzione mondiale, e non mainstream, grazie
al pioniere nella crescita e nello sviluppo di un alto “gusto interno lordo”,
Richard Penha (che infatti poi fu acquistato dal Lincoln Center di Manhattan).
Roma dovrebbe studiarlo a fondo. Ma la metropoli n.2 Chicago non è Los Angeles
né New York. Né la consumistica capitale dell’industria pop (gli studios e il
sistema ad esso collegato e non poco omertoso), né quella dell’arte
cinematografica estrema (l’underground, il Village Voice, Warhol, il
punk lower east side, l’hip hop nero e ispanico…).
Diciamo che il suo punto di
vista è equidistante dall’apologia dell’esistente, per quanto esiziale, e dallo
snobismo del pensiero negativo, per quanto vitale. Ebert si è collocato proprio
nella via di mezzo. Ottimo punto di osservazione, credibile e degno di fiducia,
che ha permesso un vitale mantenersi fuori dai giochi (perfino il curioso e
“aperto” critico Jonathan Rosenbaum, geneticamente esercente, combatte ereditari e interiori “conflitti di
interesse”…).